"Perché la Francia può portare il debito al 2,8 in rapporto al PIL mentre noi dovremmo restare sotto l’1,6?" La domanda che pone il Vicepremier Di Maio, seppure retorica - nel senso che suggerisce implicitamente la risposta - ha una sua piena legittimità. In termini di principio, certo, e anche sotto il profilo del diritto di ogni singolo stato membro della UE a decidere il proprio equilibrio finanziario purché stia nei parametri previsti dal Trattato di Maastricht, ovvero entro il 3%. Di Maio pone un problema che c’è mentre i soloni tifosi del rigore e della sottomissione che insorgono dovrebbero avere il buongusto di tacere.

 

La risposta al quesito che pone Di Maio è multipla e riguarda sia la sostenibilità di un tale coefficiente sui mercati che l’autorevolezza ed affidabilità politica di Roma nel contesto dell’Unione Europea. Ci sono insomma due aspetti che rendono un’affermazione di principio inutile sul piano politico: il peso sui mercati e quello nella UE. Si è accettata la follia del pareggio in Bilancio in Costituzione e del Fiscal Compact con il quale Bruxelles governa l’Italia. In un harakiri fantozziano è stato votato il dominio della Commissione Europea sui nostri conti, con ciò esonerando il Parlamento dalle scelte fondamentali di indirizzo del Bilancio del Paese.

Come in un pendolo fra Bud Spencer e Don Matteo, gli esponenti del Governo legastellato continuano a prodursi in risse da saloon seguite prediche francescane. E ad andarci di mezzo è il povero Giuseppe Conte, che s’era presentato come l’avvocato degli italiani e si ritrova a tapparsi le orecchie sotto le coperte mentre mamma e papà litigano nell’altra stanza.

 

L’ultimo episodio della lista è il più clamoroso. Con il Casalino-gate, l’armata gialloverde mette in luce in un colpo solo buona parte delle contraddizioni su cui è nata. Tutto parte dalle frasi para-squadriste pronunciate al telefono dal portavoce del Presidente del Consiglio e finite poi sul web: “O ci trovano i 10 miliardi del cazzo per fare il reddito di cittadinanza, oppure dedicheremo tutto il 2019 a fare fuori quei pezzi di merda dal ministero dell’Economia”.

E’ in discussione in Commissione Giustizia del Senato il ddl  “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, che cambia la normativa del diritto di famiglia in materia di separazione, in particolare  cambia la legge n. 54 del 2006, conosciuta come legge sull' affido condiviso. Ce n’era bisogno? E’ un testo davvero migliorativo? E soprattutto: è nell’interesse primario dei figli?

 

Nessuno può certo negare che negli anni la giurisprudenza abbia talvolta assunto posizioni pregiudizievoli, o siano prevalsi stereotipi o automatismi per cui di norma alla madre sono stati assegnati i figli. E nessuno può certo sottovalutare i cambiamenti avvenuti nel sentimento di genitorialità di tanti giovani padri, che vogliono essere presenti e attenti, responsabili nella vita quotidiana dei figli. Ma la necessità di una migliore applicazione dell’attuale legge sull’affido condiviso non è l’obiettivo del senatore Pillon, primo firmatario di questo disegno di legge. Anzi, l’idea di fondo è la convinzione che nella separazione la donna ottiene, usa e abusa del suo potere genitoriale e che quindi  il padre deve essere tutelato, in quanto  parte fragile. Una richiesta vendicativa, più che rivendicativa.

Nel lungo viaggio dal contratto di governo alla legge di Bilancio, i progetti del governo giallo-verde cambiano forma. A sommare tutte le promesse fatte in campagna elettorale il costo della prossima manovra doveva essere di 100 miliardi. Una cifra fuori dal mondo, che fra tagli e rinvii si sta riducendo di circa due terzi. I primi abbozzi della nuova finanziaria parlano infatti di un conto finale da 30-35 miliardi, molto meno di quanto annunciato prima del 4 marzo, ma comunque tanto. Forse troppo.

 

Il problema è conciliare esigenze politiche e contabili. In vista delle elezioni europee di maggio, M5S e Lega devono dare segnali concreti su quelle che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha definito “misure qualificanti” del programma: reddito di cittadinanza, flat tax e revisione della Fornero. Ma ognuno di questi interventi, per essere realizzabile, dovrà diventare molto più leggero del previsto.

