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di Tania Careddu
Un italiano su tredici non riesce a soddisfare i bisogni essenziali: un’alimentazione adeguata, la disponibilità di una casa, consona alle dimensioni del nucleo famigliare, riscaldata e dotata dei principali servizi, il minimo necessario per vestirsi, comunicare, informarsi, muoversi sul territorio, istruirsi e mantenersi in buona salute. Sono condizioni di cui fanno a meno circa quattro milioni e mezzo di concittadini, il 7,6 per cento dell’intera popolazione.
E non basta: il 13,7 per cento è in uno stato di povertà relativa, ossia con un reddito inferiore al 60 per cento di quello medio e il 28,7 per cento è a rischio povertà, cioè sull’orlo di una grave deprivazione materiale e tendente a una bassa intensità di lavoro.
Sebbene piuttosto stabile negli anni post crisi, l’impoverimento degli italiani, negli ultimi anni, si è però ampliato ai minori, colpendone uno su dieci e incidendo pesantemente sulle giovani generazioni alle quali, sempre più spesso, è precluso il mondo del lavoro. E, per quelli che il lavoro ce l’hanno, lo scotto da pagare è la precarietà occupazionale, soprattutto per le categorie meno qualificate, esposti al rischio povertà per il basso livello di stabilità della propria condizione lavorativa, dando così origine alla formazione di una nuova schiera di poveri, i working poors.
A fare le spese dell’essere indigente nel Belpaese, sono soprattutto le famiglie numerose, quelle che abitano nelle aree metropolitane e le periferie delle grandi città del Nord e del Centro e il Sud Italia. Nel 2017, stando a quanto riporta il dossier Italiani, povera gente, redatto da Oxfam, l’Italia si colloca al ventisettesimo posto fra le ventinove economie avanzate, penalizzata, sopra ogni cosa, dall’iniquità intergenerazionale e di genere che non permettono un soddisfacente livello di mobilità sociale.
Si genera una condizione di disuguaglianza che rompe “quel contratto sociale di progressiva ripartizione dei costi e di equo accesso ai servizi pubblici alla base del buon funzionamento di ogni sana democrazia”, rallentando la crescita economica e sociale, già di per sé, poco inclusiva.
Ci si trova in una morsa che la disuguaglianza estrema, frutto di scelte politiche orientate da e per l’interesse di pochi e non di un destino ineluttabile, rende più difficile l’uscita dalla povertà, pregiudica lo sviluppo economico, spinge al ribasso la domanda interna di beni e servizi, crea condizioni economiche per l’aumento della criminalità e della corruzione ed costituisce l’origine di molti conflitti.
Aveva ragione Nelson Mandela quando diceva che “sconfiggere la povertà non è un gesto di carità. E’ un gesto di giustizia. E’ la protezione di un diritto umano fondamentale”.
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di Tania Careddu
Prima in Europa e seconda nel mondo, l’Italia, nel biennio 2014 – 2015, si conferma un paese con un’alta propensione all’accoglienza dei minori in condizioni di adottabilità. E se a partire dal 2004, vuoi per trasformazioni, influenzate da fattori politici, economici e sociali, interne ai paesi di provenienza dei minori, vuoi per il contesto economico di quelli d’accoglienza, su scala internazionale, si è verificata una progressiva diminuzione dei numeri dell’adozione, in Italia sono scesi solo del 35 per cento, passando da tremila e quattrocento a duemila e duecento circa (versus l’82 dei cugini spagnoli e l’80 di quelli d’oltralpe).
Negli ultimi due anni, secondo quanto si legge nel report “Dati e prospettive delle adozioni internazionali”, redatto dalla CAI (Presidenza del Consiglio dei ministri), il Belpaese ha adottato quattromila e quattrocentoventidue minori, provenienti principalmente dalla Federazione Russa, dalla Polonia e dalla Repubblica Popolare Cinese. Ma sono arrivati anche dalla Colombia, dal Vietnam, dalla Bulgaria, dal Brasile, dall’Etiopia, dall’India, dal Cile, dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Bielorussia, dal Perù e dall’Ucraina. Diminuiscono i bambini che provengono dall’America Latina e dall’Europa mentre crescono quelli che arrivano dall’Asia e dall’Africa.
