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di Tania Careddu
Fra un’emigrazione come ricerca di salvezza dai conflitti e una come risultato di fuga da situazioni famigliari e sociali disgregate, partono da soli e l’Italia è la prima meta d’arrivo. Economica e facile da raggiungere, per i minori migranti rappresenta l’approdo, rispetto a un contesto di transizione in cui i cambiamenti, dovuti allo sviluppo diseguale e non governato nel paese di provenienza, tendono a deteriorare le tradizionali relazioni sociali nelle quali le famiglie di ceto medio-basso non riescono a sostenere un’adeguata collocazione.
Unica via d’uscita, di riscatto e di promozione sociale, l’emigrazione del figlio, di solito maschio, che coronerebbe (nei sogni dell’intera famiglia) il progetto migratorio. Caratterizzato, secondo quanto si legge nel dossier “Sperduti”, redatto da Unicef, dal desiderio di lavorare per essere autonomo e sostenere la famiglia lontana che nella partenza individua un investimento, oltre che monetario, affettivo e di speranza.
Una dimensione strategica che, in alcuni casi, manca davvero: è, piuttosto, rinvenibile l’aspetto di una migrazione forzata da motivi legati a un disagio famigliare o a pericolo di vita, determinata da circostanze più che da scelte consapevoli e che assumerà contorni più definiti nel prosieguo del viaggio.
Avendo una valenza decisiva nella configurazione del progetto migratorio, il viaggio, costellato di rischi e pericoli per i minori non accompagnati, aggrava la loro condizione di vulnerabilità: caratterizzato da lunghe pause tra un tragitto e un altro trascorse in paesi privi di qualsiasi regola propria di uno stato di diritto e in cui vige solo la legge del più forte, i minorenni sono in balia di violenza e sopraffazione, nella più totale precarietà esistenziale e affettiva.
Completamente disorientati all’arrivo, i giovani migranti inseguono, comunque, l’aspirazione a condizioni di vita sicure, regolari e responsabili ed esprimono, nonostante tutto, impressionanti capacità di superamento sia delle barriere linguistiche sia di quelle sociali, dimostrando livelli di apprendimento sorprendenti.
Spesso, invece, l’ostacolo è costituito da (comprensibili) inquietudini profonde riconducibili, oltre che alla separazione dal contesto affettivo, anche dalla ricerca immediata del miglioramento delle condizioni di vita che li spinge a inseguire facili e veloci guadagni per colmare il debito contratto dalla famiglia, cadendo in allettanti proposte lavorative che di legale, il più delle volte, hanno ben poco.
Perciò, anche dopo che rischi e pericoli del viaggio sono stati superati, i minorenni affrontano un’esistenza fatta di discriminazioni, xenofobia e di privazione dei diritti civili: senza un’identità legale, nonostante la normativa italiana, preveda questi diritti a prescindere dallo status migratorio, può essere difficile accedere ai servizi essenziali, tra i quali l’assistenza sanitaria, la protezione sociale e la formazione. Interventi indispensabili per salvare i minori migranti soli dal loro vissuto e permettergli di ricreare la condizione di portatori sani della propria storia.
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di Tania Careddu
Allagamenti, frane, trombe d’aria, esondazioni, temperature estreme, danni alle infrastrutture e al patrimonio sono la tangibile testimonianza dei cambiamenti climatici. Che sulle città italiane hanno un impatto rilevante, con consistenti differenze, però, tra le regioni, a seconda delle caratteristiche idrogeologiche dei territori coinvolti (senza trascurare le cause antropiche).
Sono duecentoquarantadue i fenomeni metereologici che, dal 2010 a oggi, hanno provocato danni al Belpaese: cinquantadue casi di allagamenti, novantotto di danni alle infrastrutture e otto al patrimonio, quarantaquattro episodi tra frane e trombe d’aria, quaranta gli eventi causati da esondazioni, coinvolgendo centoventisei comuni. E centoquarantacinque persone morte per le sole esondazioni che ne hanno, pure, obbligato all’evacuazione quarantamila.
Negli ultimi sei anni, l’Italia ha assistito a novantuno giorni di stop a metropolitane e treni urbani, cinquantacinque giorni di blackout elettrici e, secondo quanto si legge nel report “Le città alla sfida del clima”, redatto da Legambiente, negli ultimi tre anni, diciotto regioni sono state colpite da eventi estremi, generando l’apertura di cinquantasei stati emergenziali: sei di questi in Emilia Romagna, cinque in Piemonte, sette in Toscana, cinque in Sicilia e quattro in Calabria.
Riportando un danno economico di ingenti proporzioni: di fronte a un danneggiamento di circa sette miliardi e mezzo di euro, lo Stato ha stanziato circa il 10 per cento di quanto necessario a fronteggiare l’emergenza ma, dal 1944 al 2012, sono stati spesi sessantuno miliardi di euro, portando l’Italia a essere la prima nazione al mondo per risarcimenti e riparazioni di danni da eventi di dissesto, con una media di tre miliardi e mezzo l’anno.
