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- Scritto da Tania Careddu
Esiste una violenza ai danni delle donne che non fa (quasi mai) notizia e che non è neppure un reato. Trattasi di quella che quattro mamme su dieci hanno subìto durante la loro prima esperienza di maternità: il 21 per cento delle mamme italiane, secondo quanto è emerso dalla prima indagine sul fenomeno in Italia, le Donne e il parto, condotta da Doxa, è stata vittima di maltrattamenti fisici o verbali, subendo azioni lesive della dignità personale durante il parto.
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- Scritto da Tania Careddu
“Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l’ultimo della classe, ero il penultimo. Refrattario dapprima all’aritmetica, poi alla matematica, profondamente disortografico, poco incline alla memorizzazione delle date e alla localizzazione delle lingue straniere (…) In ogni caso, sì, la paura fu proprio la costante di tutta la mia carriera scolastica: il suo chiavistello”. L’Esperienza di Daniel Pennac, raccontata nel libro autobiografico Diario di scuola, sembra essere lontana anni luce da quella serbata nei ricordi della stragrande maggioranza degli italiani.
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- Scritto da Tania Careddu
Dalla caduta del muro più famoso d’Europa - quello di Berlino, nel 1989 - il numero delle barriere costruite dagli uomini per separarsi da altri esseri umani è aumentato esponenzialmente. Se all’inizio degli anni novanta se ne contavano quindici a carattere repressivo-difensivo, a oggi la lista ne annovera oltre sessanta che interessano sessantasette Stati. Dal duemila, poi, il boom delle fortificazioni è esploso con la costruzione di circa dieci chilometri di filo spinato e cemento. Dodici in Africa, due in America - uno fra Stati Uniti e Messico e uno fra quest’ultimo e il Guatemala - trentasei in Asia e Medio Oriente e sedici in Europa.
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di Tania Careddu
“La nuova struttura è temporanea, ma ben organizzata. E’ un notevole passo avanti rispetto alle tensostrutture. Non sappiamo però quanto resteremo qui, perché ancora non sappiamo quali scuole potranno essere recuperate e quali invece no”, racconta ad Actionaid, una maestra delle scuole colpite dal sisma in Centro Italia, un anno fa. Per oltre trentamila studenti regna ancora l’incertezza: ritardi, poca trasparenza e pochi coinvolgimenti delle comunità locali.
“Col sindaco abbiamo contatti frequenti ma per il resto non abbiamo avuto informazioni dal ministero o da altre istituzioni e non sappiamo quanto staremo nei container”, continua. Quello che si sa è che la gestione della ricostruzione appare piuttosto accentrata: le decisioni sono in mano al Commissario straordinario per la ricostruzione e ai governatori delle regioni colpite – Abruzzo, Lazio, Marche, Umbria – senza un reale coinvolgimento delle comunità locali.
Sarebbero necessari centonove interventi di edilizia scolastica per un totale di trecentoquarantadue milioni di euro e nelle ordinanze del Commissario, il governo ha previsto un totale di settantadue scuole di nuove costruzioni nelle quattro regioni colpite dalle scosse, più altri quaranta interventi edilizi di vario tipo, come adeguamento, completamento, miglioramento e ampliamento delle strutture.
Ma non è chiaro perché le risorse della terza campagna fondi post sisma – arrivate a quota tre milioni e rotti di euro con l’obiettivo di intervenire sui plessi scolastici – siano state destinate anche ad altre opere pubbliche. Di fatto, “una ricostruzione efficace non può che essere trasparente e partecipata”, dichiara il segretario generale di Actionaid, Marco De Ponte. Che conntinua: “A oggi non sappiamo ancora quante sono le risorse messe in campo grazie alle donazioni, ai fondi pubblici e a quelli privati. Per una vera rinascita, non solo materiale, sono indispensabili strumenti di trasparenza informativa e percorsi di partecipazione mirati alla costruzione di spazi di dialogo aperto, inclusivo e informato tra istituzioni e cittadini in merito alla ricostruzione e allo sviluppo del territorio”.
