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di Tania Careddu
L’ingresso di molte donne nel mercato del lavoro, l’innalzamento dell’aspettativa di vita e la complessiva riduzione delle risorse a disposizione del welfare pubblico, hanno reso colf e badanti indispensabili per la vita quotidiana delle famiglie italiane. In forte espansione nell’ultimo decennio, sebbene con un andamento altalenante, influenzato dalle misure amministrative e normative che si sono succedute nel corso delle varie legislature, il lavoro domestico riguarda poco meno di un milione di lavoratori (al netto degli irregolari), portando l’Italia a essere il primo paese dell’Unione Europea per numero di occupati nel settore.
La cui provenienza è, principalmente, dall’Est Europa, dalle Filippine, dall’America Latina ma anche dal Belpaese stesso che, nel 2015, ha assistito a un aumento di più di due punti percentuali dei lavoratori domestici, attribuendone l’incremento all’effetto indiretto della crisi economica.
Pur essendo un fenomeno diffuso trasversalmente dalle Alpi al tacco dello Stivale, le dinamiche che sottendono sono piuttosto differenti a seconda del territorio: a Sud, il lavoro domestico è dovuto principalmente alle fragilità del sistema locale di protezione sociale, legate a carenze strutturali dei servizi assistenziali e del sistema sanitario; a Nord, è correlato all’invecchiamento della popolazione e alla maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Roma, Milano e Torino raccolgono oltre un quarto dei lavoratori domestici in Italia, anche se il primato calcolato in base al rapporto numero di lavoratori e abitanti, spetta a Cagliari con trentotto di loro ogni mille abitanti. I dati, secondo quanto si legge nella ricerca Il valore del lavoro domestico, elaborata da DOMINA, indicano che le famiglie non considerano primaria la necessità di avere un contratto di lavoro e delle buste paga elaborate in maniera adeguata.
Senza considerare, però, che un rapporto di lavoro gestito correttamente pone solide basi per una relazione a lungo termine, anche in considerazione del fatto che, spesso, il lavoro coincide con la convivenza nel nucleo famigliare. Il quale, gestendo il lavoro domestico, esercita un impatto significativo a livello economico e fiscale, traducendosi in un giro d’affari per lo Stato, se si pensa che, in un anno, i datori di lavoro domestico spendono circa sette miliardi di euro, di cui novecentoquarantasette milioni in contributi versati e quattrocentosedici in trattamenti di fine rapporto.Va da sé che questo comparto, oltre a essere una ingente entrata, consente allo Stato di risparmiare i costi di gestione di strutture per l’assistenza e permetta alle donne italiane di entrare e restare nel mondo del lavoro, sostituendosi al sistema pubblico di welfare nella risoluzione dell’annoso problema - mai totalmente risolto - della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Ma al di là di numeri, cifre e conti, il lavoro domestico rappresenta un valore anche in quanto fondamentale strumento di inclusione socio-culturale per il confronto che genera fra persone di nazionalità diverse, comportando inevitabilmente uno scambio culturale e la condivisione di usi e costumi, trasformando le famiglie in un vero agente di integrazione e cambiamento.
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di Tania Careddu
Nonostante l’illegittimità della legge Fini-Giovanardi, l’ampia adesione parlamentare a una proposta di legge per la legalizzazione della cannabis, gli impegni presi dal ministro Orlando alla plenaria speciale dell’Assemblea generale sulle droghe delle Nazioni Unite, in questi quattro anni di legislatura, la politica sulle droghe non è affatto cambiata.
Sempre punitivo rimane l’impianto della normativa vigente e la criminalizzazione dei consumatori, dettata dalla legge Iervolino-Vassalli: incrementa la popolazione carceraria che, nel 2016, è costituita per il 40 per cento da detenuti per fatti di droga, soprattutto dai piccoli consumatori e non certamente dai consorzi criminali.
I quali invece, grazie a una migliore organizzazione e a maggiori risorse, non solo restano fuori dallo spettro della repressione penale ma ne traggono anche vantaggio, in un mercato ripulito dai competitor meno esperti. E ciò soprattutto nel mercato dei cannabinoidi, principale oggetto della gran parte delle operazioni delle forze di polizia.
Per vedere ridotto il numero dei consumi e dei reati, considerate le esperienze non proibizioniste di svariati paesi, in testa la California, bisognerebbe optare per scelte di depenalizzazione e legalizzazione delle droghe leggere. Anche a seguito del prevalere della valenza penale del nostro ordinamento, il mancato intervento organico su basi scientifiche (e non solo ideologiche) sul tema e la previsione di pene minime spropositate per lo spaccio di droghe pesanti.
Il tutto rimanda a un’immagine distorta dove solo chi può permettersi, economicamente, una difesa adeguata, ha forse qualche possibilità di non subire pesanti condanne per comportamenti che non ledono in alcun modo il diritto altrui.
