Il copione lo conosciamo: prima dicono la porcheria; poi il “non sono stato capito”, la “frase estrapolata dal contesto”; infine, le scuse. Giovanni Toti, governatore della Liguria, ha seguito alla perfezione questo cursus stultorum. La porcheria gli è scappata domenica mattina nel seguente tweet: “Per quanto ci addolori ogni singola vittima del #Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della #Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone perlopiù in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”.

Ora, letta così sembra veramente un abominio, roba da andarsi a nascondere in un pozzo per non fare mai più capolino. E questa è stata l’impressione generale suscitata dal cinguettio, visto che nel pomeriggio Toti si è visto sommergere da una valanga di melma. Tra i vari insulti grandinati sui social, gli hanno dato del “miserabile” in preda a “deliri di onnipotenza”.

Ma il beneficio del dubbio va concesso a tutti, per cui analizziamo il caso a partire dalla posizione del governatore. Il famoso “contesto” è quello della di un’altra giornata drammatica di pandemia, in cui il governo – per evitare il lockdown totale in stile primavera – sta pensando di costringere a casa gli over 70, la fascia di popolazione più a rischio.

Quindi, spiega Toti, il tweet significava che gli anziani sono persone spesso in pensione, che possono rimanere buoni sul divano, proteggendosi senza fermare l’economia del Paese. Poi, visto che il pozzo non gli sembrava ancora abbastanza profondo, il governatore decide di scavare ancora, buttandola sul privato: “Ho un papà di 81 anni: esce l’indispensabile e fa bene, ma starebbe volentieri un’ora in più a casa per far uscire mia sorella”.

Se è davvero questo il concetto che voleva enucleare, Toti è perlomeno colpevole di non sapresi esprimere. E sì, è una colpa: se ricopri una carica istituzionale e affermi di meritare la fiducia collettiva, non puoi giustificarti dicendo di aver “mal scritto” o di essere stato “mal interpretato”. È una scappatoia che non ti è concessa, perché farti capire rientra fra i tuoi doveri: non sono gli altri a dover “interpretare” quello che le tue meningi partoriscono.

L’ironia è che questo genere di colpa, oltre che sui politici, ricade anche su un’altra categoria professionale, quella dei giornalisti. E Toti appartiene ad entrambe.

Nella migliore delle ipotesi, quindi, l’ex direttore di Studio Aperto ha dimostrato imperizia in tutti e due i suoi lavori. Ma siamo sicuri che quel tweet sia solo l’inciampo lessicale di un incapace? A leggerla da fuori, è inevitabile pensare alla proverbiale voce dal sen fuggita: una porcheria, certo, ma anche un rigurgito estemporaneo (e involontario) di sincerità.

Perché nel definire gli anziani “persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” Toti fa calare il velo su una visione del mondo che lo accomuna a buona parte della destra italiana: perlomeno da Berlusconi a Renzi, passando per Confindustria. È il darwinismo sociale dei liberal de noantri, il produttivismo integralista che non concepisce diritti da esercitare, ma solo privilegi da acquistare. Chi fa soldi prevale, tutti gli altri soccombano pure. E in silenzio, che qui c’è gente che lavora.

A questo punto, per valutare il contenuto della predica, “dobbiamo tenere conto” del pulpito da cui è stata scandita. Perciò ricordiamo che Giovanni Toti, in passato, ha diretto un telegiornale in cui si sosteneva che Ruby fosse la nipote di Mubarak e Dell'Utri una vittima delle toghe rosse. Questo è stato lo sforzo produttivo di Giovanni Toti, anche se forse “sforzo” non è proprio la parola più adatta. A lui, è venuto naturale. 

Ci sono voluti 13 mesi, ma alla fine il governo Conte 2 ha corretto le misure più vergognose del Conte 1. Con il provvedimento varato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri, l’Italia si lascia finalmente alle spalle i decreti Salvini sull’immigrazione, che oltre a essere disumani e a violare una serie di norme internazionali rendevano anche il nostro Paese meno sicuro (a dispetto del nome, “decreti sicurezza”, partorito dalla Lega).

La cancellazione delle misure salviniane era una colonna del patto di governo giallorosso siglato nell’estate del 2019, ma solo con la vittoria alle amministrative del mese scorso il Pd ha trovato la forza di esigere dall’alleato quanto promesso. Del resto, la questione era e resta imbarazzante per il Movimento 5 Stelle come per Giuseppe Conte, che sui decreti Salvini avevano messo faccia e firma.

