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di Tania Careddu
Spinti dalla sete di cambiamento, dal desiderio di sentirsi vivi e dalla ricerca di un’identità certa, a migrare sono soprattutto i giovani. Rappresentano la cifra costitutiva delle migrazioni contemporanee e, non solo per antonomasia, il futuro di un’Italia che, altrimenti, sarebbe destinata a un lento declino demografico. Linfa vitale per un paese che, sul quel versante, ha serie fragilità, i giovani migranti, all’arrivo, inconsapevolmente, acquisiscono la responsabilità smisurata di traghettare la società italiana verso una nuova dimensione, arricchita da un universo semantico ampio e complesso.
Migrano con maggiori conoscenze e capacità ma si formano nelle scuole italiane: si diplomano negli istituti del Belpaese e più di tredicimila di loro, negli ultimi anni, si sono iscritti all’università, scegliendo facoltà socio-linguistiche o politico-sociali, economia o ingegneria.
A costo di incorrere nell’overeducation (eccesso di laureati non assorbiti dal mondo del lavoro) che, fra gli immigrati, è fenomeno molto diffuso, raggiungendo un tasso percentuale del 65,9 per cento (versus il 19,9 per cento degli italiani) e in una penalizzazione qualitativa essendo impiegati in attività non qualificate. Oppure, in una sovrarappresentazione tra i NEET, con il 35 per cento dei residenti stranieri di età compresa fra i quindici e i trentaquattro anni, con un background migratorio.
Ma, nonostante tutto, stando a quanto riporta il “XXVI Rapporto Immigrazione 2016”, redatto da Caritas e Migrantes, i giovani stranieri fino ai ventinove anni, sono alle prese, più che altro, con disagi legati alle emergenze, alle richieste d’asilo, alle situazioni di irregolarità giuridica, ai vari tipi di problemi amministrativi e burocratici, al riconoscimento dei titoli. E può succedere che il sentimento di insicurezza percepito nella società attuale dai giovani immigrati, li porti a forme di devianza.
Spesso, risultato di rigurgiti di protesta e ribellione al senso di sradicamento dalla cultura di origine o a quello di imposizione di modelli culturali difformi dai propri con conseguente sensazione di smarrimento del senso di appartenenza e identità. O causate da reazione rivendicative al processo di emarginazione rispetto all’impossibilità di omologarsi a modelli consumistici assurti dai coetanei autoctoni.
Acquisire visibilità (anche negativa) e ottenere un riconoscimento sociale, di fronte all’indifferenza del mondo, può tradursi in disturbi psichici e sfociare in aggressività e violenza. O in dipendenze di sorta da alcol o da droghe che, oltre a essere riconducibili a uno stato di malessere generale, possono essere interpretabili sia come reazione a un vissuto abbandonico sia come tentativo di adeguamento alla nuova realtà così da diminuire la distanza con la società che li ospita al fine di un progressivo inserimento. Nelle mani, invece, di chi li accoglie, raccogliendo la naturale nostalgia umana che i migranti, lontani da casa, avvertono profondamente.
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di Tania Careddu
Saranno pure ricchi ma, sul fronte del progresso sociale per i bambini, la maggior parte dei paesi abbienti arreca alcune arretratezze. A nulla vale l’elevato reddito nazionale che, tout court, non garantisce buoni precedenti nella promozione del benessere infantile: riduzione delle disuguaglianze, buona salute e istruzione di qualità, infatti, non dipendono esclusivamente dal livello di ricchezza.
Tradotto: non basta aver ridotto la povertà e le privazioni per aver raggiunto obiettivo di progresso sociale, quali la sostenibilità ambientale, il consumo responsabile e la pace. Entrano in gioco influenze sovranazionali, come l’inquinamento, l’evoluzione dei flussi informativi, l’instabilità e le migrazioni, a mettere alla prova il benessere dei bambini. Cosicché, nei paesi ricchi, un bambino su cinque vive comunque in povertà, uno su otto è vittima di insicurezza alimentare – con un’incidenza in aumento dell’obesità – dipendente, anche, dalla prematura fine dell’allattamento.
E saranno pure diminuiti i tassi di mortalità neonatale, di ubriachezza e di gravidanze precoci ma, stando a quanto riporta il dossier “Costruire il futuro”, redatto dall’Unicef, sono aumentati i problemi di salute mentale fra gli adolescenti, tant’è che uno su quattro manifesta sintomi di malessere almeno una volta a settimana e in Italia più che in Germania.
