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di Tania Careddu
“Nel centro storico, e non solo, si respira un’aria di precarietà, ma anche la forza di andare avanti (…) Ogni mattina non sappiamo se troveremo parcheggio o se troveremo aperta la strada che facciamo abitualmente per raggiungere la nostra attività. Senza illuminazione e con la torcia, se rientri tardi la sera o esci presto la mattina. Ma ci siamo. Col silenzio assordante che dalle diciassette in poi ci avvolge”. Quella di Peppe, titolare di un’attività commerciale nel centro storico, è solo una delle tante storie di vita quotidiana che, girando per L’Aquila, non è raro sentire dopo il 6 aprile del 2009.
Giorno in cui il terremoto (di magnitudo 6.3) ha deturpato la ‘Regina degli Appennini’: il centro cittadino è pressoché abbandonato e la maggior parte delle attività commerciali che hanno trovato la forza economica di ripartire, si è spostata in impersonali centri commerciali fuori città.
Dove, in seguito alla costruzione degli alloggi post sisma - cent’ottantacinque edifici ubicati in diciannove nuovi insediamenti, il noto progetto Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili (C.A.S.E.) - i quartieri sono diventati dormitori in attesa, per le persone che vi risiedono, di tornare a casa.
Ma la ricostruzione sembra lontana da essere compiuta: nel 2016, infatti, stando a quanto riporta il dossier “Visita guidata a L’Aquila”, redatto da Legambiente, a fronte di centoventi contributi emessi, i cantieri realmente partiti sono una decina; per quella relativa agli edifici privati sono stati chiesti dieci miliardi e mezzo di euro e ne sono stati erogati poco meno di quattro e mezzo; per il centro storico è partita effettivamente solo nel 2014 con tutte le difficoltà vincolistiche, che interessano mille e novecento edifici, e logistico-operative e per la ricostruzione pubblica il capitolo è ancora tutto da scrivere.
In fase di attuazione, sul punto, c’è, dal 2015, il cantiere dei sottoservizi, il più grande appalto pubblico post sisma, con un finanziamento pari a ottanta milioni di euro. Progetto: un tunnel sotterraneo, ispezionabile a piedi, che percorre le vie principali della città, all’interno del quale passeranno la rete fognaria e quella elettrica, prevedendo la cantierizzazione di otto aree urbane. Per quanto attiene alla ricostruzione delle scuole, ancora nulla: non c’è un edificio costruito, non è stata indetta nemmeno una gara d’appalto e, stando agli ultimi dati disponibili, le scuole sono ancora ospitate nei venticinque Moduli a uso scolastico Provvisorio.
I tempi lunghi della ricostruzione e la mancanza di una vera programmazione hanno, inoltre, generato cinquemila nuovi poveri, creando un disagio sociale fortissimo caratterizzato da disoccupazione e spopolamento. Visibile anche nell’università che ha registrato un calo del 72 per cento delle immatricolazioni, nonostante la mancata introduzione del numero chiuso in alcuni corsi di laurea, previsto invece negli altri atenei italiani, e frutto dell’inagibilità di alcune sedi e della carenza di tanti servizi, che a otto anni dal sisma, rimangono tali.
Così come quelli relativi al trasporto pubblico, in particolare nelle ore serali e notturne o nei giorni festivi, nelle New Town, difficili da raccordare tra loro, rendendo ostici i legami personali e di comunità, essendo assenti, oltretutto, i luoghi di ritrovo in prossimità degli insediamenti.
Terra di nessuno, alla mercé di chiunque voglia entrare, considerata la mancanza di recinzioni. Porte aperte, oltre che a imprese attigue alla criminalità organizzata, ghiotte dell’occasione, a frodi e truffe rinvenibili nei difetti di progettazione e di costruzione, nella scelta dei materiali e nella messa in posa; fatture false, firme fotocopiate, forniture non pagate per il dichiarato fallimento delle ditte.
Il cantiere più grande d’Europa è in frammenti, con strade chiuse, edifici transennati e pericolanti, impalcature fra arbusti ed erbacce, panorami stravolti in cui spuntano baracche, case e ville come risposta all’emergenza, abusive, non segnalate o, addirittura, sorte in zone a rischio idrogeologico. Dimenticando, forse, che la ricostruzione materiale è legata a doppio filo a quella sociale.
