di Tania Careddu

Che la cannabis sia la sostanza psicoattiva più diffusa tra i giovanissimi è ormai cosa nota ma che il suo consumo sia in aumento tra le donne, e in particolare tra le studentesse, è un dato nuovo che emerge dalla Relazione annuale 2017 sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, curata dal Dipartimento per le politiche antidroga. Nell’appendice, Donne e dipendenze, si legge che il 28 per cento di queste, fra i quindici e i diciannove anni, ha utilizzato almeno una sostanza illegale nel corso della loro (ancora breve) vita e il 20,7 per cento lo ha fatto nel 2016.

Nessuna differenza di genere, dunque, nell’uso della cannabis che, invece, si rivela spiccata nella percezione del rischio correlato al consumo di droghe: le ragazze che considerano molto rischioso consumare sostanze psicoattive sono sempre in quota superiore a quella dei coetanei e per tutte le tipologie di sostanza, senza sottovalutare, però, che il 17.7 per cento delle consumatrici di cannabis ne fa un “uso problematico”.

Sebbene inferiore a quella dei maschi, non è, comunque, trascurabile la percentuale, pari al 2,8 per cento, delle studentesse che, almeno una volta, ha fatto uso delle cosiddette NPS, nuove sostanze psicoattive che comprendono catinoni, ketamine e painkillers. In ogni caso, rimangono gli oppioidi la sostanza primaria di abuso che spinge le donne a rivolgersi ai SerD, le strutture pubbliche per le dipendenze: complessivamente, nel 2016 in Italia, sono state assistite circa sei donne ogni diecimila residenti (contro quarantadue uomini) e con un’età media pari a trentotto anni, più giovane di quella maschile nonostante il progressivo invecchiamento dell’utenza femminile.

Più o meno simile il numero delle donne ricoverate con diagnosi principale droga correlata per abuso di sostanze miste: in crescita, inoltre, l’incidenza delle diagnosi di HIV tra la popolazione femminile e i casi di epatite virale acuta, con l’epatite C in testa tra le donne per l’uso di sostanze iniettive. Fortunatamente negli ultimi dieci anni, si assiste a una diminuzione, più marcata tra le donne, della mortalità legata all’uso eccessivo di droghe.

Ma se la mortalità cala, aumentano del 10 per cento circa le donne denunciate per reati connessi alle sostanze stupefacenti, con un incremento spiccato tra le minorenni. Seicentodiciotto donne, di età compresa tra i venticinque e i cinquantaquattro anni, nell’anno considerato, sono state condannate per reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze illegali o per associazione finalizzata al traffico di queste e, dal punto di vista geografico, il Lazio è la regione più viziosa con trecentonovantotto donne coinvolte nel traffico di stupefacenti, seguita da Campania, Lombardia, Puglia, Sicilia ed Emilia Romagna, versus Molise, Basilicata e Valle d’Aosta, le regioni più virtuose.

di Tania Careddu

Non è il background migratorio, non sono le condizioni economiche e nemmeno la bassa scolarizzazione a spingere numerosi giovani musulmani che vivono nelle città europee a diventare foreign fighters jihadisti. Il fenomeno del fondamentalismo che li porta a partecipare attivamente alla lotta armata o ad aderire a reti internazionali di terrorismo è, piuttosto, la ‘deculturazione’ della religione. Che, in questo caso, assume la forma integralista per sancire una netta presa di distanza dal rifiuto dei valori della cultura occidentale.

Accomunati dalla necessità di riaffermare la propria fede in rottura con la tradizione culturale, questi gruppi rifiuterebbero, così agendo, la matrice che, nei secoli dei secoli, è stata imprescindibile punto di riferimento per i fedeli. E chechè ne dicano i più esperti studiosi dell’Islam, che la causa dell’arruolamento non sia da ricercarsi in motivazioni di ordine psichico, va da sé che, se la decisione di ‘cambiare’ la propria fede nasce da un bisogno soggettivo “legato a un desiderio di identità”, secondo quanto si legge nella ricerca “I processi di radicalizzazione religiosa nelle seconde generazioni” redatta dall’ISMU, le ragioni sono spesso psicologiche, strettamente legate a un vissuto personale.

