Il risultato elettorale disegna un’Italia inedita. Si chiude l’epoca del bipolarismo su base maggioritaria concepito negli ultimi venti anni e viene archiviato il modello dell’alternanza tra centrodestra e centrosinistra. La destra fascio-leghista arriva vicino al 25% (complessivamente) mentre scompare la sinistra, che non arriva al 5%.

 

La più importante novità è l’affermazione straordinaria del Movimento 5 Stelle, che ha superato ogni previsione dei sondaggi. Sul piano numerico il M5S è il primo partito del paese perché riesce a imporsi in tutto il Sud, addirittura con risultati schiaccianti in Sicilia e Calabria, dove distrugge l’antico sistema di potere feudale gestito dai partiti. I grillini catalizzano tutto lo scontento del paese per la macelleria sociale delle politiche rigoriste e ai disastri di quelle ipocrite e  improvvisate sull’immigrazione che producono ulteriore disagio.

Jean Claude Juncker, oltre a fare di mestiere il presidente della Commissione europea, è anche un gaffeur di prima categoria. La settimana scorsa si è prodotto davanti ai microfoni nella seguente affermazione: “Sono preoccupato per l’esito del voto in Italia. Dobbiamo prepararci allo scenario peggiore, quello di non avere un governo operativo”, che potrebbe portare a “una forte reazione dei mercati nella seconda metà di marzo”.

 

In piena campagna elettorale, forse nemmeno a mettersi d’impegno con 10 collaboratori si riuscirebbe a concepire una sortita più inappropriata e offensiva per la sovranità dell’Italia e del suo elettorato. Sembra quasi che, periodicamente, i vertici di Bruxelles dimentichino l’importanza del proprio ruolo e le basi del rispetto istituzionale.

 

Per certi versi la perla di Juncker ricorda quella distillata un anno fa dell’ex (e non rimpianto) presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, che qualificò i Paesi mediterranei come spendaccioni dediti all’alcol e alle donne. Qualcuno deve averlo fatto notare al lussemburghese, che infatti poco dopo ha provato a rattoppare il buco smentendo le sue precedenti affermazioni. Ancora più patetico.  

 

Dal punto di vista europeo, quella di Juncker non è solo una figuraccia, ma anche un atto di autolesionismo. Possibile che, fra Commissione e dintorni, nessuno si renda conto di quanto disprezzo circoli fra le masse elettorali nei confronti delle istituzioni comunitarie? Davvero nessuno si è accorto che quando uno dei vertici Ue prende posizione su una questione interna a un Paese membro, la reazione degli elettori è sempre di segno opposto? Eppure basterebbe ricordare come andò a finire nel 2016, dopo che Bruxelles aveva passato mesi a paventare invasioni di cavallette e piogge di fuoco in caso di vittoria del No al referendum costituzionale italiano.

 

Ma al di là della loro stupidità politica, le parole di Juncker hanno un pregio. Ci ricordano una realtà banalissima, di cui siamo e saremo responsabili, ma che al momento abbiamo rimosso. Ovvero che, in caso di sbando elettorale, i fondi inizieranno a vendere titoli di Stato italiani e azioni delle aziende del nostro Paese, scommettendo sul declino della nostra economia. Non si tratta di evocare la dittatura dei mercati finanziari, né di suggerire che in cabina elettorale bisognerebbe pensare prima al volere degli investitori che al contesto sociale. Il punto è un altro.

 

L’eventuale impossibilità di formare un “governo operativo” dopo il 4 marzo non andrà imputata agli elettori, ma al Rosatellum. Una legge elettorale concepita solo per evitare la vittoria del Movimento 5 Stelle (forse per riflesso all’Italicum, che invece avrebbe decretato senza dubbio il trionfo grillino), ma che al contempo dà la semi-certezza di non poter formare alcuna maggioranza in Parlamento. L’unica coalizione che ha qualche possibilità di farcela sembra essere quella di centrodestra, in cui Berlusconi si presenta come padre nobile del Ppe, mentre Salvini ciancica tutti gli slogan dell’antieuropeismo più pecoreccio.

 

Al momento, l’unica certezza è che tutte le parti in campo hanno respinto 100 volte l’ipotesi di costruire una grande coalizione in stile Enrico Letta. Se terranno fede a questa promessa, rimarranno solo due alternative: l’assenza di governo oppure un governo di cui fa parte Matteo Salvini. Come dire che ci troviamo a un bivio tra la confusione e il caos.

 

In queste condizioni, è logico prevedere che i mercati reagiranno male. Non ci saranno cataclismi né spari dai tetti, ma sul breve periodo lo spread salirà (anche perché nel frattempo la Bce sta chiudendo il Qe) e le nostre aziende quotate perderanno dei soldi.