 

Partiamo dal reddito di cittadinanza. La settimana scorsa il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, ha concesso al Movimento 5 Stelle di concentrare su questo capitolo di spesa una decina di miliardi. Più di quanto Luigi Di Maio avesse mai ottenuto finora, ma comunque molto meno dei 17 miliardi che servirebbero secondo i calcoli dei grillini per realizzare subito la misura coma da programma.

 

L’anno prossimo si dovrebbe cominciare con la “pensione di cittadinanza”, cioè l’innalzamento dell’assegno minimo da 500 a 780 euro (la cifra del reddito di cittadinanza). Costerebbe intorno ai due miliardi e dovrebbe essere operativa dal primo gennaio. Alla riforma dei centri per l’impiego andrebbero altri due miliardi, di cui uno potrebbe essere recuperato dai fondi comunitari. Una volta completato questo passaggio, fra maggio e giugno, dovrebbe partire il reddito di cittadinanza vero e proprio. Per coprire solo il secondo semestre del 2019 basterebbero sei miliardi, di cui tre sono già a bilancio (si tratta delle risorse stanziate dal governo Gentiloni per il Reddito d’inclusione). Dal 2020 il costo raddoppierebbe, ma questo è un problema che ci si porrà più avanti.

 

Quanto alla flat tax, la sua introduzione avverrà a tappe lungo tutta la legislatura e il risultato sarà molto diverso dall’aliquota unica al 15% sbandierata dai leghisti in campagna elettorale. L’anno prossimo si comincerà sicuramente da un’estensione del regime dei minimi per le partite Iva: la tassazione agevolata al 15% sarà concessa a chi fattura fino a 100mila euro, mentre adesso il tetto varia da 25mila a 50mila euro a seconda dell’attività.

 

L’aspetto più importante è però quello che riguarda le aliquote Irpef. Nel 2019 potrebbero essere ridotte da cinque a tre (21% per i redditi da 15 a 28mila euro, 38% da 28 a 75mila e 43% per chi supera quota 75mila), con l’obiettivo di scende a due entro la fine della legislatura (probabilmente una al 21 e una al 33%). Il costo totale dell’operazione si aggira intorno ai 15 miliardi, ma nella prossima legge di Bilancio basterà stanziarne 6-7. Il famoso topolino partorito dalla montagna, se si pensa che per l’aliquota unica al 15% di miliardi ne servirebbero 50.

 

Infine, la controriforma delle pensioni. Smontare completamente la legge Fornero costerebbe 14 miliardi, perciò anche in questo caso addio sogni di gloria. Da settimane l’unica novità di cui si parla è l’introduzione della “quota 100”, cioè la possibilità di andare in pensione quando la somma fra età anagrafica e anni di contributi arriva almeno a 100. Detta così, la misura imporrebbe di trovare circa 8 miliardi, ma si sta pensando di fissare l’età minima per lasciare il lavoro a 64 anni: in questo modo la platea beneficiaria della quota 100 si ridurrebbe, abbassando il costo dell’intervento di un paio di miliardi.

 

A tutte queste spese bisogna poi sommare i 12,4 miliardi necessari a evitare che dal primo gennaio scatti l’aumento dell’Iva (l’aliquota ridotta salirebbe dal 10 all’11,5% e quella ordinaria dal 22 al 24,2%) e altri tre miliardi e mezzo per le cosiddette “spese indifferibili”, tra cui le missioni all’estero.

 

Alla fine, perciò, anche la versione light della manovra rischia di essere troppo pesante per le casse dello Stato. La soluzione del rebus dipenderà in buona parte dalle capacità di mediazione di Tria, che ha il doppio compito di trovare le coperture e negoziare con Bruxelles, il tutto senza far innervosire troppo Di Maio e Salvini. Il numero uno del Tesoro vorrebbe anche mantenere il rapporto-deficit Pil entro l’1,6%, assai lontano dal limite del 3% tante volte evocato nelle scorse settimane. Intanto, agenzie di rating e fondi speculativi stanno a guardare. Con il dito sul grilletto.