Tanto che, nell’adesione alla comunità jihadista, la rottura con il mondo precedente diventa traumatica, investendo, in primis la propria famiglia ritenuta poco devota, e poi tutti coloro che non si rivoltano contro una società occidentale senza valori. La perdita di senso suscitata da un’esistenza dentro una società secolarizzata e il malessere (per la frustrazione dovuta al ruolo subalterno e remissivo interpretato dai genitori primomigranti) provocato dal caos del mondo moderno, coinvolge perlopiù le seconde generazione – i figli nati a seguito delle ondate di ricongiungimenti famigliari degli anni successivi al 1974.

Sono cresciute nel cuore dell’Europa e rifiuterebbero ciò che i loro genitori rappresentano, riconducibile a una spinta sottomissione alle regole formali delle società occidentali, l’ignoranza dei precetti religiosi e l’umiliazione che deriva da lavori servili sottopagati.

La percezione di profonda inadeguatezza nel vivere all’interno della realtà sociale in cui sono inseriti (e formalmente integrati) trova la via d’uscita al proprio dramma esistenziale nel terrorismo per ‘vocazione’: entrare a esserne membro attivo per appagare il bisogno di verità assolute, cioè di valori che diano senso alla loro vita, per sottrarsi all’abisso rappresentato dalla mancanza di significato nella propria esistenza finanche alienando il mondo circostante (che favorisce la disumanizzazione dell’altro così da rendere più facile commettere stragi e omicidi).
Senza punti di riferimento stabili, cercano affannosamente una guida, un sistema di pensiero coerente e, soprattutto, rassicurante. Che propone un’ideologia totalizzante, violenta e radicale, capace di disciplinare tutti gli aspetti della vita, con una rigidità che abolisce ogni spazio di libera scelta individuale e che si fonda su una visione manichea del mondo. Il bene e il male.

Ma questo nuovo radicalismo islamico non è il palesamento dello scontro fra queste due realtà astratte e neppure fra civiltà quanto piuttosto la manifestazione di un problema di valori, di una richiesta di quella spiritualità (se ne esiste una) che sembra essere latitante nel mondo occidentale.

di Tania Careddu

In un’epoca storica in cui il confine tra disoccupazione, inoccupazione e inattività è sempre più sfumato e i giovani sempre più silenti e defilati rispetto alla partecipazione attiva alla vita politica e sociale, l’unico grido degno di nota è che la disoccupazione protratta nel tempo sia la più grande delle ingiustizie sociali. Pur avendo smarrito i luoghi e gli spazi nei quali coltivare le ambizioni e le realizzazioni e navigando in un abisso di diffidenza, i giovani, tra i venticinque e i trentaquattro anni, non hanno, però, perso la loro aspirazione: un’occupazione e non il reddito di cittadinanza.

Perché il lavoro mantiene, comunque, una fortissima centralità nella costruzione dell’identità dei giovani italiani: sebbene consapevoli che il lavoro ha perso, infatti, il valore rappresentativo del contesto sociale, è a questo che affidano il compito di sostanziare un progetto di vita tanto che, per loro, la correlazione tra condizione occupazionale e realizzazione personale è percepita come una delle chiavi principali di accesso alla felicità (pena scoprire, poi, che questa sia un grande inganno).

La lotta all’ingiustizia verso l’uguaglianza delle opportunità e la valorizzazione delle capacità individuali passa per l’equo accesso al mondo del lavoro, per entrare nel quale, i giovani, intervistati nella ricerca Lavoro consapevole, realizzata dal Censis, utilizzano ancora il canale informale basato sulle relazioni famigliari, parentali e amicali e, solo in seconda battuta, l’invio del curriculum a privati tramite strumenti digitali o comunità professionali on line (vedi Linkedin). Perché, tutto sommato, a loro manca la conoscenza approfondita delle modalità di accesso e dei meccanismi a sostegno dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro che parrebbero non essere sufficientemente sedimentati.

Un disallineamento che fa il paio, coinvolgendo la metà degli occupati, con quello tra le competenze acquisite nel percorso formativo e il lavoro svolto: a fronte del bisogno e dell’esigenza di mettersi in gioco, senza aspettare troppo, finisce per imporsi la necessità di accettare quello che offre il mercato. L’elevata propensione al sacrificio e la disponibilità a valutare offerte di lavoro, anche se a carattere discontinuo, confermano la tendenza delle nuove generazioni a combattere, in tutti i modi, il rischio dell’esclusione sociale.