Che passa, soprattutto, per l’istruzione la quale permette alle famiglie di restare e così evitare lo spopolamento: prima del sisma, per esempio, la sede di Pieve Torrina – dove la situazione è molto precaria, la scuola è ancora in costruzione e l’inizio delle lezioni era previsto nelle tensostrutture dell’anno scorso – contava più di cento studenti, adesso tra elementari e medie saranno pressappoco settantacinque. Ciò a causa della carenza dei moduli abitativi emergenziali (SAE) che costringe le famiglie ad allontanarsi dai borghi.
Paradossalmente, a Visso l’edificio scolastico è agibile ma mancano le famiglie che non hanno ottenuto i SAE e perciò si è registrato un calo del 40 per cento degli iscritti. Però, dall’analisi della documentazione resa pubblica, secondo quanto si legge sulle pagine on line di Actionaid, non è possibile sapere con esattezza quanti studenti torneranno sui banchi in scuole provvisorie e quanti saranno collocati in nuovi edifici.
Pure nel cratere aquilano, dove, a distanza di otto anni dal terremoto, gli studenti riprenderanno le lezioni in strutture ‘temporanee’: non è ancora partito, infatti, nessun progetto di ricostruzione delle scuole pubbliche tanto che il maggior liceo della città, con oltre cento studenti, a oggi è ancora dichiarato inagibile.
La ricostruzione è lenta e poco chiara ma, forse, può essere l’occasione per “ricostruire, non solo gli edifici, ma le comunità”, è l’auspicio di tutti i docenti delle zone in questione.
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di Liliana Adamo
Qualora non fosse sufficiente un’estate equatoriale, se non bastassero le impennate di piogge torrenziali, le improvvise temperature in picchiata, potremmo definirlo un “clima sotto attacco”? Un accanimento dovuto soprattutto a una sistematica censura per ciò che concerne il dibattito sul surriscaldamento globale ed è curioso costatare che buona parte d’opinione pubblica “beneducata” o “maneggiata” che dir si voglia, sia persuasa alla lettera sugli orientamenti dell’amministrazione Trump. Un diffuso (quanto pleonastico) negazionismo di ritorno sembra aver operato con puntuale efficacia secondo le nuove direttive del governo americano.
Sarà sufficiente scrutare l’orizzonte per accorgersi che la pubblicità potrebbe non funzionare: la realtà dei fatti è molto più drammatica rispetto alla propaganda edulcorata che Donald Trump rifila al mondo intero con analfabetismo opportunistico. Semmai l’amministrazione americana ci induca a ritenere il cambiamento climatico alla stregua di una truffa, negli Stati Uniti (e altrove), si annovera l’estate più rovente mai censita finora, costellata da una lunga serie di disastri climatici.
E a guardare i notiziari serali su ABC, CBS, NBC, sull’ultra conservatrice Fox News, si scopre che c’è una “copertura combinata” per un totale di cinquanta minuti per tutte le reti, cinquanta minuti complessivi dedicati all’uragano Harvey. In pratica, è ciò che un articolo di George Monbiot, (columnist di The Guardian), espone come “la questione centrale che definirà le nostre vite, cancellata dai notiziari e dalla mente del pubblico”.
Dunque, “l’attacco al clima” è un atto politicamente edotto; non si tratta esclusivamente d’autocensura dei media, i quali si sa, hanno un particolare istinto a sminuire i problemi reali e ingigantire quelli di contorno. Il punto è, come giustamente asserisce Monbiot, di mettere in discussione non solo la politica di Trump, non solo l’attuale politica ambientale, non solo le strutture economiche sovranazionali e il post capitalismo o liberismo, ma l’intero sistema politico/economico/concettuale che abbiamo fin qui conosciuto.
O saremo noi a invertire la rotta o sarà la disgregazione climatica a farlo. Rendiamoci conto che il nostro organismo sociale globale, così “vecchio” e figlio di una cultura obsoleta, sta rischiando d’implodere in modo irreversibile: “Un sistema destinato, se non sostituito, a distruggere tutto”.