Secondo quanto scritto nell’Ottavo Libro Bianco sulle droghe “Dalla semina americana al deserto italiano”, per rilevare il grado di problematicità correlato al consumo recente di cannabis, oltre a sradicare gli stereotipi sulla dannosità tout court di tutte le droghe e a ridimensionare immaginari collettivi ideologici sull’allarme droga e abusi, bisogna considerare che solo il 23 per cento degli studenti che hanno assunto la sostanza durante l’anno rientrano nel profilo problematico.
Che invece non appartiene a coloro che partecipano ad attività sportive, che affermano di essere molto soddisfatti del loro stato di salute, di sentirsi accettati dai propri genitori e che hanno un profitto scolastico medio.
Partendo dal presupposto che non occorre patologizzare o criminalizzare tutto, la conoscenza delle condizioni che l’uso di sostanze diventi dannoso o possa produrre patologia è il primo passo per scardinare, anche nel trattamento terapeutico, pubblico e privato, una visione prioritariamente di controllo e puntare a un’idea di prevenzione, contenimento del danno, e infine cura.
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di Tania Careddu
Ci sono le anzianità migratorie, risalenti agli anni ottanta e novanta fino al duemila, e poi ci sono i cinesi. Duecentottanta mila su cinque milioni di stranieri residenti in Italia, nel 2017 si confermano il quarto gruppo – dopo i tre collettivi di storica immigrazione quali, appunto, marocchini, albanesi e rumeni, presente nel territorio nazionale. Aumentano, del 4 per cento nell’ultimo anno, con un equilibrio di genere più proporzionato rispetto ad altri gruppi, sono lavoratori autonomi, soprattutto nel commercio e nella ristorazione, e meno degli altri hanno lavori irregolari.
Rivendicano meno l’acquisizione della cittadinanza per uno spiccato senso identitario, frequentando più i connazionali e meno gli italiani. Grandi lavoratori, con sessant’otto ore medie settimanali e uno stipendio pari a mille e seicento euro mensili circa, annoverano pochi disoccupati, sebbene la crescita quantitativa del fenomeno dell’autoimpiego, una maggiore concorrenza interna, un’asta costante al continuo ribasso dei prezzi, il carattere sempre meno esotico dei ristoranti etnici colpiti dalle recenti campagne sulla sicurezza alimentare (che hanno spinto i gestori cinesi a trasformarli, quanto meno nel nome, in giapponesi) e dalla propaganda serrata sul made in Italy che ha colpito il loro comparto manifatturiero.
Anzi, nonostante la crisi finanziaria, il loro raggio d’azione si amplia sempre di più: prova ne siano l’interessamento per la prima società di grande distribuzione organizzata italiana (Esselunga) e le acquisizioni di entrambe le squadre calcistiche milanesi. Senza contare l’investimento immobiliare, con un cinese su tre proprietario di case.
Quanto meno bizzarro risulta l’approccio scolastico degli alunni cinesi: nonostante la maggiore incidenza di nati in Italia rispetto ad altri gruppi stranieri, soprattutto nelle scuole superiori, si calcola una quota minore, del 21 per cento, di inserimenti scolastici regolari relativamente all’età e alle altre nazionalità, con un tasso del 49 per cento. Tradotto: quattro cinesi su cinque sono in ritardo e uno su tre nell’ordine di un rallentamento pluriennale contro, in media, uno studente straniero su otto.Ma, nonostante il percorso di studi accidentato, secondo quanto riporta la scheda informativa redatta dall’Ismu dal titolo “L’immigrazione cinese in Italia, in Lombardia e a Milano: presenze, alunni, caratteristiche di integrazione, imprenditoria, aspetti interessanti”, la distribuzione dei voti “evidenzia la spiccata propensione per la matematica degli alunni cinesi, con risultati migliori anche rispetto agli alunni italiani nelle secondarie di secondo grado, mentre presentano maggiori difficoltà in italiano”. Più realisti dei loro coetanei, sono il gruppo nazionale con il minor divario tra i voti effettivamente conseguiti e l’autovalutazione del proprio rendimento.
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di Tania Careddu
Spinti dalla sete di cambiamento, dal desiderio di sentirsi vivi e dalla ricerca di un’identità certa, a migrare sono soprattutto i giovani. Rappresentano la cifra costitutiva delle migrazioni contemporanee e, non solo per antonomasia, il futuro di un’Italia che, altrimenti, sarebbe destinata a un lento declino demografico. Linfa vitale per un paese che, sul quel versante, ha serie fragilità, i giovani migranti, all’arrivo, inconsapevolmente, acquisiscono la responsabilità smisurata di traghettare la società italiana verso una nuova dimensione, arricchita da un universo semantico ampio e complesso.
Migrano con maggiori conoscenze e capacità ma si formano nelle scuole italiane: si diplomano negli istituti del Belpaese e più di tredicimila di loro, negli ultimi anni, si sono iscritti all’università, scegliendo facoltà socio-linguistiche o politico-sociali, economia o ingegneria.