Uragani e piogge torrenziali non sono l’unico risultato dei repentini cambiamenti climatici; le ondate di calore producono effetti, se è possibile, ancora più negativi: oltre alla scarsità d’acqua, possono avere ripercussioni dannose sulla salute dell’uomo, soprattutto nelle città, dove, rispetto alle aree rurali, la temperatura si mantiene elevata più a lungo e anche nelle ore notturne, riducendo la capacità di ripresa dell’organismo.
Una su tutte, a Roma è stato stimato un incremento della mortalità pari a più 34 per cento, nel 2015, associato a questa estrema condizione di caldo anomalo. Nulla di buono all’orizzonte se, stando all’allarme lanciato dagli esperti, il 2017 potrebbe essere quello record per il riscaldamento globale e fino a quando gli accordi, ultimo quello di Parigi, rimarranno solo una lunga stretta di mano.
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di Tania Careddu
In un paese nel quale le statistiche sui giovani, di anno in anno, evidenziano un progressivo posticipo dell’età di uscita dal nucleo famigliare di origine, “diciotto anni è troppo presto per cavarsela da soli” per i neomaggiorenni in dimissione dalle realtà di accoglienza per minori, sui quali pesa, oltretutto, uno svantaggio sociale, formativo e occupazionale.
Travagliati percorsi personali e famigliari complicano ulteriormente la transizione, forzata e repentina, verso l’età adulta, con la pretesa di un’autonomia obbligata sulla quale lo Stato italiano declina la sua responsabilità. Privati prematuramente della cura e dell’assistenza, l’indipendenza lavorativa, economica e relazionale di questi ragazzi non è compatibile con il loro percorso di crescita e di maturazione graduale, spesso caratterizzato da molte interruzioni e da tempi complessivamente più lunghi rispetto a quello dei coetanei che hanno vissuto in famiglia (per i quali, posticipare il momento di uscita da casa, è una scelta).
La precarietà a livello economico e l’allontanarsi da un ambiente e da un territorio ormai conosciuto condizionano, oltre che la vita pratica materiale quotidiana, anche le relazioni con i propri coetanei meno svantaggiati fino al progressivo estremo isolamento. E la solitudine, non soltanto come una condizione che pervade la vita in autonomia dopo un lungo tempo trascorso in un contesto denso di rapporti ma vissuta come una sensazione netta di essersi separati dagli affetti che fino a poco prima si erano occupati di loro, potrebbe incidere sull’autostima e sulla riuscita di ciascuno.
Incertezza e fatica rendono complicato spiccare il volo, anche relativamente all’inseguimento delle proprie inclinazioni e attitudini, ai quei tremila giovani che, stando a quanto si legge nel Report italiano della ricerca ‘Una risposta ai care leavers: occupabilità e accesso a un lavoro dignitoso’, redatto da Sos Villaggi dei Bambini Italia, ogni anno si trovano ad affrontare il passaggio a una vita indipendente, considerando pure che i due terzi di loro non rientrano nel nucleo famigliare originario (e quando vi fanno ritorno, l’approccio non è meno complicato, aggiungendosi una condizione di conflittualità).
Ma, purtroppo, non esiste, a livello nazionale, un accompagnamento specifico e garantito per questi giovani, eccezion fatta per la Sardegna, unica nel panorama italiano, ad aver introdotto una legge regionale ad hoc per definire “un programma di accompagnamento personalizzato volto a consentire ai giovani dimessi dalle comunità residenziali per minori di affrontare con successo il passaggio dal contesto protetto all’autonomia e di completare il proprio percorso formativo”. Con l’auspicio che l’esempio rimanga il miglior insegnamento.
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di Tania Careddu
“La criminalità organizzata italiana ha concesso ai gruppi criminali trasnazionali, con in testa le organizzazioni cinesi, magrebine, nigeriane e albanesi, di poter gestire l’intera filiera del traffico degli esseri umani. In cambio del denaro per il trasferimento e i servizi annessi, spesso anticipato dal trafficante, i migranti sono totalmente asserviti alle organizzazioni criminali almeno fino all’estinzione del debito contratto.
Il placet di ‘ndrangheta, mafia, camorra e sacra corona unita avviene per alcuni motivi prioritari. In primo luogo, la concessione dei sodalizi criminali italiani, ‘ndrangheta in testa, alle organizzazioni di trafficanti di esseri umani ottiene il beneficio di una “complicità criminale organizzativa” di queste ultime nel mercato degli stupefacenti il cui giro d’affari è, senza alcun dubbio, più remunerativo dell’arrivo dei clandestini.
In secondo luogo, perché la criminalità organizzata italiana può ottenere elevati guadagni da appalti e subappalti, vinti al ribasso, potendo disporre di un esercito di lavoratori a basso costo”.
E’ spiegata tutta in questa nota del presidente dell’Istituto Demoskopika, Raffaele Rio, la dinamica che sottende al giro d’affari generato dagli oltre seicentocinquanta mila sbarchi dei migranti sulle coste italiane, dal 2011 a oggi, innescata da mafia, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, attraverso la concessione della gestione del traffico di esseri umani in cambio di collaborazione in altri business illeciti.