 

Alla fine, perciò, Juncker ha fatto come il bambino di una fiaba di Andersen, quella in cui due truffatori rifilano a un Re vanitoso e credulone un vestito “invisibile agli stolti”. Mentre tutto il reame finge di vedere ciò che non esiste, il bimbo grida con candore: “Il Re è nudo”.

Matteo Renzi lo dava per cosa fatta già ad aprile dell’anno scorso, ma l’Ape volontario è diventato operativo solo pochi giorni fa. I nove mesi di ritardo, però, sono il problema meno grave dell’anticipo pensionistico. È la sua stessa natura che dovrebbe preoccupare.

 

Il nome lascia intendere che si tratti di un nuovo modo per andare in pensione anticipata, uno di quelli promessi da anni per ammorbidire le regole della legge Fornero, aumentando la flessibilità in uscita. Non è così. Si parla di “pensione anticipata” quando il legislatore alleggerisce i requisiti per alcune categorie di lavoratori, abbassando l’età pensionabile o riducendo gli anni di contributi da versare.

 

Nulla di tutto questo accade con l’Ape, che è un prestito bancario assicurato. A differenza della versione “social” (interamente a carico dello Stato, ma riservata a pochissimi contribuenti), l’anticipo volontario viene ripagato dalle stesse persone che lo hanno chiesto. La restituzione inizia alla fine dell’Ape e consiste in una trattenuta su tutti gli assegni della pensione (tredicesima esclusa) per 20 anni. Oltre al capitale, la rata comprende gli interessi alla banca che ha fornito il prestito e il premio alla compagnia che ha assicurato il rischio di premorienza. In sostanza, se il pensionato muore prima di aver saldato il debito, l’istituto di credito si rivolge all’assicurazione, senza coinvolgere gli eredi.

 

Il governo di solito presenta l’Ape come una misura vantaggiosa perché - considerato un credito di imposta annuo pari al 50% degli interessi e del premio - permette di ottenere un prestito a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle di mercato. Curiosa argomentazione. Ci mancherebbe che lo Stato si prodigasse per offrirci un credito bancario particolarmente svantaggioso. Il punto è che si tratta pur sempre di un prestito e peserà sulle nostre spalle fino all’età più avanzata, perciò dobbiamo chiederci: al netto di tutta la propaganda, conviene?

 

Un buon modo per rispondere è utilizzare il simulatore reso disponibile dall’Inps sul proprio sito. Bisogna inserire alcuni dati personali, la durata del prestito che si vuole chiedere (il minimo è sei mesi, il massimo tre anni e sette mesi) e la somma che si intende ricevere (l’importo massimo richiedibile è parametrato sulla futura pensione e varia a seconda della durata dell’Ape). Dopo una serie di calcoli piuttosto complessi, il sistema ci rivela a quanto ammonterà la rata di restituzione che, una volta pensionati, ci dovremo sobbarcare per due decenni.

 

Facendo un po’ di prove si scoprono dei numeri interessanti. Poniamo il caso di una futura pensione da 1.200 euro netti al mese (1.650 lordi). Per un Ape triennale da 980 euro al mese (il massimo che si può chiedere) la rata di rimborso ammonterà a 210 euro. Significa che, per 20 anni, la pensione scenderà a 990 euro. Con un anticipo di due anni, l’assegno massimo richiedibile sale a 1.045 euro e la rata di restituzione è pari a 150 euro. I numeri scendono rispettivamente a 1.110 e a 80 euro per un anticipo di un solo anno.

 

In generale, l’Ape volontario è più appetibile quanto più è alta la pensione che ci si appresta a incassare e quanto più breve è la durata del prestito. Non può chiedere l’Ape chi avrà un trattamento previdenziale inferiore a 702,65 euro (pari a 1,4 volte il minimo Inps). Lo scopo di questa soglia è tutelare i meno abbienti, che, vedendosi decurtare un assegno già basso, potrebbero ritrovarsi in difficoltà a causa dell’Ape. Il problema è che un guaio del genere rischia di capitare anche a chi avrà una pensione media.

Con la sinistra versavano e con la destra se li riprendevano. La vicenda dei rimborsi che alcuni parlamentari grillini usavano come una fisarmonica è divampata, né poteva essere altrimenti. Racconta sì di malefatte di alcuni e non di tutti, certo, ma anche di una gestione allegra del controllo dell’operato dei suoi eletti che mal si coniuga con l’affermata capacità di controllare e denunciare le malefatte di tutti.

Un grande equivoco serpeggia fra i moderati di centrosinistra. Orfani di un vero partito socialdemocratico e ostili al Pd renziano, molti elettori sono tentati di ripiegare su +Europa, la lista di Emma Bonino coalizzata ai dem. Una scelta a cui arrivano per esclusione: non votano LeU perché lo ritengono troppo estremista o perché temono di avvantaggiare la destra ed escludono il Movimento 5 Stelle perché detestano il populismo grillino.


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