Con la terza ondata della pandemia alle porte, la fine del blocco ai licenziamenti che si avvicina e migliaia di attività che chiudono per non riaprire più, è difficile appassionarsi al duello politico fra Matteo Renzi Giuseppe Conte. Eppure, il destino del Paese è appeso alle manovrine di palazzo prodotte da questi due soggetti: da una parte un leader politico fallito, plurisconfitto, ignorato dagli elettori, che disperatamente cerca di assicurarsi una collocazione di prestigio per i prossimi anni; dall’altra un avvocato qualsiasi finito tre anni fa in modo più o meno casuale sulla poltrona più importante di Palazzo Chigi, a cui cerca di restare avvinghiato in ogni modo.

Matteo Renzi si è trasformato in tutto quello contro cui predicava fino a qualche anno fa: il leader di un partitino che tiene in ostaggio la maggioranza per un tornaconto di cortile. La sua contesa muscolare con Giuseppe Conte non si può davvero interpretare come una battaglia nell’interesse del Paese. Se così fosse, l’ex premier sceglierebbe gli argomenti su cui puntare e cercherebbe un compromesso per portare a casa il risultato. Invece Renzi fa tutt’altro. Scrive liste, lancia ultimatum, sibila minacce. Arriva perfino allo sfottò, coniando l’acronimo “Ciao” per l’elenco dei desideri con cui punta a far cadere il governo. Da settimane non fa altro che aggiungere ogni giorno una pretesa nuova, con il chiaro obiettivo di farsi opporre un rifiuto.

L’assoluzione in secondo grado di Virginia Raggi rimescola le carte nella battaglia principale delle amministrative 2021: quella per il Campidoglio. In estrema sintesi, il Movimento 5 Stelle è costretto a sostenere la ricandidatura della sindaca, infrangendo così le speranze del Pd, che voleva replicare a Roma l’alleanza di governo. La separazione forzata fra dem e grillini fa esultare la destra, che - pur non avendo ancora un candidato - vede moltiplicarsi le possibilità di successo. Festeggia anche Carlo Calenda, convinto che a questo punto il Pd non possa negargli il proprio sostegno. Ma andiamo con ordine, partendo dal riassunto delle puntate precedenti.

Forse il potere logora chi non ce l’ha, come diceva Andreotti. Di sicuro, chi ce l’ha soccombe quasi sempre al delirio d’onnipotenza, e si scava la fossa. È successo a Monti nel 2011, a Renzi nel 2015-2016 e ora sta accadendo a Giuseppe Conte. Non si spiega altrimenti la folle struttura di governance partorita da Palazzo Chigi per gestire i 209 miliardi in arrivo dall’Europa con il Recovery Plan.

Innanzitutto, una questione di metodo: prima del chi, sarebbe logico mettere a fuoco il cosa. Ossia, prima di stabilire chi avrà la responsabilità di mettere in pratica il Recovery Plan, sarebbe il caso di scriverlo questo benedetto Recovery Plan, che invece viaggia ancora nella dimensione dell’indefinito, dell’annuncio, del non ancora. Oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente.

Dovremmo organizzarci per la distribuzione dei vaccini (siamo già in ritardo). Dovremmo scrivere il piano su come utilizzare i 209 miliardi del Recovery Fund (anche su questo siamo già in ritardo). Eppure, ci ritroviamo a parlare di rimpasto. Come sempre accadde nella Prima Repubblica e sempre accadrà nella Seconda, a un certo punto la maggioranza si illude di rafforzarsi con un cambiamento dei ministri. Proposito velleitario ma anche falso, visto che la logica del rimpasto non ha a che vedere con l’interesse del Paese. È il solito gioco di palazzo, alimentato da arrivismi personali, sete di rivalsa delle correnti, ambizioni di controllo da parte delle segreterie.


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