Un po’ a sorpresa, il Covid-19 ha fin qui danneggiato le forze populiste. È successo a diverse longitudini e in modi differenti: negli Stati Uniti, dove un populista era al potere ora non c’è più; in Gran Bretagna, dove il populista al comando conserva la poltrona, ma vira verso posizioni più moderate; e in Italia, dove il populista numero uno è all’opposizione e ha già dilapidato quasi metà del proprio consenso elettorale.

Quella che riguarda Donald Trump è la considerazione più ovvia, ma anche la più controversa. Pur sconfitto da Joe Biden, l’ormai ex Presidente degli Usa ha incassato oltre 70 milioni di voti, ovvero il secondo miglior risultato di sempre, dietro soltanto a quello del suo avversario. Al netto delle polemiche sui brogli fantasma, quindi, è indiscutibile che The Donald goda ancora di largo seguito, così come è chiaro che la “marea blu” profetizzata dai sondaggisti filo-dem è rimasta nel mondo dei sogni. Ma anche se il Covid non ha determinato la disfatta di Trump, è stato comunque decisivo per sancirne la sconfitta. Ben più del razzismo e delle simpatie nazi-evangeliche, è stata proprio la gestione trumpiana della pandemia – folle e criminale quant’altre mai – a spostare verso Biden gli swing state decisivi.  

L’esito del voto americano ha avuto ripercussioni quasi immediate sulla Gran Bretagna, dove la settimana scorsa il premier Boris Johnson – che all’inizio della pandemia era un baldo negazionista, salvo poi cambiare idea dopo un passaggio in terapia intensiva – ha licenziato Dominic Cummings. Chi era costui? Nientemeno che il Rasputin di Downing Street, il consigliere-guru per la Brexit. La sua defenestrazione è il segno di una svolta politica da parte di Johnson. Con la pandemia che dilaga e la Brexit che sta per chiudersi in modo non favorevole al Regno Unito (l’alternativa per Londra è suicidarsi con un divorzio senza accordo), Johnson si è convinto che è arrivato il momento di sterzare verso l’ala più moderata dei Conservatori. Anche nel suo caso, il cambiamento è stato imposto dalla gestione disastrosa della pandemia, che finora ha ucciso oltre 50mila britannici. Il resto lo ha fatto la sconfitta di Trump, cheerleader della Brexit, per mano del filo-irlandese Biden.

A ben vedere, le presidenziali Usa hanno inferto l’ennesimo colpo anche al capo dei populisti nostrani. Proprio quando tutti fiutavano la vittoria di Biden, Matteo Salvini ha pensato bene di indossare in video una mascherina da groupie trumpiana. Così facendo è riuscito a peggiorare i suoi rapporti con Washington, già pessimi a causa degli intrallazzi leghisti in Russia. Non ci vuole molto a capire che mettersi contro la Casa Bianca è un’idea malsana se la tua ambizione è diventare presidente del Consiglio in Italia. Lo sa bene Giorgia Meloni, che infatti ha evitato di compromettersi tanto con Putin quanto con Trump e ora si maschera da leader moderata (quale non è mai stata) alla guida dei Conservatori e riformisti europei.   

Si spiega anche con questa lungimiranza l’ascesa nei sondaggi di Fratelli d’Italia, speculare alla rottura prolungata della Lega. In poco più di un anno, il partito di Salvini è passato dal 38 al 23%: un crollo mai visto per un partito all’opposizione. Non ha giovato all’ex ministro dell’Interno l’atteggiamento negazionista, largamente diffuso ma senz’altro minoritario nel Paese. Il Covid, poi, ha reso macroscopico il problema numero di Salvini: quando non può parlare di immigrazione, quando l’argomento “barconi dall’Africa” esce dal cono di luce, il leader leghista perde presa sull’opinione pubblica. Deve essersene accorto anche lui, visto che di recente ha evocato la “rivoluzione liberale” di berlusconiana memoria. Cosa ci aspetta all’orizzonte? Un Salvini moderato? Forse, tra i vari scherzi del 2020, ci sarà anche questo.    

C’è qualcosa di penoso nel modo in cui molti governatori si stanno comportando. Finché la situazione sanitaria sembrava sotto controllo, i numeri uno delle Regioni non facevano che reclamare autonomia. Piagnucolavano contro il centralismo del governo, rivendicando la libertà di riaprire tutto – a cominciare dagli stadi – e di spendere secondo il proprio arbitrio i soldi che arriveranno per la ricostruzione post-Covid. “Dateci autonomia, decidiamo noi cosa riaprire”, diceva l’8 maggio il ligure Giovanni Toti. “Con più autonomia, avremmo affrontato meglio l’emergenza”, aggiungeva il lombardo Attilio Fontana il 29 giugno.