Sebbene in lieve miglioramento, le motivazioni alla base dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile ancora presente in Italia, per i giovani sono da ricercarsi nello spostamento in avanti dell’età pensionabile, nel mancato funzionamento delle dinamiche che sottendono all’incontro fra domanda e offerta di cui sopra, e nella crisi economica con la conseguente riduzione del tasso di assorbimento delle imprese.

Sotto accusa, anche, la scuola per lo scollamento tra istruzione e competenze richieste dalle aziende, la pubblica amministrazione che ha smesso di assorbire forza lavoro, e il sistema della formazione professionale. Restituire la fiducia e un’immagine di identità professionale reale ai giovani che cercano un impiego per la prima volta o a chi si trova nella condizione di doversi ricollocare è un atto dovuto, anziché no, un dovere istituzionale.

 

di Tania Careddu

La lunga recessione ha cambiato (forse irrimediabilmente) il tradizionale quadro di contesto del lavoro: fallita la ricerca del posto fisso e diminuiti i costi per l’avvio di un’attività imprenditoriale autonoma, l’intraprendenza delle donne la fa da padrona nella fase della ripresa. Scelta obbligata o aspirazione, il nuovo protagonismo femminile appare motivato da uno spunto all’iniziativa personale. Così energica che le imprese rosa sembrerebbero guidare l’uscita dalla crisi: crescono più della media del sistema imprenditoriale anche in ambiti, fino a qualche tempo fa, presidio esclusivo di imprese al maschile.

In barba a chi volesse derubricare questo recupero a derive di femminilizzazione di alcune professioni in declino o di insediamento in determinati segmenti marginali delle attività economiche, a fare la differenza è, piuttosto, la crescita (del 2,6 per cento) in aree, tipicamente androgine, quali l’energia e le costruzioni, settore, questo, che, complessivamente, perde il 2,1 per cento delle imprese.

L’andamento dell’occupazione indipendente, tra l’altro, mostra la perdita di oltre trecentomila posizioni lavorative, tutte concentrate nella componente maschile versus quella femminile che tiene e cresce, nonostante tutto, di settantunomila occupate. Prova ne sia che, dal 2015, si registra una tendenziale ripresa delle imprese guidate da donne rispetto alla crescita degli imprenditori, avvenuta un anno più tardi. Tra il 2014 e il 2016, l’incremento delle imprese femminili è stato dell’1,5 per cento, il triplo rispetto alla crescita dell’intero settore che non è andato oltre lo 0,5 per cento: tutto sommato, su un totale di sei milioni e settantaquattromila imprese registrate, il 21,8 per cento è guidato da donne.

Confermano una presenza crescente nella moda, nel turismo e nell’agroalimentare, soprattutto nel Mezzogiorno, dove hanno sede quattrocentosettantaseimila aziende rosa, principalmente nelle aree metropolitane: Reggio Calabria, Catania, e Palermo in testa, e nelle regioni del Centro mentre presentano incrementi più contenuti quelle del Nord Ovest e del Nord Est, con Piemonte, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Liguria e Marche he segnalano una dinamica negativa; Roma e Milano, sebbene siano sotto il valore nazionale, presentano gli stock più elevati: quattrocentasessantaquattromila imprese femminili si concentrano in queste aree metropolitane.

A spiegare il sorpasso, verosimilmente, l’investimento in capitale umano realizzato negli ultimi decenni dalle donne che ha fatto lievitare a quasi il 54 per cento la quota delle laureate tra le occupate, sette punti percentuali in più rispetto ai colleghi uomini.

“Le donne - riassume il presidente di Confcooperative, che ha effettuato la ricerca Donne al lavoro, la scelta di fare impresa, Maurizio Gardini, hanno avuto il talento di trasformare fattori di svantaggio, tra pregiudizi e retaggi culturali, in elementi di competitività, riuscendo ad anticipare i fattori di novità del mercato, tanto che la ripresa è trainata dalle imprese femminili che crescono dell’1,5 per cento rispetto a una media dello 0,5 per cento.

