I presidenti delle Camere sono fatti, ma il governo è ancora lontano. L’accordo fra centrodestra e Movimento 5 Stelle sul grillino Roberto Fico alla Camera e sulla iper-berlusconiana Elisabetta Alberti Casellati al Senato non può essere replicato tout court in una maggioranza di governo. Questo scenario piacerebbe a Matteo Salvini, ma i 5 Stelle si sono affrettati a chiarire che non è realizzabile. E il motivo è chiaro.

 

I grillini si compiacciono da sempre della loro non-collocazione politica: “Non siamo né di destra né di sinistra - ripetono da anni - Sono categorie superate”. Eppure, fin dalle origini i pentastellati hanno trovato una ragione di unità nell’antiberlusconismo e oggi non riuscirebbero a giustificare un’alleanza con lo “Psico-Nano”. 

In un centrosinistra ridotto come Troia dopo il passaggio degli achei, s’annuncia l’avvento di Carlo Calenda. Quando la polvere della disfatta elettorale non si era ancora posata, il ministro dello Sviluppo Economico (dovremmo dire “uscente”, ma non c’è un governo “entrante”) ha spiazzato amici e nemici con un contropiede niente male: si è iscritto al Partito Democratico.

Lo scenario post voto resta complicato. Al centro di ogni ipotesi di accordo vi è il cupio dissolvi del PD, la cui Direzione prenderà atto oggi delle dimissioni finte di Renzi e darà inizio alla resa dei conti tra renziani e non renziani per la prossima segreteria, con il neoacquisto Calenda pronto a saltare sulla giugulare del gattone ferito. Ma non è certo con il cambio del segretario che il PD potrà uscire dalla sua crisi terminale.

 

Intanto perché i nomi che circolano – da Del Rio a Zingaretti – non fanno presagire una leadership carismatica, che sappia ridare smalto al progetto e, nel contempo, tenere il partito al riparo dalle manovre del ducetto di Rignano. Poi perché sono nomi che si muovono in sostanziale continuità con le politiche del PD dal 2011 ad oggi, non rappresentano certo il segnale forte di una inversione di rotta.

 

Comunque l’uscita di Renzi non potrà che far bene ad un partito schiantato. Lascia dietro di se milioni di elettori persi, un partito ridotto a poche migliaia di iscritti, la perdita di ogni riferimento sociale. Municipali, provinciali, regionali, parlamentari e referendum: ha perso ovunque e con percentuali ogni volta più umilianti, trascinando il partito in un tunnel senza luce.

Lo scenario post voto consegna un quadro politico di difficile lettura. Nella ricerca più o meno affannosa di una maggioranza parlamentare, si assiste ad uno sfoggio di fantasia che s’infrange però sul muro che separa le compatibilità politiche e i numeri. Né la Lega né i 5 Stelle possono immaginare percorsi autosufficienti, il numero di seggi che mancherebbero è tale da non poter essere colmata né con la campagna acquisti per la destra, né per ipotetici transfert di parlamentari dal PD per i penta stellati.

Come nel Paese delle Meraviglie il Cappellaio Matto festeggiava il suo non-compleanno, a Piazza Affari si festeggia il non-crollo dei mercati. Dopo il trionfo delle forze populiste alle elezioni di domenica 4 marzo, lunedì il Ftse Mib ha toccato in giornata una perdita massima del 2%, ma poi ha chiuso con un ben più modesto -0,4%. E martedì è addirittura salito dell’1,75%, maglia rosa fra i listini europei. Intanto, lo spread Btp-Bund viaggia placido in zona 130 punti base, lontanissimo dai livelli di guardia.


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