Prova ne sia che, sempre nei paesi ad alto reddito, circa una donna su sedici ha subito abusi sessuali prima dei quindici anni e gli atteggiamenti che rafforzano la disuguaglianza di genere sono ancora profondamente radicati. E diversità di sorta permangono fra i bambini delle ricche nazioni cosicché, anche qui, lo svantaggio economico pregiudica le pari opportunità: i quindicenni delle famiglie più agiate conseguono risultati scolastici decisamente migliori rispetto a quelli dei loro coetanei appartenenti a contesti socio-economici più bassi.
Svantaggiati o no, comunque, i minori che abitano in metà delle città degli stati a reddito elevato sono vittime di bassi standard di sicurezza alimentare per la qualità dell’aria urbana. E vittime, un bambino su dieci, di bullismo e altre forme di violenza, con un’incidenza particolarmente elevata nei paesi baltici. A dimostrazione del fatto che a determinare la riuscita di buoni risultati (anche nella lotta alla povertà) non è il reddito ma le politiche di governo. E gli aspetti ai quali danno priorità affinché non si lasci indietro nessun bambino. Perché gli obiettivi tendenti al loro benessere prescindano dall’accumulazione di ricchezza che non sia quella umana.
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di Tania Careddu
Ratificata dall’Italia nel lontano 1985, la Convenzione sull’Eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna è ancora applicata a macchia di leopardo. Tant’è che esiste tuttora un serio deficit culturale e una non piena realizzazione del principio di uguaglianza fra uomini e donne: dall’ambito giudiziario a quello professionale, dalla vita pubblica a quella privata, dalla scuola alla sanità.
Né esistono meccanismi legislativi e governativi di monitoraggio per verificare l’approccio di genere e il conseguente impatto: manca, ormai da qualche anno, il ministero per le Pari opportunità e, nonostante indubbi miglioramenti, riferibili alla presenza di donne nella compagine governativa, la loro visibilità nella vita pubblica non è ancora garantita.
Svuotando di potere (di vigilare sulle discriminazioni nei luoghi di lavoro), nel 2015, la figura delle Consigliere di parità e modificando le funzioni del Comitato Nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento e uguaglianza di opportunità tra lavoratrici e lavoratori, il mercato del lavoro italiano, che già di suo non gode di buona salute, dal punto di vista del controllo è allo sbaraglio.
Il sistema dell’istruzione, costituito per l’82 per cento da docenti femminili, ne è un esempio: il piano straordinario di mobilità, previsto dalla legge nota come Buona Scuola, non solo ha peggiorato le condizioni di vita delle donne ma anche l’offerta formativa in termini di genere. Cosi, secondo quanto si legge nel Rapporto Lavori in corsa 2016-2017, stilato dalla Cedaw, oltre a permanere il radicamento del sessismo e degli stereotipi nei programmi scolastici, sono morti sul nascere i tentativi di inserire interventi e progetti pedagogici relativi all’omofobia e al bullismo di genere. Così, la rappresentazione monosessuata maschile occidentale del sapere quale unico motore della società e della cultura, si mantiene nella programmazione curriculare di tutte le discipline.
Carente e osteggiata dalla famiglie cattoliche, l’educazione sessuale e la conseguente promozione della tutela della salute della donna. Non solo nelle scuole, non c’è traccia di campagne informative sugli anticoncezionali e il loro costo, non coperto dal Sistema Sanitario Nazionale, è aumentato e, piuttosto, sono state adottate politiche conservatrici che mirano a promuovere la fertilità in quanto valore in sé e non parte della salute riproduttiva delle donne e che veicolano valori tradizionali della protezione della vita tramite l’embrione a discapito dell’autodeterminazione della donna nella sfera sessuale. Impera l’obiezione di coscienza in barba alla legge e l’applicazione del protocollo della RU486 è ancora gravemente insufficiente.
Una violazione della libertà che fa il paio con la violenza maschile la quale, però, continua a essere minimizzata e giustificata: nelle aule giudiziarie, infatti, ancora troppo spesso, vengono invocati la gelosia, il raptus, la capacità di intendere e di volere dell’autore e si procede con rito abbreviato senza tenere conto della logica e dell’estrema lucidità delinquenziale con cui agisce il potenziale recidivo che ne rimane.