Lo spread italiano sale, le aste del Tesoro vanno meno bene del solito e le agenzie di rating guardano Roma con occhi truci. La settimana scorsa è arrivata una pallottola a salve da Fitch, che ha confermato il giudizio BBB sul nostro Paese, modificando però il giudizio sulle prospettive da “stabile” a “negativo”. Ora incombono le pagelle di Moody’s e di Standard & Poor’s, che in caso di declassamento porterebbero l’Italia sull’orlo del rating “spazzatura”.

 

A creare tanta apprensione nei mercati è la legge di Bilancio che il governo legastellato scriverà nei prossimi mesi. Gran parte della questione gira intorno a un singolo valore: il rapporto deficit-Pil 2019, che peraltro l’Esecutivo dovrebbe anticipare con la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, attesa entro fine mese (in realtà sarà un Def ex novo, visto che la versione di aprile era un semplice schema senza valutazioni politiche prodotto dal governo Gentiloni in fase di proroga post-elettorale).

 

“Sfioreremo il 3% senza però superarlo, come solo i grandi artisti sanno fare”, ha detto Matteo Salvini ad Alzano Lombardo, dando l’impressione di prodursi in un’improvvisazione da palcoscenico più che in una valutazione tecnica. Dello stesso tenore l’intervento di Luigi Di Maio alla festa del Fatto: “Non saranno gli indici a stabilire lo stato del Paese, ma i sorrisi dei cittadini, la loro felicità”.

 

Con queste parole i due vicepremier hanno dato ragione a Fitch, che nella sua analisi sull’Italia ha puntato il dito contro la «natura nuova e non collaudata del Governo, le considerevoli differenze politiche fra i partner della coalizione e le contraddizioni fra gli elevati costi dell’attuazione degli impegni presi nel Contratto e l’obiettivo di ridurre il debito pubblico».

 

Proprio questa settimana i due partiti di Governo iniziano l’assalto alla dirigenza del Tesoro, con l’obiettivo di sponsorizzare le rispettive misure-bandiera, flat tax e reddito di cittadinanza. Il problema è conciliare due esigenze divergenti: una politica, l’altra contabile. In vista delle europee 2019 leghisti e pentastellati devono dare agli elettori l’impressione di aver mantenuto le promesse con cui hanno raggiunto il potere, ma al tempo stesso non possono permettersi di varare tassa piatta e reddito di cittadinanza nelle versioni originarie, perché costerebbero troppo. Più o meno – rispettivamente – 48 e 17 miliardi, soldi impossibili da trovare anche sfondando di qualche decimale il 3% di deficit-Pil.

 

I leghisti si sono quindi rassegnati a non poter varare la flat tax sbandierata in campagna elettorale, cioè un’aliquota unica al 15%. Una delle ipotesi alternative prevede la riduzione degli scaglioni Irpef da 5 a 3, accompagnata da un ampliamento della no tax area o da nuovi quozienti familiari. Sarebbe anche una soluzione meno iniqua dal punto di vista sociale.

 

Quanto al reddito di cittadinanza, Di Maio ha confermato che “arriverà nel 2019”, ma ancora non è dato sapere in che modo, anche perché per funzionare necessita di una riforma assai complessa dei centri per l’impiego (che, non è un dettaglio, sono gestiti dalle Regioni).

 

Nel frattempo, la Bce sta chiudendo il rubinetto del quantitative easing. Dal marzo 2015, l’Eurotower ha comprato Bot e Btp per oltre 350 miliardi di euro: quando questi titoli arriveranno a scadenza, la Banca centrale europea li sostituirà con altre obbligazioni pubbliche di pari importo – di fatto rinnovando l’investimento – ma a partire dal gennaio 2019 gli acquisti smetteranno di crescere.

 

Con il venir meno di un compratore sicuro e generoso come la Bce, il Tesoro farà più fatica a collocare i titoli di Stato, per cui è facile prevedere che nei prossimi mesi tassi e spread continueranno a salire. Se poi queste difficoltà si trasformeranno in un nuovo attacco speculativo contro il nostro Paese, dipenderà da come il Governo risolverà il rebus della manovra d’autunno. L’avvertimento arrivato negli ultimi mesi dai mercati non poteva essere più chiaro.


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