Si può davvero considerare di sinistra, o anche solo di centrosinistra, un partito in cui le porte girevoli fra politica e finanza sono sempre aperte? Dopo Pier Carlo Padoan, un altro parlamentare ed ex ministro del Pd abbandona gli uffici pubblici per traslocare in un gruppo privato. Si tratta di Marco Minniti, che lascia la Camera dei Deputati per diventare presidente di Med-or, fondazione creata giovedì scorso da Leonardo per essere un “mediatore economico, industriale e culturale” fra l’Italia e i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Come nella favola “Al lupo! Al Lupo!”, dopo anni di strilli, forse il lupo è arrivato davvero. I litigi fra i grillini e le espulsioni dal Movimento 5 Stelle sono ormai un rituale della politica italiana, ma le ultime schermaglie rischiano di avere conseguenze senza precedenti. Quella iniziata la settimana scorsa è infatti la ribellione più ampia di sempre fra i pentastellati e l’infornata di epurazioni che ne è scaturita rischia di alterare l’equilibrio politico delle Camere.

La ragione è aritmetica. Fin qui, 19 deputati e 21 senatori sono stati espulsi dai gruppi M5S per non aver votato la fiducia al governo Draghi, violando il precetto di rispettare la volontà degli iscritti (o meglio, di Rousseau).

Il governo Draghi contiene tutti i partiti (a parte Fratelli d’Italia), ma al contempo li esclude dalla stesura del Recovery Plan. La partita più importante è affidata a una sorta di Consiglio d’amministrazione interno all’Esecutivo e composto dai tre ministri tecnici più importanti: Daniele Franco all’Economia, Vittorio Colao all’Innovazione tecnologica e Roberto Cingolani alla Transizione ecologica.

Il primo sarà il guardiano della finanza pubblica, mentre il secondo e il terzo smisteranno la maggior parte dei 209 miliardi in arrivo da Bruxelles: le regole del programma Next Generation Eu prevedono infatti che il 37% delle risorse sia impiegato in progetti green e il 20% per il digitale. Nell’ambito di questo Cda, la poltrona di amministratore delegato spetta naturalmente a Mario Draghi, che - per blindare in modo definitivo la missione - ha anche tenuto per sé la delega ai rapporti con l’Unione europea.

Né salvatore della patria né tecnocrate al servizio del Male. Mario Draghi nelle vesti di presidente del Consiglio, con ogni probabilità, non svolgerà nessuno di questi due ruoli. Subito dopo il conferimento dell’incarico da parte di Mattarella, il dibattito intorno all’ex numero uno  della Bce si è polarizzato: su una curva viaggia la narrativa ufficiale, che dipinge Draghi come l’eroe senza macchia, in grado di risollevare da solo le sorti dell’Italia; sull’altra ci sono gli estremismi opposti (di destra e di sinistra) che vedono nel futuro premier l’emanazione delle banche, di Bruxelles, dei “poteri forti” determinati ad affamare il popolo per saziare i padroni.

Matteo Renzi vuole un governo istituzionale. Mario Draghi, o chi per lui. Il nome poco importa: l’obiettivo del capo di Italia Viva non è trovare una figura che assicuri l’esecuzione di un programma di governo ambizioso, ma lasciare dietro di sé il vuoto. Ossia far esplodere il progetto zingarettiano di un’alleanza stabile fra Pd e Movimento 5 Stelle - che il leader dem vorrebbe rendere strutturale a livello nazionale e locale - azzoppando la carriera di Giuseppe Conte, unica figura (almeno per ora) in grado di tenere insieme dem e grillini.


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