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di Tania Careddu
Tremila e settecentotre pratiche legali, in tutta Italia, a difesa degli ultimi. Di coloro che vivono in strada, per il 52 per cento di origine extra Ue, aumentati rispetto a tre anni fa, e mille e centoundici italiani che si sono rivolti ad Avvocati di Strada, un’associazione senza fini di lucro che dal 2007 ne segue le pratiche legali. Nel 2016, mille e trecentosettantasette sono state di diritto civile, mille e cinquantadue di diritto amministrativo, raddoppiate, trecentosessantotto di diritto penale e novecentosei di diritto dei migranti.
Per rivendicare il diritto alla residenza, per risolvere sfratti e locazioni, per il diritto del lavoro, per questioni di pensioni e invalidità o per debiti nei confronti dei privati. Ma la misura delle condizioni in cui versano i senza fissa dimora è indicata dalle pratiche relative ai diritti di mantenimento, alimenti e assegni divorzili, per successioni e problematiche ereditarie, per potestà genitoriale o ricerca dei parenti in vita.
Casi che confermano quanto, troppo spesso, il fallimento di un matrimonio possa portare, soprattutto in assenza di un’adeguata rete familiare o di interventi mirati del welfare, a situazioni di estrema povertà e disperazione. Persone completamente annullate dalle loro famiglie, alle quali è stato negato il diritto a un’ereditarietà che, nella maggior parte dei casi, li avrebbe aiutati a uscire dalla strada, luogo in cui, dopo tanti anni, perdono totalmente il rapporto con i propri affetti.
Tra le pratiche di diritto amministrativo, invece, ce n’è una che sovrasta tutte e che fa il paio con quella riguardante le cartelle esattoriali: quella relativa alle sanzioni per mancanza di titolo di viaggio sui mezzi pubblici, che sono passate dalle trecentocinque del 2005 alle ottocentosettantaquattro di quest’anno: multe non pagate che si accumulano negli anni fino a costituire debiti di migliaia di euro, inaffrontabile per chi vive in strada e ostacolo insormontabile per chiunque di loro voglia ricominciare una vita comune.
Continua a essere alto il numero dei fogli di via che vengono notificati alle persone senza casa affinché si allontanino dalla città dove vivono: una misura ingiustamente punitiva alla quale, per il costo eccessivamente elevato, non riescono ad opporvisi.
Dalle pratiche di diritto penale emerge una vera e propria discriminazione per l’ovvia impossibilità di richiedere pene alternative alla detenzione a causa dell’inidoneità del domicilio, con il risultato di dover scontare in carcere pene per le quali la legge prevedrebbe l’opportunità (per gli altri) di una misura meno afflittiva. Si devono difendere, poi, da un errato luogo comune secondo il quale le persone senza fissa dimora sono pericolose e dedite alla delinquenza.
Senza riscontri nella realtà nella quale, invece, risulta vero il contrario: chi vive per la strada non è tanto autore quanto vittima di atti di aggressione, minacce e molestie. Tanto che nel 2016 si sono verificati quarantanove episodi, da leggersi per difetto: certamente più di qualcuno non avrà avuto la capacità di denunciare.
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di Tania Careddu
Definirne il numero è assai complicato, così come rintracciare i dati sulla composizione etnica: potrebbero essere tra i centoventi e i centottanta mila i Rom in Italia, ma certamente sono ventotto mila quelli che vivono in emergenza abitativa. Di questi diciotto mila nelle baraccopoli formali, diecimila (per il 90 per cento di cittadinanza rumena) negli insediamenti informali e circa mille e trecento, in prevalenza sinti, abitano in una cinquantina di microaree, collocate soprattutto nell’Italia centro-settentrionale.
Ma non è necessario avere contezza esatta delle persone Rom per stabilire che l’espressione architettonica delle baraccopoli - circa centoquarantanove sparse in ottantotto comuni italiani - informali o formali che siano, sia rappresentativa della discriminazione più estrema ai loro danni. E, nonostante la segregazione abitativa sia solo una delle tante facce di quella discriminazione e della violenza dei diritti umani, le evidenti ricadute della marginalizzazione spaziale e sociale e delle condizioni al di sotto degli standard sul godimento di tanti altri diritti fondamentali – all’istruzione, all’impiego e alla salute - la rendono la forma prioritaria di antiziganismo.
