Né salvatore della patria né tecnocrate al servizio del Male. Mario Draghi nelle vesti di presidente del Consiglio, con ogni probabilità, non svolgerà nessuno di questi due ruoli. Subito dopo il conferimento dell’incarico da parte di Mattarella, il dibattito intorno all’ex numero uno  della Bce si è polarizzato: su una curva viaggia la narrativa ufficiale, che dipinge Draghi come l’eroe senza macchia, in grado di risollevare da solo le sorti dell’Italia; sull’altra ci sono gli estremismi opposti (di destra e di sinistra) che vedono nel futuro premier l’emanazione delle banche, di Bruxelles, dei “poteri forti” determinati ad affamare il popolo per saziare i padroni.

 

Il primo punto di vista riflette una certa sindrome del Caudillo tipica del nostro Paese, da sempre incline a gettarsi fra le braccia dell’uomo forte: in tempi recenti è accaduto nel 2014 con Renzi (accolto con il 40% alle europee) e nel 2011 con Monti (investito da un coro di “Professore, ci pensi lei”). Il secondo, invece, tende a ignorare le differenze fra le persone e i contesti storici, appiattendo la complessità del reale sempre sullo stesso sfondo a due dimensioni.

A differenza di molti suoi ex colleghi, Draghi non è un alfiere del neoliberismo reaganiano in salsa europea. Non lo è per formazione, in quanto allievo di Federico Caffè, uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana in Italia. E non lo è nemmeno per storia personale: da presidente della Bce, Draghi ha portato avanti per anni una politica monetaria ultra-espansiva, che contraddiceva in pieno il vangelo dell’austerità professato dalla Commissione europea. Mentre Bruxelles imponeva tagli di bilancio ai governi dell’Eurozona, la Banca centrale inondava il sistema di liquidità, scavalcando l’opposizione della Germania. Di fatto, negli anni del rigore, la Bce draghiana è stata l’unica istituzione a combattere davvero la crisi, compensando in parte i danni causati dalle politiche fiscali restrittive. Attenzione però a non cadere nell’inganno opposto: Draghi, naturalmente, non è nemmeno un paladino della spesa pubblica a ogni costo. Ne sanno qualcosa in Grecia, dove la Bce di quegli anni è ricordata come un ramo della Troika che ha devastato il Paese.

Ma anche a voler guardare Draghi con gli occhi di Atene, non ha senso in questo momento temere l’avvento di un governo rigorista. Rispetto al decennio scorso, infatti, lo scenario è cambiato radicalmente. Oggi l’ipotesi dell’austerità non esiste per nessuno: di fronte alla devastazione prodotta dalla pandemia, tutti i Paesi - Germania in testa - sono obbligati a spingere sul pedale dell’indebitamento. E hanno bisogno che lo faccia anche l’Italia, a cui non a caso è destinata la fetta di gran lunga più sostanziosa del Recovery Fund (209 miliardi su 750).

Cosa accadrà in futuro, quando gli aiuti europei andranno in parte restituiti e il Patto di Stabilità sarà riattivato, non lo sappiamo ancora. Nel migliore dei casi, l’Europa troverà un accordo per modificare i trattati, alleggerendo i vincoli di bilancio (che dopo il Covid rischiano di essere insostenibili non solo per l’Italia) e stabilizzando gli eurobond (attualmente previsti solo per finanziare il Recovery Fund). Se invece a vincere saranno ancora una volta i falchi, allora sì, torneremo alle politiche lacrime e sangue.

Ora il punto è che, per determinare quale delle due strade imboccherà l’Europa, sarà decisivo proprio l’operato dell’Italia. Se non riusciremo a sfruttare quei 209 miliardi, rafforzeremo la posizione dei rigoristi nordici (Olanda & Co.), che useranno l’inaffidabilità italiana per giustificare il No alla condivisione del debito e all’allentamento delle regole. Se invece il nostro piano d’investimenti avrà esito positivo, aiuteremo a far prevalere le ragioni delle colombe mediterranee (insieme a noi, principalmente, Francia e Spagna).

Insomma, ad oggi le politiche espansive sono una strada obbligata: il problema è capire di che qualità saranno. Come ha spiegato in un’intervista a Radio Popolare Mario Pianta, ordinario di Politica Economica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, la strada imboccata dal governo Conte bis sembrava quella delle “piccole mance alle imprese”, che avrebbero continuato a fare “quello che hanno sempre fatto in passato: più profitti che investimenti, pochi posti di lavoro e di cattiva qualità, zero aumento di produttività”. Abbiamo bisogno invece di “concentrare le risorse su progetti che costruiscano nuove capacità produttive - continua Pianta - sulla sostenibilità, sulla mobilità elettrica, sulla qualità della vita nelle città, sulle rinnovabili, sulle competenze digitali e sul finanziamento del welfare”.

Questi interventi di “politica ambientale, per dare priorità alla sostenibilità, e di politica industriale, per costruire una base produttiva tecnologicamente più avanzata - sottolinea ancora l’economista - potrebbero essere nelle corde di Draghi, perché è la stessa Unione europea che ci dice di destinare il 37% degli investimenti del Recovery Fund a progetti di sostenibilità” e il 20% alla transizione digitale.

Sul piano della tutela del lavoro e della lotta alla precarietà, invece, “Draghi non ha una storia di sensibilità - conclude Pianta - perciò questo è un problema che andrà verificato”. In ogni caso, molto dipenderà da quante e quali forze politiche comporranno la maggioranza.  

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