Settecentosessantadue di questi hanno trovato la loro famiglia in Lombardia, regione italiana in assoluto più accogliente, quattrocentosessantanove in Toscana, trecentonovantasette nel Lazio, trecentonovantatre in Campania e trecentosettantotto nel Veneto. E Sardegna, Friuli Venezia Giulia, insieme a Campania e Toscana, hanno registrato il maggior incremento di minori autorizzati all’ingresso contro il decremento della Sicilia, del Lazio e della Liguria.
Nel biennio considerato, quattro minori su dieci hanno fra uno e quattro anni, soprattutto quelli di origine vietnamita, etiope e cinese, mentre il 44 per cento ha un’età compresa tra i cinque e i nove anni e quasi il 12 per cento ha più di dieci anni; solo il 2,9 per cento è sotto l’anno d’età. Circa il 25 per cento di loro arriva con bisogni speciali, soprattutto dall’Asia e fra quelli di età compresa tra i cinque e i nove anni, e dai paesi europei, dove, ai casi segnalati, i fascicoli (i cui dati, spesso, sono poco attendibili per diagnosi imprecise perché effettuate da personale di assistenza e non medico) attribuiscono un ritardo psicomotorio o psicologico, il più delle volte conseguenza di una precoce istituzionalizzazione in ambienti non idonei e con scarsi stimoli. Per malattie e bisogni attribuibili a carenze nutrizionali e a scarse condizioni igieniche soffrono i bambini che arrivano dal Centro e Sud America e dall’Africa.
Quanto ai genitori si consolida la tendenza a intraprendere il percorso adottivo - generalmente per l’impossibilità di procreare - in età elevata, mediamente intorno ai quarantacinque anni alla data di ingresso del minore, e fra coppie che nell’85 per cento delle situazioni hanno un alto livello di istruzione. Ma dati, numeri e statistiche a parte, quella che deve essere elevata è la capacità d’amare.
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di Tania Careddu
Sul rischio fondano il loro business. Dagli incidenti ai disastri naturali, dalle epidemie alle crisi alimentari, i grandi gruppi assicurativi del vecchio Continente non solo investono per gestirlo e ridurlo, ma, in certe occasioni - ultima, l’incontro sul clima, la COP21, svoltosi a Parigi nel 2015 - oltre a sponsorizzare gli eventi, prendono impegni concreti in merito a grossi rischi, nello specifico quelli legati ai cambiamenti climatici.
Ma le parole sono distanti dai fatti e il passo avanti - ‘one step ahead’ - di cui si vanta la compagnia italiana Generali, terzo gruppo assicurativo in Europa, con una gestione diretta di circa trecentocinquanta miliardi di euro in asset investiti, parrebbe piuttosto un passo falso.
Per la spiccata dissonanza tra gli impegni di cui sopra, stando ai quali “Generali desidera avere un ruolo attivo nel dare supporto alla transizione verso un’economia e una società più sostenibili”, e i reali investimenti nell’estrazione, produzione e vendita di energia derivata dal carbone, uno dei maggiori inquinanti fra i combustibili fossili, principali responsabili dei cambiamenti climatici, sui quali, nel 2016, secondo quanto riporta il dossier “Passo falso” redatto da Re:Common, ha investito circa due miliardi e mezzo di euro.
E, sempre secondo il dossier, sarebbe coinvolta anche in diversi investimenti in espansione nel settore del carbone: per esempio nel progetto della società tedesca RWE, relativo a centrali a carbone con venti gigawatt di potenza, in cui Generali avrebbe investito almeno un milione e quattrocentoventimila dollari.
Ci sono poi le diversificazioni geografiche negli investimenti e quindi ecco almeno quarantadue milioni nel ramo cileno della francese Engie/ex GDF Suez, che controlla diverse centrali a carbone in Cile; più di cinquantuno milioni di dollari nei progetti della statunitense Southern Company e risultando financial advisor nella vendita di azioni della Duke Energy, coinvolta in cause milionarie per procurato disastro ambientale negli Stati Uniti, nel 2016.