Il copione lo conosciamo: prima dicono la porcheria; poi il “non sono stato capito”, la “frase estrapolata dal contesto”; infine, le scuse. Giovanni Toti, governatore della Liguria, ha seguito alla perfezione questo cursus stultorum. La porcheria gli è scappata domenica mattina nel seguente tweet: “Per quanto ci addolori ogni singola vittima del #Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della #Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone perlopiù in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”.

Ora, letta così sembra veramente un abominio, roba da andarsi a nascondere in un pozzo per non fare mai più capolino. E questa è stata l’impressione generale suscitata dal cinguettio, visto che nel pomeriggio Toti si è visto sommergere da una valanga di melma. Tra i vari insulti grandinati sui social, gli hanno dato del “miserabile” in preda a “deliri di onnipotenza”.

Ma il beneficio del dubbio va concesso a tutti, per cui analizziamo il caso a partire dalla posizione del governatore. Il famoso “contesto” è quello della di un’altra giornata drammatica di pandemia, in cui il governo – per evitare il lockdown totale in stile primavera – sta pensando di costringere a casa gli over 70, la fascia di popolazione più a rischio.

Quindi, spiega Toti, il tweet significava che gli anziani sono persone spesso in pensione, che possono rimanere buoni sul divano, proteggendosi senza fermare l’economia del Paese. Poi, visto che il pozzo non gli sembrava ancora abbastanza profondo, il governatore decide di scavare ancora, buttandola sul privato: “Ho un papà di 81 anni: esce l’indispensabile e fa bene, ma starebbe volentieri un’ora in più a casa per far uscire mia sorella”.

Se è davvero questo il concetto che voleva enucleare, Toti è perlomeno colpevole di non sapresi esprimere. E sì, è una colpa: se ricopri una carica istituzionale e affermi di meritare la fiducia collettiva, non puoi giustificarti dicendo di aver “mal scritto” o di essere stato “mal interpretato”. È una scappatoia che non ti è concessa, perché farti capire rientra fra i tuoi doveri: non sono gli altri a dover “interpretare” quello che le tue meningi partoriscono.

L’ironia è che questo genere di colpa, oltre che sui politici, ricade anche su un’altra categoria professionale, quella dei giornalisti. E Toti appartiene ad entrambe.

Nella migliore delle ipotesi, quindi, l’ex direttore di Studio Aperto ha dimostrato imperizia in tutti e due i suoi lavori. Ma siamo sicuri che quel tweet sia solo l’inciampo lessicale di un incapace? A leggerla da fuori, è inevitabile pensare alla proverbiale voce dal sen fuggita: una porcheria, certo, ma anche un rigurgito estemporaneo (e involontario) di sincerità.

Perché nel definire gli anziani “persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese” Toti fa calare il velo su una visione del mondo che lo accomuna a buona parte della destra italiana: perlomeno da Berlusconi a Renzi, passando per Confindustria. È il darwinismo sociale dei liberal de noantri, il produttivismo integralista che non concepisce diritti da esercitare, ma solo privilegi da acquistare. Chi fa soldi prevale, tutti gli altri soccombano pure. E in silenzio, che qui c’è gente che lavora.

A questo punto, per valutare il contenuto della predica, “dobbiamo tenere conto” del pulpito da cui è stata scandita. Perciò ricordiamo che Giovanni Toti, in passato, ha diretto un telegiornale in cui si sosteneva che Ruby fosse la nipote di Mubarak e Dell'Utri una vittima delle toghe rosse. Questo è stato lo sforzo produttivo di Giovanni Toti, anche se forse “sforzo” non è proprio la parola più adatta. A lui, è venuto naturale. 

Ci sono voluti 13 mesi, ma alla fine il governo Conte 2 ha corretto le misure più vergognose del Conte 1. Con il provvedimento varato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri, l’Italia si lascia finalmente alle spalle i decreti Salvini sull’immigrazione, che oltre a essere disumani e a violare una serie di norme internazionali rendevano anche il nostro Paese meno sicuro (a dispetto del nome, “decreti sicurezza”, partorito dalla Lega).