Soprattutto perché ha caratteristiche di criticità pervasiva e sistematica che non si limita a interessare solo i grandi centri metropolitani ma tocca un numero non trascurabile di piccoli comuni e perché fa i conti con una pratica fortemente lesiva, quella degli sgomberi - per di più forzati - e con un’esclusione della popolazione in questione dall’edilizia popolare.
Ed è la concretizzazione di un’immagine del contesto italiano sul tema, permeato di pregiudizi e stereotipi penalizzanti diffusi e radicati, frutto di una scarsissima conoscenza delle comunità rom e sinte, che ha facilitato la reiterazione di preconcetti attraverso, anche, un linguaggio mediatico impreciso quando non palesemente dispregiativo. Da qui viene un ripetuto etichettamento, pure istituzionale, come comunità dedite al nomadismo, intriso di un lima di generale ostilità, fomentato altresì dalla retorica dell’odio promossa da esponenti di alcune fazioni politiche che ha attecchito in termini di consenso elettorale.
Atteggiamenti profondamente dannosi nell’alimentare il circolo di esclusione e povertà in cui sono compressi, traducendosi, oltre che in visibili barriere all’accesso ai diritti primari, anche in un humus fertile per ulteriori derive violente e crimini d’odio e in un ostacolo all’attuazione di (poche) politiche volte all’inclusione.
Tuttavia, sebbene a denti stretti, nel 2016, stando ai dati raccolti dall’Associazione 21 luglio che ha redatto il Rapporto annuale 2016, si nota l’avvio di un apprezzabile cambio di tendenza: con un calo del 34 per cento, passando da duecentosessantacinque a centosettantacinque, di cui cinquantasette di grave entità, gli episodi d’odio, mediamente uno ogni due giorni, nei loro confronti sono diminuiti.
Sprizzano odio soprattutto il Lazio, il Veneto, l’Emilia Romagna e la Campania, che invece ha visto incrementare il numero di casi, mentre la più tollerante risulta la Lombardia. Viene da pensare, malauguratamente, che la diminuzione della violenza sia da ricercarsi nello spostamento della (tensione) attenzione verso i flussi di migranti e di richiedenti asilo e in un’acquisita generalizzata capacità di reazione agli insulti da parte delle comunità bersaglio. Augurandosi che non torni in vigore la legge del taglione.
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di Tania Careddu
E’ subdola, imprevista e si cela dietro alle debolezze nella lettura e nel calcolo. E’ il prodotto di solitudine, angustia, squallore e assenza che i bambini hanno respirato fin dalla più tenera età. In un mondo sempre più caratterizzato dall’economia della conoscenza, la povertà educativa alleva bambini senza favole, senza giochi, senza fantasia e, talvolta, senza rapporti umani profondi.
Strettamente connessa alla condizione socio-economica e culturale delle famiglie, la povertà educativa priva i minori delle opportunità di apprendere, sperimentare, sviluppare capacità e aspirazioni. Non solo cognitive ma anche emotive, di creazione del sé e di scoperta dell’altro.
Colpisce più di un bambino su cinque, secondo un circolo vizioso di ereditarietà - di padre in figlio - tanto che l’Italia, nel 2016, si è caratterizzata come uno dei Paesi europei con la più bassa mobilità educativa. Se poi i genitori sono migranti, la drammaticità della povertà cognitiva è ancora più preoccupante.
Sta di fatto che per tutti, migranti o autoctoni svantaggiati, la partecipazione ad attività culturali e ricreative è, e non solo per ovvi motivi finanziari, significativamente residua tra coloro che vivono in nuclei famigliari con risorse economiche scarse.
L’associazione tra la povertà educativa e le capacità non cognitive, in particolare il piacere di stare con gli altri, l’abilità di vincere la solitudine, di stare bene fra i banchi di scuola così come la motivazione nel perseguire uno scopo nella vita e l’investimento per cogliere le giuste opportunità di crescita, rivela tutta la sua portata quando gli adolescenti arrivano a sentirsi outsider, accrescendone la privazione educativa che li spinge fino all’abbandono degli studi, soprattutto fra i maschi, nei centri piccoli e nelle periferie delle grandi città.
Più al Sud che al Nord: un adolescente che vive in Campania ha quasi il doppio di possibilità di non raggiungere le competenze minime rispetto a un coetaneo della Lombardia e il triplo rispetto a quello della Provincia Autonoma di Bolzano e Trento. Nelle Isole, più di due minori su tre non leggono libri, non praticano sport e non navigano su internet nel tempo libero, e registrano percentuali tra le più basse d’Europa relativamente all’abbandono scolastico.