Nelle cooperative, fanno meglio. Perché una su tre è a guida femminile, è donna il 58 per cento degli occupati e la governance rosa si attesta al 26 per cento. Le donne hanno trovato nelle cooperative le imprese che più si prestano a essere ascensore sociale ed economico perché sono le imprese che coniugano meglio di altre vita e lavoro. La conciliazione resta il prerequisito per accrescere la presenza delle donne nelle imprese e nel mondo del lavoro.”

di Tania Careddu

“I primi mesi del 2017 sono stati caratterizzati da fenomeni diffusi, determinati anche per effetto del deficit idrico che ha interessato quasi tutto il Paese, e da un’intensificazione degli interventi rispetto al passato, con un numero di richieste di soccorso della flotta aerea antincendio dello Stato in forte aumento in confronto agli anni precedenti, al punto da risultare la stagione più complicata dal 2004, dopo quella del 2012”. La dichiarazione del presidente del Consiglio dei ministri, risalente a un mese fa, relativa alle attività antincendio boschivo per la stagione estiva, dà la misura della criticità del fenomeno incendiario che sta mandando in fumo il Belpaese.

Solo da metà giugno a oggi, sono andati a fuoco ben ventiseimila ettari di superfici boschive: tredicimila in Sicilia, quasi seimila in Calabria, duemila e cinquecento in Campania, più di mille e cinque in Puglia e nel Lazio e quattrocentonovantasei in Sardegna. Settecentosessantaquattro, raggiungendo il record decennale, le richieste di intervento da parte delle regioni alla protezione civile.

Se le temperature torride e la scarsa manutenzione dei boschi rappresentano un mix esplosivo per l’innesco, l’Italia brucia, soprattutto, per la mano criminale dell’uomo: speculazioni edilizie, appalti per manutenzione e rimboschimenti, guardianie imposte, estorsioni delle superfici destinate al pascolo, ritorsione o come strumento di ricatto politico, le motivazioni alla base del dolo.

Che, oltre agli ingenti danni al patrimonio di biodiversità e ai rischi per l’incolumità delle persone, genera danni economici i quali, nel 2016, ammonterebbero intorno ai quattordici milioni di euro mentre i costi per l’estinzione a otto. E la conta complessiva ha effetti diretti anche sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici e della tenuta degli ecosistemi, contribuendo pure a pregiudicare la già precaria tenuta idrogeologica.

A scongiurare la devastazione dei roghi manca una sinergia tra i diversi soggetti interessati: i mezzi aerei – quattordici canadair, tre elicotteri dei vigili del fuoco e tre della Difesa – non sono sufficienti da soli se non sono coadiuvati da azioni di bonifica delle squadre a terra. Troppo spesso trascurate, le mancate bonifiche hanno come conseguenza che un incendio, spento di giorno, riprenda durante la notte perché, dopo l’intervento con i canadair, non sono state svolte tutte le operazioni necessarie al definitivo spegnimento.

Con un effetto differenziale: oltre il danno, anche, di un’azione inefficace a lungo termine, pure la beffa di un altissimo costo dato dal noleggio dei mezzi aerei di società private, a carico della collettività, a causa di un uso, da parte delle organizzazioni regionali, sproporzionato di questi.

Ma è la macchina organizzativa centrale a funzionare a singhiozzi: nonostante siano passati diversi mesi dalle scadenze previste dall’annuale direttiva sul punto, emanata dal Consiglio dei ministri, ancora gli interventi nazionali non sono stati messi in campo. Latita il decreto attuativo relativo all’assorbimento del corpo forestale dello Stato in altre amministrazioni, la cui assenza genera difficoltà operative negli interventi concreti.

Manca l’integrale aggiornamento annuale dei Piani Antincendio Boschivo dei parchi e delle riserve naturali: al momento ne risultano vigenti tredici, otto con l’iter non ancora concluso e due parchi con il Piano scaduto, secondo quanto si legge nel "Dossier Incendi 2017", redatto da Legambiente. Ritardi ingiustificati con conseguenze disastrose e tempi biblici nella definizione e chiusura di tutte le fasi preparatorie per la piena operatività nelle attività di previsione, prevenzione e intervento. Siamo in Italia.


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