Quota 100 è uno degli argomenti su cui Matteo Salvini dà miglior prova del suo unico talento: fare propaganda a suon di bugie. La settimana scorsa, dal Festival dell’Economia di Trento, il premier Giuseppe Conte ha annunciato un’ovvietà: il rinnovo di Quota 100 “non è all’ordine del giorno”, perché la misura era “un progetto triennale che veniva a supplire a un disagio sociale”. Queste parole hanno spalancato la diga Salvini, che subito ha iniziato a inondare i social di panzane.

“Vogliono tornare alla legge Fornero? La Lega non glielo permetterà, promesso - ha tuonato il leader della destra - Non si scherza con i sacrifici di milioni di lavoratrici e lavoratori italiani”. E, come se non bastasse, ha piazzato anche l’hashtag #Forneromaipiù.

A sentire Salvini, si direbbe che Quota 100 fosse una riforma strutturale delle pensioni interamente sostitutiva della Fornero. Peccato che non sia vero. Anzi, questa affermazione contiene due bugie grandi come palazzi.

La bugia numero uno riguarda la durata di Quota 100, che non è mai stata una riforma strutturale del sistema previdenziale. Al contrario, fin dal primo giorno ha avuto una data di scadenza – il 31 dicembre 2021 – fissata proprio dalla Lega quando era al governo con il Movimento 5 Stelle, ai tempi del Conte 1.

La bugia numero due riguarda la natura stessa di Quota 100, che non ha mai, nemmeno per un minuto, sostituito la legge Fornero. Può darsi che questa verità risulti incredibile a molti elettori leghisti, ma è incontestabile: la legge Fornero non è mai stata abolita, è tuttora in vigore e gode di ottima salute.

Lungi dall’essere una vera riforma delle pensioni, Quota 100 è solo uno scivolo aggiuntivo, che permette di lasciare il lavoro con almeno 62 anni di età e 38 di contributi. Ciò non toglie che i requisiti standard per andare in pensione rimangano quelli fissati dalla Fornero: al momento, per la pensione di vecchiaia servono 67 anni di età più 20 di contributi, mentre per quella anticipata è necessaria un'anzianità contributiva di 41 anni e 10 mesi per le donne e di 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Peraltro, tutti questi numeri sono destinati a salire in futuro per l’adeguamento alla speranza di vita, altro aspetto che la legge leghista ha lasciato inalterato.

Si potrebbe obiettare che, pur non essendo risolutiva, Quota 100 abbia comunque migliorato la situazione per i pensionandi italiani. Ma allora come si spiega il suo scarso successo? Quando approvarono la misura, Salvini e Di Maio parlarono di un milione di nuovi pensionati in cambio di un milione di nuovi posti di lavoro. Una sparata fantasiosa quant’altre mai. Fin qui, le domande accolte per il pensionamento anticipato con Quota 100 sono state poco più di 200mila e la disoccupazione giovanile continua a volare.

Già, perché anche il cosiddetto “effetto sostituzione” è una balla: visto l’affanno dell’economia italiana ancora prima del Covid – e a maggior ragione adesso, che è iniziata la più grave crisi dal dopoguerra – non è mai stata vera l’equivalenza secondo cui a ogni lavoratore in uscita corrisponde un nuovo posto per un giovane.

Ma il vero punto della questione è un altro. L’insuccesso di Quota 100 si spiega con un trucco che i lavoratori italiani hanno capito subito: in teoria, la misura non prevede penalizzazioni per chi lascia il lavoro in anticipo; in pratica, la penalizzazione è implicita, perché se vai in pensione a 62 anni invece che a 67 versi cinque anni di contributi in meno, di conseguenza l’assegno previdenziale è più basso (la differenza può arrivare al 15%).

Tutto questo ha anche un effetto collaterale positivo. Visto che, alla fine del triennio, le adesioni a Quota 100 saranno di gran lunga inferiori a quelle previste dalla Lega, lo Stato potrebbe risparmiare fino a 6,8 miliardi dei 21 stanziati. Un tesoretto notevole, che, magari, potrebbe essere usato per una riforma delle pensioni un po’ meno fasulla di quella salviniana.  