Anno in cui, Generali ha acquistato oltre dodici milioni di dollari in bond della mandorlata Sinopec e investito almeno trentatré milioni di dollari nella PGE, principale società polacca, che produce l’85 per cento della propria energia dal carbone, motore dell’espansione di questo in Polonia, gestendo oltretutto il fondo pensione del governo polacco, che sul carbone fa camminare l’economia del Paese.
Strategie di investimento che sembrano tradire la sua missione fondamentale: proteggere dai rischi legati alle catastrofi naturali. Eppure andrebbero considerati gli impatti che gli investimenti in combustibili fossili hanno sull’accelerazione del surriscaldamento globale.
Ma la questione dei combustibili fossili è, per Generali, alquanto articolata: “Se da una parte, la produzione di carbone ha chiaramente impatti ambientali, dall’altra, l’energia prodotta con il carbone sostiene la produzione industriale, la produzione di energia elettrica e, in molti Paesi, soprattutto emergenti e a basso reddito, l’eliminazione di carbone avrebbe un impatto sociale elevato”, fa sapere in un nota pubblicata sulla edizione online del fatto quotidiano
La compagnia di Trieste precisa che, comunque, dal 2006 ha aderito “a linee guida per l’investimento responsabile” e che i dati del report “non trovano corretto riscontro nelle evidenze interne degli investimenti del Gruppo, essendo, nel complesso, la quota inferiore all’1 per cento del totale (e non il 10 per cento, come riporta il dossier) degli attivi a copertura degli impegni assicurativi”.
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di Tania Careddu
Nel voto conquistato da Marine Le Pen emerge come oltre alla mancata realizzzione dell'Unione Europea, molti francesi sembrano imputare all'immigrazione la crisi economica e sociale che ha investito la Francia. Malgrado l’immigrazione non sia un fenomeno nuovo in Francia e la sua storia migratoria (e non solo) lo confermi, la politicizzazione della questione è relativamente recente.
Più precisamente nasce negli anni ottanta, quando la ricerca di un’identità nazionale - concetto del tutto assente fino ad allora nella politica francese - si è materializzata nell’opinione pubblica, definendo l’immigrazione come una minaccia di fronte alla crisi petrolifera che avrebbe portato la Francia sull’orlo del declino. Successivamente, negli anni novanta, ha raggiunto le forze politiche con la stessa veste di cui si agghinda oggi: la crisi dell’integrazione, pur avendo, la Francia, un trend migratorio sostanzialmente stabile negli ultimi trent’anni.
Parte della pressione sentita dalla società francese, dunque, non è dovuta ai flussi migratori, considerato che i dati relativi, riportati nel “Paper Immigrazione, Europa ed elezioni francesi” redatto dall’Ismu, non sono del tutto sufficienti a delineare un quadro del contesto migratorio come da loro percepito. Gli immigrati incidono in maniera esigua all’aumento della popolazione francese, per il 20 per cento contro l’86 per cento in Spagna.
E però, in un quadro europeo dove la Brexit ha definito l’immigrazione come un problema da risolvere, le elezioni in Austria hanno decretato vincitore il FPO, e quelle in Olanda hanno applaudito al discorso anti-immigrazione di Wilders, la Francia perde la memoria e risponde con i punteggi molto alti a favore di Marine Le Pen. Che, sul tema, fa sapere che occorre rendere impossibile la regolarizzazione degli immigrati regolari; porre un limite - diecimila - al numero di migranti accettati ogni anno; semplificare le procedure di espulsione; ostacolare il ricongiungimento familiare e l’acquisizione della nazionalità francese attraverso il matrimonio; abolire lo ius soli e la doppia nazionalità.
Ma “dare indietro la Francia ai francesi”, come vorrebbe il Front National, è una contraddizione in termini, perché molti sono i cittadini francesi con un background migratorio e perché equivale ad annullare la storia migratoria della Francia che, come scrive la sociologa Dominique Schnapper, “è un paese di immigrazione che ignora di esserlo”.