La cancellazione delle misure salviniane era una colonna del patto di governo giallorosso siglato nell’estate del 2019, ma solo con la vittoria alle amministrative del mese scorso il Pd ha trovato la forza di esigere dall’alleato quanto promesso. Del resto, la questione era e resta imbarazzante per il Movimento 5 Stelle come per Giuseppe Conte, che sui decreti Salvini avevano messo faccia e firma.

Quota 100 è uno degli argomenti su cui Matteo Salvini dà miglior prova del suo unico talento: fare propaganda a suon di bugie. La settimana scorsa, dal Festival dell’Economia di Trento, il premier Giuseppe Conte ha annunciato un’ovvietà: il rinnovo di Quota 100 “non è all’ordine del giorno”, perché la misura era “un progetto triennale che veniva a supplire a un disagio sociale”. Queste parole hanno spalancato la diga Salvini, che subito ha iniziato a inondare i social di panzane.

“Vogliono tornare alla legge Fornero? La Lega non glielo permetterà, promesso - ha tuonato il leader della destra - Non si scherza con i sacrifici di milioni di lavoratrici e lavoratori italiani”. E, come se non bastasse, ha piazzato anche l’hashtag #Forneromaipiù.

A sentire Salvini, si direbbe che Quota 100 fosse una riforma strutturale delle pensioni interamente sostitutiva della Fornero. Peccato che non sia vero. Anzi, questa affermazione contiene due bugie grandi come palazzi.

La bugia numero uno riguarda la durata di Quota 100, che non è mai stata una riforma strutturale del sistema previdenziale. Al contrario, fin dal primo giorno ha avuto una data di scadenza – il 31 dicembre 2021 – fissata proprio dalla Lega quando era al governo con il Movimento 5 Stelle, ai tempi del Conte 1.

La bugia numero due riguarda la natura stessa di Quota 100, che non ha mai, nemmeno per un minuto, sostituito la legge Fornero. Può darsi che questa verità risulti incredibile a molti elettori leghisti, ma è incontestabile: la legge Fornero non è mai stata abolita, è tuttora in vigore e gode di ottima salute.

Lungi dall’essere una vera riforma delle pensioni, Quota 100 è solo uno scivolo aggiuntivo, che permette di lasciare il lavoro con almeno 62 anni di età e 38 di contributi. Ciò non toglie che i requisiti standard per andare in pensione rimangano quelli fissati dalla Fornero: al momento, per la pensione di vecchiaia servono 67 anni di età più 20 di contributi, mentre per quella anticipata è necessaria un'anzianità contributiva di 41 anni e 10 mesi per le donne e di 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Peraltro, tutti questi numeri sono destinati a salire in futuro per l’adeguamento alla speranza di vita, altro aspetto che la legge leghista ha lasciato inalterato.

Si potrebbe obiettare che, pur non essendo risolutiva, Quota 100 abbia comunque migliorato la situazione per i pensionandi italiani. Ma allora come si spiega il suo scarso successo? Quando approvarono la misura, Salvini e Di Maio parlarono di un milione di nuovi pensionati in cambio di un milione di nuovi posti di lavoro. Una sparata fantasiosa quant’altre mai. Fin qui, le domande accolte per il pensionamento anticipato con Quota 100 sono state poco più di 200mila e la disoccupazione giovanile continua a volare.

Già, perché anche il cosiddetto “effetto sostituzione” è una balla: visto l’affanno dell’economia italiana ancora prima del Covid – e a maggior ragione adesso, che è iniziata la più grave crisi dal dopoguerra – non è mai stata vera l’equivalenza secondo cui a ogni lavoratore in uscita corrisponde un nuovo posto per un giovane.

Ma il vero punto della questione è un altro. L’insuccesso di Quota 100 si spiega con un trucco che i lavoratori italiani hanno capito subito: in teoria, la misura non prevede penalizzazioni per chi lascia il lavoro in anticipo; in pratica, la penalizzazione è implicita, perché se vai in pensione a 62 anni invece che a 67 versi cinque anni di contributi in meno, di conseguenza l’assegno previdenziale è più basso (la differenza può arrivare al 15%).

Tutto questo ha anche un effetto collaterale positivo. Visto che, alla fine del triennio, le adesioni a Quota 100 saranno di gran lunga inferiori a quelle previste dalla Lega, lo Stato potrebbe risparmiare fino a 6,8 miliardi dei 21 stanziati. Un tesoretto notevole, che, magari, potrebbe essere usato per una riforma delle pensioni un po’ meno fasulla di quella salviniana.  


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