di Mariavittoria Orsolato


Che Umberto Bossi non fosse pronto alla morte ove l’Italia chiamasse lo sapevamo già da un pezzo. Sapevamo anche che il Senatùr quando va in Veneto ad arringare i suoi serenissimi padani, dà il meglio di sé: come quando, col suo immancabile fazzoletto verde, chiese ai fedelissimi del Carroccio di imbracciare fucili, schioppi e scacciacani per una versione riveduta e corretta della marcia su Roma o come quella volta a Venezia - c’è da dire, memorabile - in cui apostrofò una signora che aveva coraggiosamente esposto il tricolore, dicendole che con quella bandiera ci si poteva pure pulire il culo. E scusate la volgarità, ma è di Bossi che stiamo parlando e non si può andare fuori contesto. La scorsa domenica le ire e le frustrazioni secessioniste del leader della Lega e - non dimentichiamolo - Ministro delle Riforme, sono state monopolizzate dall’inno di Mameli: durante l’annuale congresso della Liga Veneta, tenutosi a Padova, il Bossi Furioso se l’è presa con il settimo verso del nostro - ammettiamolo - sgangherato inno nazionale alzando elegantemente il dito medio e aggiungendo: “Dice che siamo schiavi di Roma, toh!”. Peccato che nell’inno nazionale l’unica schiava di Roma (ladrona?) fosse la vittoria, ma nessuno degli scalmanati presenti in sala gliel’ha fatto notare.


di Fabrizio Casari

Dialogo. Meglio non chiedersi cosa significhi concretamente; basti solo sapere che risulta il termine più usato in questa afosa stagione della politica. Il dialogo, per principio, è un rapporto fondato su un reciproco interesse. Ora, che il governo abbia bisogno di dialogare con l’opposizione è persino ovvio. Per quanto ampio sia il margine del suo consenso, difficile che si sia disposti a proporre al Paese un piano di purghe generalizzato senza condividerne il peso con l'opposizione. Il risultato auspicato, fin troppo facile prevederlo, é di corresponsabilizzare l’opposizione stessa nei riverberi negativi delle riforme, mentre ci si gode appieno l’aspetto utilitaristico a tutto vantaggio della ulteriore sedimentazione della propria maggioranza, che coincide con quella della propria prospettiva politica. Quello che sfugge, invece, è l’utilità del suddetto dialogo da parte dell’opposizione. Perché se si dice - e con ragione - che il governo balla sul Titanic, che le sue promesse si sono rivelate "fuffa" allo stato puro, che il paese può d’implodere e che il rischio di deriva autoritaria è tutt’altro che una ossessione comunarda, allora non si capisce quale interesse abbia l’opposizione a correre dietro al governo.

di Alessandro Iacuelli

"L'emergenza a Napoli sui rifiuti e' finita". Chi lo dice? Non i napoletani, certo, ma il Presidente del Consiglio, che ha già annunciato ieri questa dichiarazione in una conferenza stampa. Spiega che sono state tolte settemila tonnellate di rifiuti al giorno e, in più, trentacinquemila tonnellate che "erano rimaste inevase". "C'e' ora - osserva Berlusconi - una stabilizzazione che sarà maggiore quando andranno a pieno regime tutti i termovalorizzatori". Peccato che almeno diecimila tonnellate di rifiuti urbani sono ancora a cielo aperto nei comuni limitrofi e 40mila sono in stoccaggio provvisorio. In pratica, è stata pulita in fretta e in furia la città capoluogo, sacrificando la provincia. Berlusconi dice di incassare, ma non incassa i primi risultati raggiunti dalla gestione del sottosegretario Guido Bertolaso e si prepara a lanciare la strategia di comunicazione "per il riscatto dell'Italia da questa vergogna".

di mazzetta

L'epilogo della vicenda della caserma di Bolzaneto, presto destinato a fare il paio con quello della macelleria messicana nella scuola A. Diaz, non stupisce affatto l'italiano medio. Che è, per prassi consolidata, mediamente abituato all'impunità del potere al pari di quanto sconvolge molti osservatori internazionali che da anni seguono la vicenda. Nel luglio del 2001 a Genova è andato in scena un grave attentato alla democrazia, una sequenza di fatti dolosamente gravissimi posta in essere non dai teppisti senza volto, ma da uomini con nome, cognome e ruolo istituzionale. I fatti sono sempre stati sotto gli occhi di tutti. Le condanne, se pur risibili, di figure di secondo piano, diventano testimonianza allo stesso tempo dell'incapacità del sistema a correggere se stesso e di quanto lo stesso sistema fosse allora - e sia ancora - assolutamente incapace al mantenimento di standard minimi di legalità.

di Mario Braconi

Succedono cose stranissime in periodi di crisi: blasonati quotidiani finanziari britannici rivalutano i pregi di una seria regolamentazione dei mercati finanziari per la collettività; l’Ecofin, finora ingenuo come un’illibata fanciulla, scopre finalmente l’esistenza della speculazione internazionale e dibatte i malanni che ne derivano ai cittadini europei. Ma l’evento più interessante della scorsa settimana è il garbato battibecco con cui il ministro dell’Economia e delle Finanze e il Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea ABI (Associazione Bancaria Italiana) hanno contrapposto le rispettive visioni del mondo, talora ricorrendo ad uno stile che non avrebbe sfigurato in una vecchia sezione socialista. Se da un lato, infatti, Tremonti si è prodotto in un’inattesa difesa della classe operaia (l’unica impossibilitata a “traslare” su qualcun altro gli effetti degli aumenti di prezzi), Draghi ha messo impietosamente il dito nella piaga di un Paese cui l’insipienza politica ha regalato un livello di salari reali netti non troppo diverso da quello registrato quindici anni fa.


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