A costo di incorrere nell’overeducation (eccesso di laureati non assorbiti dal mondo del lavoro) che, fra gli immigrati, è fenomeno molto diffuso, raggiungendo un tasso percentuale del 65,9 per cento (versus il 19,9 per cento degli italiani) e in una penalizzazione qualitativa essendo impiegati in attività non qualificate. Oppure, in una sovrarappresentazione tra i NEET, con il 35 per cento dei residenti stranieri di età compresa fra i quindici e i trentaquattro anni, con un background migratorio.
Ma, nonostante tutto, stando a quanto riporta il “XXVI Rapporto Immigrazione 2016”, redatto da Caritas e Migrantes, i giovani stranieri fino ai ventinove anni, sono alle prese, più che altro, con disagi legati alle emergenze, alle richieste d’asilo, alle situazioni di irregolarità giuridica, ai vari tipi di problemi amministrativi e burocratici, al riconoscimento dei titoli. E può succedere che il sentimento di insicurezza percepito nella società attuale dai giovani immigrati, li porti a forme di devianza.
Spesso, risultato di rigurgiti di protesta e ribellione al senso di sradicamento dalla cultura di origine o a quello di imposizione di modelli culturali difformi dai propri con conseguente sensazione di smarrimento del senso di appartenenza e identità. O causate da reazione rivendicative al processo di emarginazione rispetto all’impossibilità di omologarsi a modelli consumistici assurti dai coetanei autoctoni.Acquisire visibilità (anche negativa) e ottenere un riconoscimento sociale, di fronte all’indifferenza del mondo, può tradursi in disturbi psichici e sfociare in aggressività e violenza. O in dipendenze di sorta da alcol o da droghe che, oltre a essere riconducibili a uno stato di malessere generale, possono essere interpretabili sia come reazione a un vissuto abbandonico sia come tentativo di adeguamento alla nuova realtà così da diminuire la distanza con la società che li ospita al fine di un progressivo inserimento. Nelle mani, invece, di chi li accoglie, raccogliendo la naturale nostalgia umana che i migranti, lontani da casa, avvertono profondamente.
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di Tania Careddu
Saranno pure ricchi ma, sul fronte del progresso sociale per i bambini, la maggior parte dei paesi abbienti arreca alcune arretratezze. A nulla vale l’elevato reddito nazionale che, tout court, non garantisce buoni precedenti nella promozione del benessere infantile: riduzione delle disuguaglianze, buona salute e istruzione di qualità, infatti, non dipendono esclusivamente dal livello di ricchezza.
Tradotto: non basta aver ridotto la povertà e le privazioni per aver raggiunto obiettivo di progresso sociale, quali la sostenibilità ambientale, il consumo responsabile e la pace. Entrano in gioco influenze sovranazionali, come l’inquinamento, l’evoluzione dei flussi informativi, l’instabilità e le migrazioni, a mettere alla prova il benessere dei bambini. Cosicché, nei paesi ricchi, un bambino su cinque vive comunque in povertà, uno su otto è vittima di insicurezza alimentare – con un’incidenza in aumento dell’obesità – dipendente, anche, dalla prematura fine dell’allattamento.
E saranno pure diminuiti i tassi di mortalità neonatale, di ubriachezza e di gravidanze precoci ma, stando a quanto riporta il dossier “Costruire il futuro”, redatto dall’Unicef, sono aumentati i problemi di salute mentale fra gli adolescenti, tant’è che uno su quattro manifesta sintomi di malessere almeno una volta a settimana e in Italia più che in Germania.
Prova ne sia che, sempre nei paesi ad alto reddito, circa una donna su sedici ha subito abusi sessuali prima dei quindici anni e gli atteggiamenti che rafforzano la disuguaglianza di genere sono ancora profondamente radicati. E diversità di sorta permangono fra i bambini delle ricche nazioni cosicché, anche qui, lo svantaggio economico pregiudica le pari opportunità: i quindicenni delle famiglie più agiate conseguono risultati scolastici decisamente migliori rispetto a quelli dei loro coetanei appartenenti a contesti socio-economici più bassi.Svantaggiati o no, comunque, i minori che abitano in metà delle città degli stati a reddito elevato sono vittime di bassi standard di sicurezza alimentare per la qualità dell’aria urbana. E vittime, un bambino su dieci, di bullismo e altre forme di violenza, con un’incidenza particolarmente elevata nei paesi baltici. A dimostrazione del fatto che a determinare la riuscita di buoni risultati (anche nella lotta alla povertà) non è il reddito ma le politiche di governo. E gli aspetti ai quali danno priorità affinché non si lasci indietro nessun bambino. Perché gli obiettivi tendenti al loro benessere prescindano dall’accumulazione di ricchezza che non sia quella umana.