Alla fine il proporzionale ha imposto la sua legge. Dopo due mesi di negoziati che non hanno portato nemmeno all’ipotesi di un governo, tocca a Sergio Mattarella prendere il centro della scena. E via, si torna tutti al Quirinale, dove il Presidente della Repubblica condurrà una nuova tornata di consultazioni per creare quello che sui giornali è stato chiamato “un governo di tregua”.

 

C’è ancora chi spera in una ricucitura dell’ultimo minuto fra M5S e Lega, ma si tratta di uno scenario altamente improbabile. L’apertura di Luigi Di Maio, che si è detto pronto a fare un passo indietro sulla premiership, non sembra sufficiente per convincere Salvini a scaricare Berlusconi, indigeribile per gli stomaci dell’elettorato grillino.

Le consultazioni iniziate ieri sono tra le più complicate della storia repubblicana. Forse si riveleranno le più laboriose di sempre. Del resto, è difficile ricordare una situazione di stallo peggiore di quella uscita dalle urne esattamente un mese fa. Tutti sanno già che il primo giro di giostra davanti al presidente Sergio Mattarella si risolverà in un nulla di fatto.

 

Sarà necessaria una seconda tornata la settimana prossima e anche questa potrebbe non bastare. Al momento, il record di lentezza per la formazione di un governo appartiene alla legislatura iniziata nel 1992 (due mesi e tre settimane), ma all’epoca la procedura era stata frenata dalle dimissioni di Francesco Cossiga. Stavolta, pur senza impedimenti quirinalizi, il primato rischia di cadere.

I presidenti delle Camere sono fatti, ma il governo è ancora lontano. L’accordo fra centrodestra e Movimento 5 Stelle sul grillino Roberto Fico alla Camera e sulla iper-berlusconiana Elisabetta Alberti Casellati al Senato non può essere replicato tout court in una maggioranza di governo. Questo scenario piacerebbe a Matteo Salvini, ma i 5 Stelle si sono affrettati a chiarire che non è realizzabile. E il motivo è chiaro.

 

I grillini si compiacciono da sempre della loro non-collocazione politica: “Non siamo né di destra né di sinistra - ripetono da anni - Sono categorie superate”. Eppure, fin dalle origini i pentastellati hanno trovato una ragione di unità nell’antiberlusconismo e oggi non riuscirebbero a giustificare un’alleanza con lo “Psico-Nano”. 

In un centrosinistra ridotto come Troia dopo il passaggio degli achei, s’annuncia l’avvento di Carlo Calenda. Quando la polvere della disfatta elettorale non si era ancora posata, il ministro dello Sviluppo Economico (dovremmo dire “uscente”, ma non c’è un governo “entrante”) ha spiazzato amici e nemici con un contropiede niente male: si è iscritto al Partito Democratico.

Lo scenario post voto resta complicato. Al centro di ogni ipotesi di accordo vi è il cupio dissolvi del PD, la cui Direzione prenderà atto oggi delle dimissioni finte di Renzi e darà inizio alla resa dei conti tra renziani e non renziani per la prossima segreteria, con il neoacquisto Calenda pronto a saltare sulla giugulare del gattone ferito. Ma non è certo con il cambio del segretario che il PD potrà uscire dalla sua crisi terminale.

 

Intanto perché i nomi che circolano – da Del Rio a Zingaretti – non fanno presagire una leadership carismatica, che sappia ridare smalto al progetto e, nel contempo, tenere il partito al riparo dalle manovre del ducetto di Rignano. Poi perché sono nomi che si muovono in sostanziale continuità con le politiche del PD dal 2011 ad oggi, non rappresentano certo il segnale forte di una inversione di rotta.

 

Comunque l’uscita di Renzi non potrà che far bene ad un partito schiantato. Lascia dietro di se milioni di elettori persi, un partito ridotto a poche migliaia di iscritti, la perdita di ogni riferimento sociale. Municipali, provinciali, regionali, parlamentari e referendum: ha perso ovunque e con percentuali ogni volta più umilianti, trascinando il partito in un tunnel senza luce.


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