Giustizia, forze di polizia e servizi sociali, troppo spesso scambiano situazioni di violenza con quelle di conflittualità di coppia, con gravi danni per le donne costrette a procedimenti di mediazione familiare e, in caso di minori, ad affidi condivisi, anche quando non desiderati. Sono costrette a ricorrere ad un abuso della sindrome di alienazione genitoriale, troppo frequentemente addotta dagli assistenti sociali e nelle aule dei tribunali dai periti a discapito dei diritti del minore vittima della violenza assistita e della donna.
In sede civile, poi, causa decisioni giudiziarie affette da pregiudizi sessisti, le donne dono destinatarie di provvedimenti di ammonimento o sanzionatori, con risarcimento del danno a favore del padre in quanto ritenute responsabili dell’assenza o della cattiva qualità del rapporto padre-figli. Madri ostative o alienanti versus padri impuniti anche se inadempienti in termini di mantenimento e cura dei figli. Non è un paese per donne.
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di Antonio Rei
Sullo ius soli tutti parlano, ma pochi conoscono. È uno di quegli argomenti apparentemente semplici, su cui ognuno si sente autorizzato a rigurgitare un giudizio sommario senza aver mai letto nulla. E così, da destra, arriva il solito tsunami di sciocchezze figlie dell’ignoranza.
A ingenerare l’equivoco sono stati soprattutto Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che a più riprese hanno parlato di “cittadinanza automatica agli immigrati”, nel tentativo di fomentare la paura degli elettori. Il ragionamento è elementare: se facciamo diventare immediatamente italiano chiunque nasca in Italia spalanchiamo le porte agli immigrati di mezzo mondo, che non vedranno l’ora di portare le proprie donne a partorire nei nostri confini per assicurarsi un lasciapassare valido in tutta l’Unione europea. Non fa una piega, vero? Sbagliato: è una colossale falsità.
Chi sostiene questo punto di vista può appartenere solo a tre categorie: 1) quelli che parlano in mala fede, per portare acqua al proprio mulino elettorale; 2) quelli che parlano senza nemmeno aver letto la legge; 3) quelli che parlano dopo aver letto la legge, ma senza averla capita.
Il testo in discussione al Senato, infatti, non prevede di distribuire passaporti a casaccio, ma introduce due nuovi modi per diventare italiani. Entrambi, peraltro, più ragionevoli di quello attualmente in vigore, che concede la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri solo al compimento dei 18 anni.
Il primo è lo ius soli temperato. L’aggettivo è cruciale: significa che per far diventare italiani i propri bambini agli stranieri non basta farli nascere in Italia, magari “appena sbarcati”, come recita la vulgata fascistoide. Tutt’altro: almeno uno dei genitori deve avere un permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. Si tratta di un documento dalla durata illimitata, che non dev’essere rinnovato e che viene rilasciato solo ad alcune condizioni: lo straniero dev’essere residente legalmente in Italia da almeno cinque anni (senza interruzioni significative), deve superare un test di conoscenza della lingua italiana, avere un’abitazione idonea in base a requisiti previsti dalla legge e un reddito annuo non inferiore all’importo dell’assegno sociale Inps (che nel 2017 ammonta a 5.824,91 euro).
Quindi i figli degli immigrati irregolari (a proposito: non si dice “clandestini”) non diventeranno affatto italiani automaticamente. E nemmeno i bambini degli immigrati regolari ma con un permesso di soggiorno temporaneo. E neanche quelli di chi ha un permesso di soggiorno illimitato ma si è stabilito in Italia da meno di cinque anni. Quindi chi usa toni da crociato per scagliarsi contro l’invasione dei saraceni racconta un mucchio di balle.
La seconda novità è invece lo ius culturae. In questo caso il minore straniero nato in Italia – o che vi ha fatto ingresso entro il 12esimo anno di età – diventa italiano se ha frequentato regolarmente uno o più cicli scolastici o di formazione professionale nel territorio nazionale e per almeno cinque anni.
Ius soli e ius culturae, inoltre, non prevedono nulla di automatico: per ottenere la cittadinanza servirà una dichiarazione di volontà in tal senso espressa da uno dei genitori entro il 18esimo compleanno del figlio. In alternativa, è il diretto interessato a poter chiedere la cittadinanza entro due anni dal momento in cui diventa maggiorenne.