La Francia ha come pietra miliare nell’ordinamento legale, il concetto di laicitè nell’accezione liberale, così come propone Emmanuel Macron quando si riferisce all’integrazione: le richieste di asilo verranno valutate entro sei mesi; i rifugiati saranno protetti e i migranti economici ricondotti nei loro paesi d’origine per prevenire l’immigrazione irregolare; la padronanza della lingua francese sarà un prerequisito per ottenere la cittadinanza mentre i programmi scolastici e universitari includeranno moduli sulle differenti religioni e sui valori repubblicani. Sono anche queste due visioni alternative che si conteranno nelle urne in occasione del ballottaggio.
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di Tania Careddu
Negato, alterato nelle sue fisiologiche funzioni chimico-fisiche e biologiche, il suolo italiano è pressoché consumato. Da un’urbanizzazione selvaggia, con usi e coperture del territorio, principalmente insediativi e infrastrutturali, che arrivano a configurare un’irreversibile ‘sigillatura’ della crosta terrestre. Fino al 2015, stando ai dati riportati nel dossier “Suolo minacciato, ancora cemento oltre la crisi”, redatto da Legambiente, l’urbanizzazione del territorio del Belpaese ha compromesso circa più di due milioni di ettari, il 7 per cento del suolo nazionale - soprattutto nel quadrante nord-ovest, Lombardia in testa per la caratteristica pianeggiante della sua area - e, principalmente, per dotare le costruzioni private di spazi e pavimentazioni (le cosiddette infrastrutture di mobilità).
Dal dopoguerra a oggi, l’urbanizzazione espansiva come risposta all’uscita dalla crisi, affastellando investimenti infrastrutturali di dubbia utilità, sostenuti oltretutto dalla mancanza di regole nazionali e comunitarie, ha generato uno spreco esagerato del territorio nelle regioni italiane.
Lungi dal fare letteratura, però, negli ultimi due anni, si nota un rallentamento della pressione della trasformazione immobiliare: la crisi del settore delle costruzioni, sentendo il peso della zavorra di tanti edifici in cerca di compratori, ha (forse) innescato nuovi e più salubri meccanismi, riconducibili a meno concessioni edilizie e a uno stand by di piani attuativi. E c’è chi, da oltre un decennio, dice no al cemento selvaggio e al movimento indisciplinato delle ruspe.
Una su tutte, esempio isolato, la Sardegna che, consapevole dell’enorme potenziale economico dei suoi paesaggi, ha scelto di fermarne la dissipazione. Per la prima volta nello scenario delle regioni della Penisola, nel 2016, ha approvato un Piano Paesaggistico Regionale (PPR) finalizzato al recupero e alla riqualificazione integrale del territorio secondo un modello di sviluppo sostenibile, basato sulla programmazione di obiettivi di qualità paesaggistica, che tenga insieme gli insediamenti urbani, agricoli, produttivi e turistici.
Con la finalità strategica, i cui risultati saranno visibili a lungo termine versus il mordi e fuggi dell’uso speculativo dagli effetti immediati, di rafforzare l’identità culturale del paesaggio storico sardo, recuperandone il patrimonio (anche) architettonico e proporzionando le crescite residenziali ai reali fabbisogni.
Nell’immediato, ciò ha permesso l’annullamento di una lunga sequenza di maxi progetti immobiliari: dai trecentomila metri cubi di Cagliari Tuvixeddu ai due milioni e mezzo di metri cubi del Master Plan Costa Smeralda, dai cinquecentomila metri cubi di Arzachena per gli investimenti dell’emiro del Qatar ai duecentoventimila di lottizzazione annessa a un campo da golf a Is Arenas.
Con buona pace di chi sostiene che la protezione del territorio, coste comprese, sia un limite allo sviluppo sociale ed economico, l’identità culturale sarda, tutelandone il paesaggio, attraverso il PPR, è ripensata continuamente nel confronto con la contemporaneità capace di coniugare la conservazione con l’innovazione e la tutela con la ricostruzione. All’orizzonte, un nuovo panorama.