Quando si tratta di chiudere i social e iniziare a governare, la Lega di Matteo Salvini è incapace di fare qualsiasi cosa: perfino i condoni fiscali. Ricordate il “saldo e stralcio” varato dal governo gialloverde a fine 2018? È stato un fallimento. Il ministero dell’Economia ha confermato le valutazioni arrivate nei mesi scorsi prima dalla Corte dei Conti e poi dall’Agenzia delle Entrate: nel triennio 2019-2021 lo Stato incasserà dal condono leghista al massimo 785 milioni di euro, ossia il 12% in meno rispetto agli 890 indicati nella relazione tecnica della legge di bilancio 2019. E questo nella migliore delle ipotesi, perché finora gli unici soldi certi sono quelli arrivati all’Erario l’anno scorso: appena 300 milioni di euro.

Per quanto riguarda il numero di domande, la distanza fra le previsioni e il risultato raggiunto è a dir poco ridicola: all’inizio si stimava una platea di quattro milioni di contribuenti, ma finora le adesioni non vanno oltre quota 385mila. Meno di un decimo. 

Tuttavia, non sono nemmeno questi i numeri più clamorosi. Se andiamo a rispolverare le vecchie panzane del Capitano, scopriamo che per l’intera “Pace fiscale” – il calderone di sanatorie di cui il “saldo e stralcio” rappresentava il provvedimento di punta – Salvini aveva previsto un gettito ricchissimo: addirittura 30 miliardi di euro, il valore di una finanziaria corposa. Ebbene, a giugno l’Agenzia delle Entrate ha certificato che fino a oggi l’operazione ha prodotto risultati miserrimi: solo 900 milioni di euro. È vero, in teoria c’è ancora tempo, ma la distanza rispetto alle stime dimostra già tutta la cialtroneria di cui Salvini è capace. Fa parte del personaggio: quando il Capitano cita un numero, non è mai frutto di studi o di calcoli seri. Al contrario, si tratta sempre di una balla inventata per illudere gli elettori, soprattutto quelli nelle condizioni socioeconomiche più difficili.

Del resto, in realtà non c’è nemmeno lo spazio per recuperare in futuro il gettito che al momento manca all’appello. La maggior parte dei contribuenti che hanno aderito alla “Pace fiscale” ha deciso di mettersi in regola pagando in un’unica soluzione, mentre fra coloro che hanno scelto le rate molti si sono dati alla fuga dopo il primo versamento, giusto il tempo di far interrompere gli accertamenti del Fisco a loro carico.

Ora, il punto è che questo pasticcio non è il primo. Come dimenticare il capolavoro di Quota 100? L’ex misura-bandiera della Lega – che all’epoca faceva il paio con il reddito di cittadinanza pentastellato – finora è servita soltanto a fomentare l’ira dell’Europa. Nell’Ue non capiscono proprio per quale motivo l’Italia, con il debito pubblico che si ritrova, debba permettersi l’anticipo pensionistico più ampio del continente. Per fortuna, Bruxelles ha trovato una sponda inaspettata nei pensionandi italiani, che – annusando la fregatura – hanno snobbato in massa questo canale di uscita dal lavoro. Infatti, se è vero che con quota 100 si va in pensione senza penalizzazioni (bastano 62 anni d’età e 38 di contributi), è vero anche che, sfruttando al massimo l’anticipo, si versano 5 anni di contributi in meno e questo comporta un taglio dell’assegno che può fiorare il 15%. Risultato: secondo un’analisi pubblicata un mese fa sul Sole 24 Ore, a giugno 2020 le richieste di uscita con Quota 100 sono state 47.810, ossia nemmeno un terzo di quelle arriva all’Inps nello stesso mese del 2019. Alla fine del triennio di vita della misura, che scadrà il 31 dicembre 2021, si calcola che le adesioni saranno circa la metà di quelle previste dalla Lega.

E che dire della Flat tax? Durante la campagna elettorale che ha preceduto le ultime politiche, Salvini ha farneticato per mesi di un’aliquota Irpef unica. La misura – di per sé incostituzionale e socialmente iniqua – era molto attesa dalle partite Iva e dai piccoli imprenditori del Nord, ma, quando il Capitano è andato al governo, l’unica riforma che è riuscito a produrre è stata una revisione del regime forfettario dell’Iva. L’ennesima presa in giro.

