L’assoluzione in secondo grado di Virginia Raggi rimescola le carte nella battaglia principale delle amministrative 2021: quella per il Campidoglio. In estrema sintesi, il Movimento 5 Stelle è costretto a sostenere la ricandidatura della sindaca, infrangendo così le speranze del Pd, che voleva replicare a Roma l’alleanza di governo. La separazione forzata fra dem e grillini fa esultare la destra, che - pur non avendo ancora un candidato - vede moltiplicarsi le possibilità di successo. Festeggia anche Carlo Calenda, convinto che a questo punto il Pd non possa negargli il proprio sostegno. Ma andiamo con ordine, partendo dal riassunto delle puntate precedenti.

Forse il potere logora chi non ce l’ha, come diceva Andreotti. Di sicuro, chi ce l’ha soccombe quasi sempre al delirio d’onnipotenza, e si scava la fossa. È successo a Monti nel 2011, a Renzi nel 2015-2016 e ora sta accadendo a Giuseppe Conte. Non si spiega altrimenti la folle struttura di governance partorita da Palazzo Chigi per gestire i 209 miliardi in arrivo dall’Europa con il Recovery Plan.

Innanzitutto, una questione di metodo: prima del chi, sarebbe logico mettere a fuoco il cosa. Ossia, prima di stabilire chi avrà la responsabilità di mettere in pratica il Recovery Plan, sarebbe il caso di scriverlo questo benedetto Recovery Plan, che invece viaggia ancora nella dimensione dell’indefinito, dell’annuncio, del non ancora. Oggi no, domani forse, dopodomani sicuramente.

Dovremmo organizzarci per la distribuzione dei vaccini (siamo già in ritardo). Dovremmo scrivere il piano su come utilizzare i 209 miliardi del Recovery Fund (anche su questo siamo già in ritardo). Eppure, ci ritroviamo a parlare di rimpasto. Come sempre accadde nella Prima Repubblica e sempre accadrà nella Seconda, a un certo punto la maggioranza si illude di rafforzarsi con un cambiamento dei ministri. Proposito velleitario ma anche falso, visto che la logica del rimpasto non ha a che vedere con l’interesse del Paese. È il solito gioco di palazzo, alimentato da arrivismi personali, sete di rivalsa delle correnti, ambizioni di controllo da parte delle segreterie.

Un po’ a sorpresa, il Covid-19 ha fin qui danneggiato le forze populiste. È successo a diverse longitudini e in modi differenti: negli Stati Uniti, dove un populista era al potere ora non c’è più; in Gran Bretagna, dove il populista al comando conserva la poltrona, ma vira verso posizioni più moderate; e in Italia, dove il populista numero uno è all’opposizione e ha già dilapidato quasi metà del proprio consenso elettorale.

Quella che riguarda Donald Trump è la considerazione più ovvia, ma anche la più controversa. Pur sconfitto da Joe Biden, l’ormai ex Presidente degli Usa ha incassato oltre 70 milioni di voti, ovvero il secondo miglior risultato di sempre, dietro soltanto a quello del suo avversario. Al netto delle polemiche sui brogli fantasma, quindi, è indiscutibile che The Donald goda ancora di largo seguito, così come è chiaro che la “marea blu” profetizzata dai sondaggisti filo-dem è rimasta nel mondo dei sogni. Ma anche se il Covid non ha determinato la disfatta di Trump, è stato comunque decisivo per sancirne la sconfitta. Ben più del razzismo e delle simpatie nazi-evangeliche, è stata proprio la gestione trumpiana della pandemia – folle e criminale quant’altre mai – a spostare verso Biden gli swing state decisivi.  

L’esito del voto americano ha avuto ripercussioni quasi immediate sulla Gran Bretagna, dove la settimana scorsa il premier Boris Johnson – che all’inizio della pandemia era un baldo negazionista, salvo poi cambiare idea dopo un passaggio in terapia intensiva – ha licenziato Dominic Cummings. Chi era costui? Nientemeno che il Rasputin di Downing Street, il consigliere-guru per la Brexit. La sua defenestrazione è il segno di una svolta politica da parte di Johnson. Con la pandemia che dilaga e la Brexit che sta per chiudersi in modo non favorevole al Regno Unito (l’alternativa per Londra è suicidarsi con un divorzio senza accordo), Johnson si è convinto che è arrivato il momento di sterzare verso l’ala più moderata dei Conservatori. Anche nel suo caso, il cambiamento è stato imposto dalla gestione disastrosa della pandemia, che finora ha ucciso oltre 50mila britannici. Il resto lo ha fatto la sconfitta di Trump, cheerleader della Brexit, per mano del filo-irlandese Biden.

A ben vedere, le presidenziali Usa hanno inferto l’ennesimo colpo anche al capo dei populisti nostrani. Proprio quando tutti fiutavano la vittoria di Biden, Matteo Salvini ha pensato bene di indossare in video una mascherina da groupie trumpiana. Così facendo è riuscito a peggiorare i suoi rapporti con Washington, già pessimi a causa degli intrallazzi leghisti in Russia. Non ci vuole molto a capire che mettersi contro la Casa Bianca è un’idea malsana se la tua ambizione è diventare presidente del Consiglio in Italia. Lo sa bene Giorgia Meloni, che infatti ha evitato di compromettersi tanto con Putin quanto con Trump e ora si maschera da leader moderata (quale non è mai stata) alla guida dei Conservatori e riformisti europei.   

Si spiega anche con questa lungimiranza l’ascesa nei sondaggi di Fratelli d’Italia, speculare alla rottura prolungata della Lega. In poco più di un anno, il partito di Salvini è passato dal 38 al 23%: un crollo mai visto per un partito all’opposizione. Non ha giovato all’ex ministro dell’Interno l’atteggiamento negazionista, largamente diffuso ma senz’altro minoritario nel Paese. Il Covid, poi, ha reso macroscopico il problema numero di Salvini: quando non può parlare di immigrazione, quando l’argomento “barconi dall’Africa” esce dal cono di luce, il leader leghista perde presa sull’opinione pubblica. Deve essersene accorto anche lui, visto che di recente ha evocato la “rivoluzione liberale” di berlusconiana memoria. Cosa ci aspetta all’orizzonte? Un Salvini moderato? Forse, tra i vari scherzi del 2020, ci sarà anche questo.    

C’è qualcosa di penoso nel modo in cui molti governatori si stanno comportando. Finché la situazione sanitaria sembrava sotto controllo, i numeri uno delle Regioni non facevano che reclamare autonomia. Piagnucolavano contro il centralismo del governo, rivendicando la libertà di riaprire tutto – a cominciare dagli stadi – e di spendere secondo il proprio arbitrio i soldi che arriveranno per la ricostruzione post-Covid. “Dateci autonomia, decidiamo noi cosa riaprire”, diceva l’8 maggio il ligure Giovanni Toti. “Con più autonomia, avremmo affrontato meglio l’emergenza”, aggiungeva il lombardo Attilio Fontana il 29 giugno.


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