Con una crescita esponenziale, nell’ultimo triennio, del 313 per cento, nelle aree a maggior condizionamento ambientale della criminalità organizzata italiana, sono stati quattrocentottantasei mila i migranti arrivati via mare in Sicilia, poco meno di centomila quelli sbarcati sulle coste calabresi, circa cinquantamila i flussi sulle coste della Puglia e poco più di diciottomila gli immigrati approdati sulle coste campane.
Producendo guadagni (illeciti) corrispondenti a quattro miliardi di euro, pari mediamente a circa quattro milioni e mezzo di euro al giorno, che finiscono direttamente nelle tasche di trafficanti (senza scrupoli) di uomini, appartenenti principalmente a gruppi criminali trasnazionali, soprattutto di matrice etnica.
E’ un calcolo per difetto, ottenuto moltiplicando il costo medio di seimila euro che ciascun migrante è costretto a pagare per inseguire la speranza di poter realizzare la propria identità, visto che, stando a quanto riporta l’indagine Sbarchi & Disperazione. Il giro d’affari della criminalità organizzata, non rientrano nel computo né le migliaia di migranti che sfuggono ai controlli delle forze dell’ordine né le vittime che in Italia non arriveranno mai (pur avendo saldato il conto).
Dati che, del tutto involontariamente, fanno chiarezza sulle reali alleanze che i trafficanti stringono per incentivare il loro business che non sono affatto riconducibili, come ha anche confermato la Commissione Difesa del Senato, il 16 maggio scorso, ad alcuna collusione con le organizzazioni non governative (ONG).
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di Tania Careddu
Tra aperture e restrizioni, dal 1975 a oggi la vita penitenziaria è stata regolata da un sistema a fisarmonica, malato di schizofrenia legislativa, specchio di una politica trasversalmente debole in materia e vittima di un’ossessione generalizzata della sicurezza. Prova ne sia l’utilizzo smodato e irrazionale della custodia cautelare: sebbene la legge 94 del 9 agosto del 2013 abbia ridotto la possibilità di applicare tale misura, l’Italia è il quinto paese in Europa a detenere esseri umani.
Generalmente - più del 34 per cento rispetto a una media europea del 22 per cento - si tratta di soggetti più vulnerabili di altri, perché stranieri extra UE, senza abitazione o reti di rapporti sociali. Una condizione che rappresenta la ristrettezza non definitiva, un’anticipazione (quando non una sostituzione) della pena finale.
E’ il caso, uno su tutti, di un giovane ghanese finito in carcere, in barba a tutte le norme nazionali e internazionali, per resistenza a pubblico ufficiale. Fermato durante un controllo dalle forze dell’ordine alla stazione Termini a Roma, il ghanese agita, senza violenza alcuna, un provvedimento di protezione internazionale, ma denuncia che gli agenti gli avrebbero buttato nel cassonetto coperte e scarpe. Se le sarebbe andato a riprendere una, due, tre volte ma è finito recluso nella sezione per le persone difficili della casa circondariale di Regina Coeli con solo la copia del documento della Prefettura come fosse la sua ultima speranza di vita. Che dovrà trascorrere, per mesi o anni, in prigione prima che la sua colpevolezza venga dimostrata.
Si trova così con la quasi certezza di un’assenza di garanzie effettive nei procedimenti sottesi all’applicazione di questa misura quanto all’informazione circa il capo d’accusa, alla traduzione innanzi all’autorità giudiziaria, al diritto di essere giudicato in un lasso di tempo ragionevole o di essere lasciato libero durante la fase delle indagini, all’accesso a un riesame rapido ed efficace e al diritto al risarcimento in caso di violazione dell’articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
E con il fardello che, oltre al fatto che la custodia cautelare si pone in contrasto con il principio di presunzione di innocenza, le prassi carcerarie, tipo l’accesso al lavoro, sono, se possibile, più deteriori che per i ristretti definitivi. Rivelandosi, nella maggior parte dei casi, dopo quattrocentoquarantacinque giorni in media di permanenza nelle strutture carcerarie, un’ingiusta detenzione.
Per risarcire la quale, secondo quanto si legge nel XIII Rapporto redatto da Antigone, “Torna il carcere, dal 1992 a oggi”, l’Italia ha speso seicentoquarantotto milioni di euro - quarantadue solo lo scorso anno - evitabili con la disponibilità di un maggior numero di dispositivi elettronici di controllo e con la messa a punto di garanzie più sicure relative alla prima udienza.
Per esempio: la notifica per via telematica del fascicolo dell’accusa così da consentire al difensore di predisporre adeguatamente la difesa che, visto il profilo demografico dei destinatari di ordine di custodia cautelare, per essere strategica non può prescindere dalla possibilità di nominare un interprete, per permettere all’imputato di partecipare attivamente al processo. Sempre fermo restando il suggerimento del buon vecchio Voltaire.