La fortuna del leader leghista è che gli italiani sono smemorati: dimenticano le vecchie bugie e credono alle nuove. Per questo il Capitano negli ultimi giorni è tornato a farsi sotto con una delle sue idee partorite in birreria o davanti a un lauto pasto immortalato sui social. In un tweet, Salvini ha parlato di “tassa unica al 15% sul fatturato post-virus”, spiegando che “i soldi fatturati in questo periodo è giusto che rimangano agli imprenditori. Per ripartire. Serve lasciare libertà di fare impresa”. Già, servirebbero anche politici che sappiano di cosa parlano: le imprese non pagano le tasse sul fatturato, ma sugli utili.

La riforma costituzionale per il taglio dei parlamentari rivela la natura più profonda del populismo, che consiste nell’affrontare problemi complessi con risposte semplici e goffe. In Italia si parla da decenni della possibilità di ridurre il numero di deputati e senatori, ma pensare di risolvere la faccenda con un colpo d’ascia secco - senza altri correttivi istituzionali e senza nemmeno rivedere in anticipo i regolamenti di Montecitorio e di Palazzo Madama - è semplicemente puerile. In senso letterale: è proprio la soluzione che potrebbe dare un bambino, quando invece servirebbero costituzionalisti esperti.

Il problema principale riguarda la rappresentanza territoriale e politica. Va molto di moda confrontare il rapporto parlamentari/abitanti che abbiamo in Italia a quello che si registra negli altri Paesi europei, ma è un esercizio insensato. In primo luogo perché talvolta l’impianto istituzionale di base è diverso (in Francia, ad esempio, è semipresidenziale), e poi perché da noi Camera e Senato hanno funzioni identiche, mentre altrove non è quasi mai così, con le camere alte che spesso non sono nemmeno elettive.

Il guaio più serio di questa riforma è che riduce la rappresentanza in modo differenziato sui territori, penalizzando quelli meno abitati. Nel complesso, i seggi alla Camera diminuiranno da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200. In media, ogni Regione perderà il 36,5% dei senatori, ma le oscillazioni sono enormi: secondo i calcoli del Manifesto, si va dal -33,3% della Toscana (da 18 a 12 senatori) al -42,9% di Abruzzo e Friuli Venezia Giulia (da 7 a 4), fino al -57,1% di Umbria e Basilicata (da 7 a 3). Il Trentino Alto Adige, invece, se la caverà con un -14,3% grazie al fatto che le due province autonome hanno diritto a un numero uguale di senatori.

Quanto alla rappresentanza politica, è evidente che meno candidati si eleggono sui territori, più diminuiscono le possibilità dei partiti minori di entrare in Parlamento, a prescindere dalla soglia di sbarramento.

Veniamo così alla legge elettorale. Posti di fronte al problema della perdita di rappresentanza, alcuni politici affermano che l’equilibrio sarà ristabilito con una riforma proporzionale. Ma è mai possibile che la rappresentatività del Parlamento sia affidata a una legge ordinaria, modificabile con facilità a ogni cambio di maggioranza? Non scherziamo.

Piuttosto - al di là del giudizio di merito - avevano un valore molto maggiore le altre riforme istituzionali che Pd e Leu volevano affiancare al taglio dei parlamentari: l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica (che altrimenti diventerebbero molto più decisivi) e soprattutto l’elezione del Senato su base circoscrizionale anziché regionale. Peccato che di tutto ciò si sia perso traccia e che quello che rimane sia un semplice colpo di machete.

La propaganda pro-Sì afferma poi che con il taglio dei rappresentanti il Parlamento diventerà più efficiente. Al contrario, proprio perché nessuno si è posto il problema di correggere i regolamenti delle due Camere prima della riforma, all’inizio il funzionamento sarà ben più caotico. Ma non è nemmeno questo il punto: l’efficienza del Parlamento dipende dalla forza della maggioranza, non certo dal numero dei parlamentari. Se davvero l’obiettivo fosse la governabilità, allora in teoria dovremmo creare un sistema monocamerale e maggioritario, che in Italia sarebbe nefasto per altre ragioni (vedi la riforma Renzi) e che comunque è l’esatto contrario di quello che stiamo facendo. Quindi anche l’argomento dell’efficienza è pretestuoso.

Infine, i soldi. La vera ragion d’essere di questa riforma è la propaganda: il principale argomento dei populisti riguarda infatti il taglio ai costi della politica, ma i numeri di cui si parla sui volantini sono gonfiati ad arte. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani guidato da Carlo Cottarelli, la riforma permetterà di risparmiare 57 milioni l’anno, cioè lo 0,007% della spesa pubblica italiana, pari a 95 centesimi l’anno per abitante. Meno di un caffè.


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