di Tania Careddu

Sempre più cinico, iperinformato, pronto a condividere le proprie esigenze di consumo con gli altri, scaltro cacciatore di opportunità nei prezzi, nelle tipologie di prodotti e nella qualità: è il nuovo consumatore nell’era della (lenta) ripresa economica.

Tra stretta dei redditi e spese impreviste, gli italiani praticano una ricerca sistematica di massa e soggettiva, muovendosi e scegliendo all’insegna di una ibridazione tra shopping tradizionali e nuove modalità di acquisto (vedi il web).

Costretto alla scaltrezza nel distribuire il reddito tra risparmio cautelativo e consumi e tra consumi necessari e sfizi irrinunciabili, il consumatore post crisi è soprattutto infedele a marchi e insegne per la scelta (indispensabile) di applicare pratiche combinatorie che uniscono i diversi canali di acquisto e le molteplici opportunità per spendere meno e meglio.

Cosicché carrelli della spesa, tavole e dispense sono composte dagli italiani con un uso saggio e nomadico delle opportunità offerte, tralasciando, quindi, quelle generaliste standardizzate, soprattutto per i beni che lui reputa di pregio e di valore.

Refrattario a standardizzazioni semplificatorie, sfuggente, è un consumatore non seriale perché articolato nelle scelte e segue un modello di welfare dei consumi che incarna esigenze materiali e immateriali tese alla sostenibilità sociale e ambientale: il consumo è sempre più l’esito di una matrice complessa di motivazioni non più solo funzionali ma anche ideali, di riferimento a valori e principi etici.

A incarnare il consumatore di cui sopra, reduce da un formidabile ko economico, che combina fisico e virtuale, nel quale coesistono le punte più avanzate della società iperconnessa e i comportamenti tradizionali dello shopping, il millennials. Che, secondo quanto riporta la ricerca “Lo sviluppo italiano e il ruolo sociale della distribuzione moderna organizzata”, redatta dal Censis, elegge la grande distribuzione a luogo preferito per gli acquisti: dall’alimentare all’abbigliamento, dall’arredamento al bricolage e al giardinaggio, dalla profumeria alla cosmetica.

E vi ripone aspettative future sognando di trovarci, prima o poi, anche farmaci, carburante e polizze assicurative, con orari di apertura più flessibili e prolungati. E, perché no, pure il wifi. Alla ricerca di quella connessione che faccia da barriera all’ampliarsi delle distanze sociali in un luogo, per acquisti democratici, interclassisti e inclusivi, che contribuisce a tenere insieme la società, sia nei momenti di massima fibrillazione socio-economica della crisi sia nelle fasi più recenti di (s)tentato rilancio.

Fungendo, in ogni caso, come scialuppa di salvataggio del tenore di vita per tanti italiani quando si riducevano i redditi disponibili e aumentavano le difficoltà economiche.

di Tania Careddu

Nonostante l’inversione (positiva) di tendenza rispetto agli anni passati, gli illeciti ambientali sono ancora tanti. Diminuiti di sette punti percentuali rispetto al 2015, se ne contano comunque settantuno al giorno, tre ogni ora. Dallo sfruttamento degli animali da reddito al mercato degli shopper illegali, dall’allarme delle illegalità nei parchi alle navi dei veleni, dall’abusivismo edilizio al ciclo illegale dei rifiuti, il fatturato delle attività criminali contro l’ambiente in Italia continua a produrre cifre da capogiro.

Sebbene a due anni dall’entrata in vigore della legge sugli ecoreati il fatturato delle ecomafie scenda, registrando un meno 32 per cento rispetto allo scorso anno, ammonta, comunque, a tredici miliardi di euro, grazie alla riduzione della spesa pubblica per opere infrastrutturali nelle quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso (Campania, Sicilia, Puglia e Calabria) e al lento ridimensionamento del mercato illegale.

Perché crescono del 20 per cento gli arresti, le denunce e i sequestri e, contestualmente, calano i reati contro gli animali, quelli relativi al ciclo illegale del cemento - seppure, nel 2016, si sono contati diciassette mila nuovi immobili abusivi - mentre non seguono questo trend quelli correlati alla gestione dei rifiuti, dalla produzione allo smaltimento passando per il trasporto, con una crescita di quasi il 12 per cento, del 18 per cento e rotti delle persone denunciate (sedici al giorno), centodiciotto quelle arrestate, duemila e duecento i sequestri e trecentoquarantasei le inchieste aperte.

Stessa lunghezza d’onda sul fronte degli incendi che hanno mandato in fumo più di ventisettemila ettari, con oltre quattromilaseicentotrenta roghi, trecentoventidue persone denunciate tra piromani, ecocriminali ed ecomafiosi, quattordici arrestate e novantasei sequestri. Di natura essenzialmente dolosa, gli incendi sono quasi sempre appiccati per interessi speculativi legati all’edilizia o all’assunzione di operai forestali precari (non raramente, infatti, è capitato che ad accendere un rogo siano stati proprio coloro che erano pagati per spegnerlo).