E allora il programma politico qual è? Preservare il presente, barcamenandosi tra “rappezzi” qua e là e sequestrare il futuro alle prossime generazioni; un programma che richiede una crescita perpetua su un pianeta finito, mentre la vita d’ognuno è dominata da un sistema non più sostenibile, che ha depauperato tutte le risorse reperibili.Affermare che non esiste correlazione tra la concomitanza di ben quattro uragani dalla potenza distruttiva e cambiamenti climatici, è una plateale immaturità politica e di rimando, mediatica; pura e semplice manipolazione per l’oggettività scientifica dell’evento in sé. L’insieme di calamità legate al meteo è influenzato da un unico fattore: che le temperature siano aumentate di circa 4° e in maggiore percentuale e che il riscaldamento globale sia dovuto alle attività umane.
Harvey, Irma, Jose, Katia, si sono abbattuti sulle coste dal Texas, a Cuba, da Haiti alla Florida, su gran parte delle isole caraibiche (distruggendole completamente), dal Golfo del Messico fino allo lambire (con relativo stato d’allerta) South Carolina, Alabama, Virginia. Dietro di loro, una lunga scia di lutti e danni incalcolabili, che richiederanno anni d’investimenti e sacrifici. Irma, “l’uragano nucleare” sarà ricordato come il più potente mai formatosi in oceano Atlantico; questo avviene dodici anni dopo la devastazione a causa di Katrina.
In media, tra il 1981 e il 2010 si sono verificati dodici tornado e sei uragani. Secondo il NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), quest’anno il numero sarà certamente superiore. Perché? Per le condizioni idonee alla formazione di grandi eventi atmosferici e a temperature oceaniche molto più elevate rispetto a qualche anno fa.
Ci sono poi elementi geotermici: forti monsoni dall’Africa Occidentale arrivati al Mar dei Caraibi e in parte, sull’oceano Atlantico tropicale, con la premessa che proprio quest’ultimo, possiede “un consistente potenziale termico”. In altre parole, dal mare evapora acqua che va a concentrarsi nella sovrastante atmosfera in una condizione che favorisce la formazione d’uragani; più intenso è il suo valore, maggiore sarà l’impatto con la terraferma.
Come deterrente alla stabilità meteorologica, c’è un’altra questione: la scomparsa di El Niño, la corrente del golfo che con i suoi venti freschi, indebolisce notevolmente la formazione degli uragani. Su un dato, molti climatologi concordano, non ci sono prove certe strettamente correlate all’aumento delle temperature terrestri, circa il numero crescente degli eventi, ma sulla loro intensità, sì. E questa sarà sempre più rilevante.
In conclusione, l’impatto sulle città costiere d’eventi meteorologici estremi come tempeste tropicali e uragani, è aggravato dal surriscaldamento globale attraverso due fattori. Il primo, imputa i livelli degli oceani sempre più innalzati per l’espansione termica, il secondo, include le stesse temperature del mare aumentate esponenzialmente negli ultimi anni (l’aria calda trattiene più acqua rispetto a quella più fredda).
Dove sono venuti fuori quattro uragani concomitanti? Prima di raggiungere il Golfo del Messico, Harvey era classificato in tempesta tropicale, tutto nella norma quindi, visto il periodo e le aree interessate; solo che spostandosi in quella vasta superficie di mare, ha trovato temperature molto più alte della media, incamerando tal energia da essere classificato al grado cinque, il più alto con potenziale di pericolosità.Una massa compatta talmente estesa da “frammentarsi” in più cicloni; se non bastasse, ci sarebbe stato un cedimento approssimandosi alla costa, dove si manifesta quel fenomeno chiamato storm surge, quando gli uragani, scivolano in mare, portando in superficie acque più fresche, ingrossandole e disperdendole sulla terraferma, ma ciò che ha incontrato Harvey anche in prossimità delle coste, erano acque surriscaldate.
Da qui si evince il collegamento in modo chiaro e importante tra l’intensità di questi fenomeni e i cambiamenti climatici in corso. Negarli, oltre che irresponsabile, è criminale.