Nonostante l’evidenza della correlazione tra fruizione culturale e ricreativa e diminuzione dell’incidenza della povertà educativa, a oggi sono proprio i bambini delle famiglie disagiate ad avere minori opportunità di formarsi educativamente per la carenza dei servizi a loro destinati. A partire dagli asili nido.
Gli scienziati di tutto il mondo affermano che è nei primissimi anni di vita che si forma l’identità, quindi l’acquisizione di abilità cognitive (intelligenza critica, memoria, linguaggio e comprensione) cui seguono quelle socio-emozionali ( socialità, valori ed ethos collettivo, comportamento individuale e capacità di adattamento) e fisiche (massa corporea, facoltà visive e uditive, stato nutrizionale e di salute).
Per Save the children, che ha redatto il rapporto “Futuro in partenza”, la mission è quella di investire nella prima infanzia, chiave per debellare la povertà educativa. Fino a che la distribuzione delle abilità per stare bene nel mondo non diventi uguale per tutti.
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di Tania Careddu
Altro che mille e una. Sono trecentocinquantacinque milioni e ottocentoquarantanove mila le notti trascorse fuori casa dagli italiani nel 2016. Invertendo la tendenza negativa a viaggiare che, per la prima volta dopo sette anni, assume segno positivo. Determinato, soprattutto, dalla predilezione (o possibilità) per le vacanze brevi che aumentano del 20 per cento, anche se non è affatto trascurabile l’incremento, pari all’11 per cento, di quelle a lungo termine.
Corte o lunghe, le vacanze sono, nel 90 per cento dei casi, la ragione dei pernottamenti fuori dalle mura domestiche, lasciando al 10 per cento gli spostamenti per motivi di lavoro, che rimangono sostanzialmente invariati, salendo, però, in maniera consistente nel periodo tra aprile e giugno.
Ed è proprio da questo mese che un italiano su tre - soprattutto quelli del Nord Est, che detiene il primato del maggior numero di viaggiatori - comincia a preparare le valigie. Per soggiornare, principalmente e meglio di niente, per una settimana, confermandosi, la tendenza della contrazione della durata media delle vacanze.
Per le quali, quando battono bandiera tricolore, il Nord è l’area con il più alto potere attrattivo, con Emilia Romagna e Veneto in testa, sia per le vacanze sia per i viaggi professionali, questi ultimi diretti soprattutto in Lombardia; il Mezzogiorno, di contro, è la meta preferita per le vacanze di lungo periodo, Puglia in cima. Per il Trentino Alto Adige prima posizione per quelle invernali. Si raggiunge la destinazione per lo più con la macchina, anche se l’aereo e il treno, in quinto dei casi, rimangono i mezzi più utilizzati per i viaggi di lavoro. Per soggiornare, la sistemazione preferita sono gli alloggi privati versus le strutture collettive opzionate per i soggiorni di lavoro.
Andando Oltralpe, se l’opzione è una destinazione europea, Francia e Spagna sono i Paesi più visitati, seguiti da Germania (per motivi di lavoro) Austria, Regno Unito e Croazia. Varcando i confini del vecchio continente, gli Stati Uniti la fanno da padrone per i soggiorni lunghi e la Tunisia per quelli brevi, mentre per i viaggi d’affari, dal 2015 la Cina si conferma al primo posto.
Quattro viaggi su dieci sono stati prenotati su internet, con l’intento di trascorrere un periodo di svago o per far visita ad amici e parenti. Mare, sapore di mare, è la colonna sonora del 47 per cento circa delle vacanze di piacere mentre le visite al patrimonio artistico, monumentale o archeologico sono molto più diffuse sia all’estero sia in Italia.
Per le vacanze all’insegna dello sport (meglio conosciuta come settimana bianca) si preferisce la stagione invernale, in cui, invece, rispetto al 2015, cala il trend di spostarsi per partecipare a manifestazioni culturali, folkloristiche, spettacoli e mostre.
Le escursioni, tradotto in spostamento turistico senza pernottamento, sono aumentate del 10 per cento rispetto a due anni or sono, fatte per piacere, per shopping, per presenziare a corsi di formazione o attività culturali, per partecipare a ricorrenze religiose, fare visite a santuari e luoghi di culto, o cure termali e trattamenti di salute. La nostra natura consiste nel movimento, la calma completa è la morte, diceva Blaise Pascal.