“Quest’anno il Rapporto Ecomafia - dichiara, commentando i dati, la presidente nazionale di Legambiente, Rossella Muroni - ci restituisce una fotografia che non ha solo tinte fosche, come nelle scorse edizioni, ma anche colori di speranza grazie anche alla legge che ha introdotto nel codice penale i delitti ambientali e che ha contributo a renderci un paese normale, dove chi inquina finalmente paga per quello che ha fatto.

Ora è importante proseguire su questa strada non fermandosi ai primi risultati ottenuti, ma andando avanti investendo maggiori risorse soprattutto sulla formazione degli operatori preposti ai controlli e dando gambe forti alle Agenzie regionali di protezione ambientale, che stanno ancora aspettando l’approvazione dei decreti attuativi, previsti dalla recente riforma del sistema delle Agenzie, da parte del ministero dell’Ambiente e della Presidenza del Consiglio dei ministri”.

Le fa eco il direttore generale di Legambiente, Stefano Ciafani: “Per contrastare le illegalità ambientali è fondamentale che siano approvate quelle norme che mancano ancora all’appello a partire da una legge che semplifichi l’iter di abbattimento delle costruzioni abusive. Servono anche norme che prevedano i delitti contro la flora e la fauna protette, pene più severe contro le archeomafie e anche l’accesso gratuito alla giustizia alle associazioni”.

di Tania Careddu

L’ingresso di molte donne nel mercato del lavoro, l’innalzamento dell’aspettativa di vita e la complessiva riduzione delle risorse a disposizione del welfare pubblico, hanno reso colf e badanti indispensabili per la vita quotidiana delle famiglie italiane. In forte espansione nell’ultimo decennio, sebbene con un andamento altalenante, influenzato dalle misure amministrative e normative che si sono succedute nel corso delle varie legislature, il lavoro domestico riguarda poco meno di un milione di lavoratori (al netto degli irregolari), portando l’Italia a essere il primo paese dell’Unione Europea per numero di occupati nel settore.

La cui provenienza è, principalmente, dall’Est Europa, dalle Filippine, dall’America Latina ma anche dal Belpaese stesso che, nel 2015, ha assistito a un aumento di più di due punti percentuali dei lavoratori domestici, attribuendone l’incremento all’effetto indiretto della crisi economica.

Pur essendo un fenomeno diffuso trasversalmente dalle Alpi al tacco dello Stivale, le dinamiche che sottendono sono piuttosto differenti a seconda del territorio: a Sud, il lavoro domestico è dovuto principalmente alle fragilità del sistema locale di protezione sociale, legate a carenze strutturali dei servizi assistenziali e del sistema sanitario; a Nord, è correlato all’invecchiamento della popolazione e alla maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro.

Roma, Milano e Torino raccolgono oltre un quarto dei lavoratori domestici in Italia, anche se il primato calcolato in base al rapporto numero di lavoratori e abitanti, spetta a Cagliari con trentotto di loro ogni mille abitanti. I dati, secondo quanto si legge nella ricerca Il valore del lavoro domestico, elaborata da DOMINA, indicano che le famiglie non considerano primaria la necessità di avere un contratto di lavoro e delle buste paga elaborate in maniera adeguata.

Senza considerare, però, che un rapporto di lavoro gestito correttamente pone solide basi per una relazione a lungo termine, anche in considerazione del fatto che, spesso, il lavoro coincide con la convivenza nel nucleo famigliare. Il quale, gestendo il lavoro domestico, esercita un impatto significativo a livello economico e fiscale, traducendosi in un giro d’affari per lo Stato, se si pensa che, in un anno, i datori di lavoro domestico spendono circa sette miliardi di euro, di cui novecentoquarantasette milioni in contributi versati e quattrocentosedici in trattamenti di fine rapporto.

Va da sé che questo comparto, oltre a essere una ingente entrata, consente allo Stato di risparmiare i costi di gestione di strutture per l’assistenza e permetta alle donne italiane di entrare e restare nel mondo del lavoro, sostituendosi al sistema pubblico di welfare nella risoluzione dell’annoso problema - mai totalmente risolto - della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Ma al di là di numeri, cifre e conti, il lavoro domestico rappresenta un valore anche in quanto fondamentale strumento di inclusione socio-culturale per il confronto che genera fra persone di nazionalità diverse, comportando inevitabilmente uno scambio culturale e la condivisione di usi e costumi, trasformando le famiglie in un vero agente di integrazione e cambiamento.

di Tania Careddu

Nonostante l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi, l’ampia adesione parlamentare a una proposta di legge per la legalizzazione della cannabis, gli impegni presi dal ministro Orlando alla plenaria speciale dell’Assemblea generale sulle droghe delle Nazioni Unite, in questi quattro anni di legislatura, la politica sulle droghe non è affatto cambiata.

Sempre punitivo rimane l’impianto della normativa vigente e la criminalizzazione dei consumatori, dettata dalla legge Iervolino-Vassalli: incrementa la popolazione carceraria che, nel 2016, è costituita per il 40 per cento da detenuti per fatti di droga, soprattutto dai piccoli consumatori e non certamente dai consorzi criminali.

