L’assoluzione in secondo grado di Virginia Raggi rimescola le carte nella battaglia principale delle amministrative 2021: quella per il Campidoglio. In estrema sintesi, il Movimento 5 Stelle è costretto a sostenere la ricandidatura della sindaca, infrangendo così le speranze del Pd, che voleva replicare a Roma l’alleanza di governo. La separazione forzata fra dem e grillini fa esultare la destra, che - pur non avendo ancora un candidato - vede moltiplicarsi le possibilità di successo. Festeggia anche Carlo Calenda, convinto che a questo punto il Pd non possa negargli il proprio sostegno. Ma andiamo con ordine, partendo dal riassunto delle puntate precedenti.

 

Il 9 gennaio del 2017 Raggi riceve un avviso di garanzia per falso e abuso d’ufficio. Il caso riguarda un fatto del 2016: la promozione di Renato Marra, fratello dell’allora capo del personale capitolino Raffaele, al vertice dell’Ufficio promozione turismo della capitale, carica che comportava un aumento di stipendio da 20mila euro. Secondo la Procura, la sindaca aveva mentito all’Anticorruzione quando aveva detto che la nomina era stata decisa da lei senza alcun intervento da parte di Raffaele Marra (arrestato qualche settimana dopo per corruzione). In una chat, Raggi accusava l’ex fedelissimo di averle taciuto l’aumento salariale e queste parole, per l’accusa, erano la prova della menzogna raccontata all’Autorità pubblica. Alla fine i giudici hanno creduto alla sindaca, assolvendola in primo e in secondo grado “perché il fatto non costituisce reato”. Significa che Raggi ha effettivamente reso un’affermazione falsa all’Anticorruzione, ma non è punibile perché non sapeva di farlo. In altri termini, la sindaca è innocente perché pensava di aver preso una decisione in autonomia, senza rendersi conto della trama ordita dal suo aiutante.

In termini politici, la doppia sentenza dipinge Raggi come una leader perlomeno ingenua, manipolabile. Ma questo non basta a oscurare il trionfo della sindaca su gran parte del suo stesso partito, che sperava in una condanna per scaricarla. “Credo che debbano riflettere in tanti, anche e soprattutto, all’interno del M5S - ha detto Raggi - Ora è troppo facile voler provare a salire sul carro del vincitore con parole di circostanza dopo anni di silenzio. Chi ha la coscienza a posto non si offenda per queste parole ma tanti altri, almeno oggi, abbiano la decenza di tacere”.

E adesso? È chiaro che una Virginia Raggi in versione Conte di Montecristo non può più essere abbandonata dal Movimento 5 Stelle. Anzi, a supporto della ricandidatura si preparano ben due liste civiche oltre a quella grillina: una raccoglierà i volti della comunità antimafia romana, l’altra (più problematica) sarà di stampo antifascista.

Tutto questo rischia di causare la disfatta del Pd. Nemmeno con la più ardita delle piroette i dem potrebbero accodarsi al treno Raggi: troppe volte Zingaretti ha definito “disastrosa” la gestione della sindaca. Non resta che puntare su un altro candidato. Già, ma chi? Nomi di peso non ce ne sono: Sassoli ha rifiutato (la poltrona da presidente dell’Europarlamento è assai più comoda) e pensare che Gentiloni possa lasciare la Commissione europea - dove tiene le redini degli Affari economici - è fantascienza. Si è sfilato anche Andrea Riccardi, ex ministro e fondatore della comunità di Sant’Egidio. Non rimarrebbero che alcuni outsider con scarse possibilità di vittoria, come Cirinnà o Madia.

Poi c’è Calenda. Lo stesso Calenda che, illo tempore, stracciò la tessera Pd per fondare un nuovo partito (Azione). Lo stesso Calenda che un giorno sì e l’altro pure critica il governo di cui il Pd fa parte. Ecco, ora questo stesso Calenda è convinto che il Pd non possa fare altro che sostenerlo nella corsa al Campidoglio. E forse ha perfino ragione. Non solo perché il Pd non ha alternative appetibili, ma soprattutto perché presentare addirittura tre nomi contro il candidato unico del centrodestra (chiunque egli sia) sarebbe probabilmente un’autocondanna. Almeno, però, stavolta l’analisi della sconfitta non sarebbe un’impresa.

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