Un paese sfaldato, impaurito, impoverito, dagli aspetti contraddittori; da una parte la numerologia - forse addirittura concreta - che indica una crescita economica; dall’altra la percezione (e non solo la percezione) di non farcela, in un declino verticale che, come ripetono, sembra duro a morire. Scomponendo gli ultimi dati del rapporto Censis ci sarebbero in dicotomia, un sistema produttivo che si mostrerebbe in ripresa (ma solo grazie al manifatturiero) di pari passo a un senso generale di sfiducia nelle istituzioni, nei partiti politici (potrebbe essere altrimenti?).

In un sistema universalistico di protezione sanitaria tra i più avanzati al mondo in cui la tutela della salute è molto inclusiva e garantita a tutti, permangono grosse sacche di cittadini italiani e stranieri che rinunciano alle cure per ragioni legate al proprio reddito, alimentando un pernicioso circolo vizioso che conduce a un generale peggioramento delle condizioni di salute. Si chiama povertà sanitaria.

 

Che non è solo una piaga aperta nel tessuto sociale ma è origine di un malessere che ha conseguenze epidemiologiche e cliniche che possono protrarsi nel tempo. Se continuano a persistere sensibili difficoltà di accesso alle cure e ai farmaci anche per chi non è povero in senso assoluto, interessando venti famiglie su cento, figurarsi la limitazione della spesa sanitaria per i più indigenti, fra cui spiccano gli stranieri, chi ha un basso titolo di studio, chi ha più figli, chi vive al Sud, casalinghe, pensionati e giovani minorenni.

 

Nel complesso, secondo quanto si legge nel “Rapporto 2017 Donare per curare”, redatto da Banco Farmaceutico, un individuo su tre è stato costretto a rinunciare, almeno una volta, ad acquistare farmaci o ad accedere a terapie e a visite mediche, soprattutto odontoiatriche, e spesso anche perché impossibilitato al pagamento del ticket.

 

Ma al di là del ridotto budget di cui dispongono i cittadini residenti bel Belpaese, l’accesso alla sanità è limitato anche da tre ordini di motivi: molte prestazioni non sono coperte dai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza); una parte della spesa personale è generata dal problema diffuso delle liste d’attesa che spinge alla sanità privata; la generosità a macchia di leopardo del Sistema Sanitario Nazionale, molto variabile a seconda dei contesti regionali, che genera profonde disuguaglianze.

 

E’ in atto un rapido e intenso mutamento di composizione della popolazione residente in Italia del quale “si deve tenere conto nel pianificare interventi sanitari di cura e prevenzione”, si legge nel Rapporto, includendo il fenomeno dell’immigrazione come elemento strutturale e non più transitorio ed emergenziale.

 

Considerato ciò, soprattutto per gli stranieri non in regola con le norme sull’immigrazione, i principali deterrenti nel rivolgersi alle strutture pubbliche sono il timore dell’identificazione, della scarsa conoscenza delle procedure e le barriere linguistiche, culturali, psicologiche e religiose.

 

Di importanza pari a quella esercitata dall’appartenenza etnica e dalla migrazione, i determinanti socio-economici rappresentano, sempre, un sostanzioso fattore di rischio per le malattie croniche, che faticheranno a essere trattate adeguatamente se si pensa che i più poveri per curarsi possono spendere solo centosei euro all’anno. Ventinove centesimi al giorno.

Sembrerebbe una realtà lontana anni luce dall’evoluto contesto culturale italiano, eppure il fenomeno dei matrimoni precoci nel Belpaese ha un tasso percentuale pari al 77 per cento, superiore al record mondiale (detenuto dal Niger, del 76 per cento). Nel corso degli ultimi due anni, su una popolazione di circa tremila abitanti nelle baraccopoli situate nella città di Roma, i matrimoni contratti con un coniuge ancora minorenne sono stati settantuno.

A ridosso della diciottesima Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, resistono ancora stereotipi e luoghi comuni. Non solo relativamente al tema della ricorrenza, istituita dall’Onu nel 1999, per cui resiste la tentazione a rimettere in causa la donna come origine più che come destinataria degli atti violenti ma anche sull’immagine femminile.

“Viviamo in una società la cui cultura dominante è basata sull’appropriazione di quel che serve ad accumulare, dalla terra al patrimonio genetico, al tempo delle persone. In America Latina, dove le risorse naturali sono particolarmente ricche, molti chiamano l’ideologia che nutre questo sistema di relazioni sociali, estrattivismo”. Così lo definisce il giornalista uruguayano Raul Zibechi, nell’apertura del webdoc "Le nuove frontiere della società estrattivista", realizzato da Re:Common.

 

Storicamente considerato un’esclusiva del Sud del mondo, l’estrattivismo è diventato un modello che non risparmia nemmeno il Nord sviluppato perché “consiste nella sottrazione sistematica di ogni tipo di ricchezza dai territori, con il conseguente trasferimento di sovranità da chi quei territori li abita a chi li depreda”, si legge nel webdoc.

 

E, quando le grandi opere infrastrutturali, decantate come grossi progetti di sviluppo, causano danni permanenti e irreparabili sul territorio in cui vengono imposte, è estrattivismo a ogni latitudine. Quando si impone dall’alto non permettendo alle comunità del luogo di decidere sul futuro proprio e dei territori che abitano. E’ mancanza di democrazia perché, non solo non porta sviluppo, ma soprattutto incide negativamente sul sistema di relazioni sociali ed economiche.

 

Produce ricchezza, certo, ma che finisce nelle mani di pochi, tutelati dallo Stato anche fisicamente, posizionando militari a difesa del cosiddetto ‘sito di interesse strategico nazionale’ di turno sia esso una diga, un gasdotto, un porto o un treno ad alta velocità. Inganna intere comunità e paesi millantando un concetto malsano e deviato di sviluppo.

 

E’ il caso della Val di Susa o del TAP o gasdotto trans adriatico di tremila e cinquecento chilometri, promosso dalla Commissione europea come ‘progetto strategico’ per portare il gas proveniente dall’Azerbaigian. In realtà, di strategico ha ben poco: danneggia il territorio ben oltre la sua costruzione, perturba l’economia che nell’ambiente ha il suo punto di forza, serve interessi finanziari altrui, sostiene governi autoritari.

 

Ma, a essere fallimentare non è il singolo progetto, pensato e riuscito male, è proprio il modello, orientato, com’è, a rigenerare il sistema senza considerare le conseguenze che la sua applicazione avrà sull’intero pianeta. Per la presunta nobile causa del progresso economico, sacrifica luoghi che, per gli sfruttatori di risorse, contano ben poco e perciò possono essere distrutti, prosciugati o decapitati come le montagne.

 

Percepito dapprima come un fatto ambientale, poi come modello economico, oggi l’estrattivismo è un modello di società, in cui si “stabiliscono relazioni asimmetriche tra le imprese transnazionali, gli stati e le popolazioni”, si legge nel libro La nuova corsa all’ora di Zibechi. E come le grandi opere, ha un impatto disgregante sulle comunità.


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