I quali invece, grazie a una migliore organizzazione e a maggiori risorse, non solo restano fuori dallo spettro della repressione penale ma ne traggono anche vantaggio, in un mercato ripulito dai competitor meno esperti. E ciò soprattutto nel mercato dei cannabinoidi, principale oggetto della gran parte delle operazioni delle forze di polizia.

Per vedere ridotto il numero dei consumi e dei reati, considerate le esperienze non proibizioniste di svariati paesi, in testa la California, bisognerebbe optare per scelte di depenalizzazione e legalizzazione delle droghe leggere. Anche a seguito del prevalere della valenza penale del nostro ordinamento, il mancato intervento organico su basi scientifiche (e non solo ideologiche) sul tema e la previsione di pene minime spropositate per lo spaccio di droghe pesanti.

Il tutto rimanda a un’immagine distorta dove solo chi può permettersi, economicamente, una difesa adeguata, ha forse qualche possibilità di non subire pesanti condanne per comportamenti che non ledono in alcun modo il diritto altrui.

Secondo quanto scritto nell’Ottavo Libro Bianco sulle droghe “Dalla semina americana al deserto italiano”, per rilevare il grado di problematicità correlato al consumo recente di cannabis, oltre a sradicare gli stereotipi sulla dannosità tout court di tutte le droghe e a ridimensionare immaginari collettivi ideologici sull’allarme droga e abusi, bisogna considerare che solo il 23 per cento degli studenti che hanno assunto la sostanza durante l’anno rientrano nel profilo problematico.

Che invece non appartiene a coloro che partecipano ad attività sportive, che affermano di essere molto soddisfatti del loro stato di salute, di sentirsi accettati dai propri genitori e che hanno un profitto scolastico medio.

Partendo dal presupposto che non occorre patologizzare o criminalizzare tutto, la conoscenza delle condizioni che l’uso di sostanze diventi dannoso o possa produrre patologia è il primo passo per scardinare, anche nel trattamento terapeutico, pubblico e privato, una visione prioritariamente di controllo e puntare a un’idea di prevenzione, contenimento del danno, e infine cura.

di Tania Careddu

Ci sono le anzianità migratorie, risalenti agli anni ottanta e novanta fino al duemila, e poi ci sono i cinesi. Duecentottanta mila su cinque milioni di stranieri residenti in Italia, nel 2017 si confermano il quarto gruppo – dopo i tre collettivi di storica immigrazione quali, appunto, marocchini, albanesi e rumeni, presente nel territorio nazionale. Aumentano, del 4 per cento nell’ultimo anno, con un equilibrio di genere più proporzionato rispetto ad altri gruppi, sono lavoratori autonomi, soprattutto nel commercio e nella ristorazione, e meno degli altri hanno lavori irregolari.

Rivendicano meno l’acquisizione della cittadinanza per uno spiccato senso identitario, frequentando più i connazionali e meno gli italiani. Grandi lavoratori, con sessant’otto ore medie settimanali e uno stipendio pari a mille e seicento euro mensili circa, annoverano pochi disoccupati, sebbene la crescita quantitativa del fenomeno dell’autoimpiego, una maggiore concorrenza interna, un’asta costante al continuo ribasso dei prezzi, il carattere sempre meno esotico dei ristoranti etnici colpiti dalle recenti campagne sulla sicurezza alimentare (che hanno spinto i gestori cinesi a trasformarli, quanto meno nel nome, in giapponesi) e dalla propaganda serrata sul made in Italy che ha colpito il loro comparto manifatturiero.

Anzi, nonostante la crisi finanziaria, il loro raggio d’azione si amplia sempre di più: prova ne siano l’interessamento per la prima società di grande distribuzione organizzata italiana (Esselunga) e le acquisizioni di entrambe le squadre calcistiche milanesi. Senza contare l’investimento immobiliare, con un cinese su tre proprietario di case.

Quanto meno bizzarro risulta l’approccio scolastico degli alunni cinesi: nonostante la maggiore incidenza di nati in Italia rispetto ad altri gruppi stranieri, soprattutto nelle scuole superiori, si calcola una quota minore, del 21 per cento, di inserimenti scolastici regolari relativamente all’età e alle altre nazionalità, con un tasso del 49 per cento. Tradotto: quattro cinesi su cinque sono in ritardo e uno su tre nell’ordine di un rallentamento pluriennale contro, in media, uno studente straniero su otto.

Ma, nonostante il percorso di studi accidentato, secondo quanto riporta la scheda informativa redatta dall’Ismu  dal titolo “L’immigrazione cinese in Italia, in Lombardia e a Milano: presenze, alunni, caratteristiche di integrazione, imprenditoria, aspetti interessanti”, la distribuzione dei voti “evidenzia la spiccata propensione per la matematica degli alunni cinesi, con risultati migliori anche rispetto agli alunni italiani nelle secondarie di secondo grado, mentre presentano maggiori difficoltà in italiano”. Più realisti dei loro coetanei, sono il gruppo nazionale con il minor divario tra i voti effettivamente conseguiti e l’autovalutazione del proprio rendimento.


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