Infine, un’altra variante dello ius culturae prevede che possa diventare italiano lo straniero che soddisfi alcuni requisiti: aver fatto ingresso nel territorio nazionale prima di aver compiuto 18 anni, essere legalmente residente in Italia da almeno sei anni e aver frequentato un ciclo scolastico o di formazione professionale con il conseguimento del titolo conclusivo.
Insomma, affermare che l’Italia stia per adottare lo ius soli puro, sul modello di quello in vigore negli Stati Uniti, è gravemente scorretto.
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di Tania Careddu
Fra la potenza espressiva che umanizza il fenomeno delle migrazioni e l’esuberanza comunicativa sul sospetto nei confronti di salvati e salvatori, si muove il racconto delle operazione di ricerca e soccorso in mare (SAR) dei migranti che, più di ogni altro aspetto – dalla gestione dell’accoglienza fino all’asilo politico - incornicia i volti e le storie delle persone che arrivano sulle coste italiane.
All’insegna del riconoscimento e dell’umanità, la narrazione dei salvataggi, dei naufragi e degli arrivi racconta di esseri umani più che di migranti e profughi, rendendo le operazioni di soccorso l’unica sfaccettatura del fenomeno migratorio estranea al conflitto politico e immune da accuse e attacchi delegittimanti.
Fino a quando il cambiamento del frame comunicativo, in seguito alla pubblicazione del documento Risk Analisys Report di Frontex, svuota di senso riconoscimento e umanità e contamina la percezione della pubblica opinione: da dimensione umanitaria a securitaria, dal soccorso di persone in mare al controllo dei flussi e dall’accoglienza alla fortezza.
Prima di allora e che il racconto spostasse il fulcro dell’azione sul ruolo dei controlli alle frontiere, sulle politiche per disincentivare le partenze, sugli accordi tra stati per bloccare il transito dei migranti, sia sulla carta stampata sia sui notiziari televisivi, la narrazione era intrisa di sofferenza, di pietas e di solidarietà, priva di critiche e polemiche, che include anche lo sguardo di speranza di coloro che sono giunti sulle coste del Belpaese.
‘Sui barconi paura e rinascita’, si legge nella ricerca “Navigare a vista”, condotta dall’Osservatorio di Pavia, raccontate dalle voci dei protagonisti stessi della ricerca e del soccorso, di chi li accoglie e dei migranti: mani che li accolgono a bordo, voci che urlano dalle barche alla salvezza e sommozzatori che recuperano persone di tutte le età. In questo scenario, fra una narrazione empatica e la spettacolarizzazione del dolore, l’obiettivo dei media è coinvolgere emotivamente lo spettatore, rendendo opaca la linea di demarcazione tra diritto di cronaca e sensibilizzazione circa la gravità di quanto accade nel Mar Mediterraneo.
Che, quando il soccorso è andato a buon fine, ha il suono di un inno alla vita: le immagini che passano sono rassicuranti e tranquillizzano le coscienze perché capaci di far sospendere il giudizio sul fenomeno dei migranti. Producono empatia per le vittime di viaggi disperati alla ricerca di una calda accoglienza e di gratitudine verso i soccorritori, ‘angeli del mare’ che, dopo le accuse infondate rivolte alle ONG, perdono le ali. Un mutamento causato da un registro narrativo distorto, che origina dalla pigrizia di alcuni giornalisti che preferiscono inseguire notizie urlate e votate alla caccia alle streghe, il quale ha dato luogo a una scarsa conoscenza del fenomeno a discapito di un approccio orientato all’approfondimento.
Bisognerebbe leggere il diario di bordo per rimanere esseri umani: “io credo che, in questo contesto (a bordo della Vos Prudence, ndr), anche gente respingente non possa far altro che subire la responsabilità umana nei confronti di queste persone”, racconta il medico di MSF, Stefano Geniere Nigra, che dice: “Vedere il viso di persone esattamente come te che si tramuta nell’arco di dieci metri, quando salgono sulla nostra imbarcazione - dalla disperazione e dalla paura più totale alla gioia e alla speranza - è un cambiamento talmente repentino e ripetuto che non ti può lasciare indifferente. E ti coinvolge sia prima che dopo (il salvataggio). Sei coinvolto in questa trasformazione”.