Con la tempesta di insulti che il Movimento 5 Stelle ha fatto piovere sulla stampa italiana dopo l’assoluzione della sindaca di Roma, Virginia Raggi, siamo passati dall’era della macchina del fango a quella della girandola del fango. Una volta a spalare letame erano principalmente i gruppi editoriali, che pur di screditare gli avversari politici non esitavano a inventare notizie. Oggi questa tendenza si è duplicata, producendo una forza uguale e contraria: sono i politici che, per ricompattare le fila e riguadagnare credibilità, spalano letame contro i giornalisti.

 

Intendiamoci, qui non si fa autodifesa in nome della categoria. Anzi, molte delle critiche che i grillini muovono contro la stampa hanno fondamento, altre sono perfino condivisibili. Ma non è questo il punto.

Da reddito a mini reddito, da flat tax a regalino per le partite Iva. Le misure promesse da Lega e Movimento 5 Stelle durante la campagna elettorale per le ultime politiche si sono ristrette come vestiti dopo un lavaggio sbagliato. E ora che la prima manovra del governo gialloverde è approdata in Parlamento, vale la pena di fare un confronto fra gli annunci  dell’anno scorso e i risultati che si prospettano oggi.

 

Partiamo dal reddito di cittadinanza. Fino al 4 marzo scorso, i 5 Stelle parlavano di dare 780 euro a tutti i poveri (non solo alle persone in povertà assoluta) e di alzare le pensioni minime allo stesso livello. Il costo previsto era di 17 miliardi (di cui due per la riforma dei centri per l’impiego), soldi che i grillini sostenevano di aver già trovato. Tutto fatto, tutto pronto.

 

Poi è arrivato il confronto con la realtà. Si è scoperto che le coperture non c’erano affatto: quei 17 miliardi si sono praticamente dimezzati e per trovarli è stato necessario scassare i conti pubblici a un livello tale da rendere inevitabile l’avvio di una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles. Nei fatti, dunque, il reddito di cittadinanza sarà una misura diversissima da quella annunciata, perché i soldi non bastano. Il sussidio sarà destinato solo a chi vive in povertà assoluta (circa 5 milioni di persone, contro i 9 di cui si leggeva nel progetto originario) e l’importo pieno (780 euro) andrà esclusivamente a chi è in affitto e non ha reddito. Per coloro che vivono in una casa di proprietà, invece, la somma sarà sensibilmente più bassa, forse intorno ai 500 euro.

 

Anche la flat tax si è trasformata in modo radicale nel passaggio da fantasia a realtà. Anzi, se possibile la metamorfosi subìta dalla misura economica di punta del programma leghista è ancora più marcata. La rivoluzione fiscale che avrebbe dovuto abbattere il sistema degli scaglioni Irpef per istituire una sola aliquota al 15 percento è rimasta una favola.

 

Quella che i leghisti hanno infilato nella manovra e che continuano a chiamare "flat tax" è in realtà qualcosa di molto diverso. Non vale per i lavoratori dipendenti, ma solo per alcuni autonomi. In sostanza, si tratta di un allargamento del vecchio regime dei minimi. Dal 2019, la soglia di reddito annuo entro cui sarà possibile accedere all'aliquota unica e agevolata del 15 percento (sostitutiva di Irpef e Irap) salirà a 65mila euro. Il nuovo tetto sarà valido per tutte le partite Iva, mentre il sistema attualmente in vigore prevede soglie diverse, comprese fra 25mila e 50mila euro, a seconda dell'attività svolta (per i professionisti, ad esempio, l'asticella è a quota 30mila euro).

 

Inoltre, dal 2020 dovrebbe essere introdotta un'ulteriore aliquota al 20 percento per i redditi fra 65mila e 100mila euro.

 

La portata di questo intervento è enormemente inferiore alle aspettative di molte persone che hanno votato Lega per pagare meno tasse. La buona notizia è che non dovremo fare i conti con l'ingiustizia sociale di una flat tax vera e propria, che, come ogni taglio delle tasse indiscriminato, avvantaggia i ricchi molto più dei poveri. La cattiva è che, nel suo piccolo, anche questo intervento in favore delle partite Iva si rivela profondamente iniquo, perché - a parità di reddito lordo - permette agli autonomi di intascare più soldi dei dipendenti.

 

Secondo alcune simulazioni di Eutekne, partendo da 45mila euro lordi, un lavoratore dipendente (a tempo determinato o indeterminato) incassa uno stipendio netto di 2.188 euro per 13 mensilità, mentre un autonomo arriva a sfiorare i 3mila euro al mese (2.994). La differenza è di oltre un terzo, il 36,8%, che vuol dire 10.471 euro in più ogni anno. In altri termini, rispetto al progetto originario è sopravvissuta soltanto l'ingiustizia di fondo.

Lo spread italiano è già oltre la soglia dei 300 punti e minaccia di allargarsi ancora, aprendo voragini nei conti delle banche. Dopo il declassamento arrivato da Moody’s lo scorso 19 ottobre, venerdì sera Standard & Poor’s ha abbassato l’outlook sul nostro paese da stabile a negativo, preparando la strada per un downgrade nei prossimi mesi. Intanto, di fronte al rifiuto italiano di modificare i saldi della manovra, il 21 novembre Bruxelles darà il via all’iter che fra dicembre e gennaio porterà all’apertura di una procedura d’infrazione contro Roma per il mancato rispetto delle regole sulla riduzione del debito.

Il problema del nostro Paese è che gli italiani non cercano lavoro o che il lavoro non c’è? La risposta giusta dovrebbe essere la seconda. A giudicare dall’impostazione della nuova legge di bilancio, però, sembra proprio che il Governo non sia d’accordo. La manovra licenziata dal Consiglio dei ministri vale 37 miliardi e per 22 è finanziata in deficit.

 

Il ricorso all’indebitamento è largamente superiore a quanto consentito dalle regole europee e Bruxelles è già furiosa, ma non è questo il punto. La vera questione è che stiamo allargando il disavanzo solo per aumentare la spesa corrente e non per riaccendere gli investimenti pubblici. In altri termini, la legge di Bilancio peggiora i conti senza migliorare le prospettive del Paese nel medio lungo termine, perché non crea nemmeno un posto di lavoro.

Nelle recenti parole di Papa Francesco contro l’aborto, aldilà dello sconcerto o del fastidio che possono aver provocato, alcuni hanno voluto leggervi l’ennesimo altalenarsi di posizioni più aperte e più conservatrici proprie della retorica papale, altri hanno invece ritenuto di non doversi stupire per una presa di posizione così netta, trattandosi - appunto - del Papa.

 

In fondo, per la religione cattolica il tema dell’interruzione volontaria di gravidanza è particolarmente delicato, assume un valore fondante dal punto di vista dottrinario e, insieme, fa emergere la rabbia e il fastidio delle gerarchie ecclesiali quando non riescono ad esercitare la loro influenza, ovvero a condizionare decisamente le scelte legislative dei diversi paesi cattolici. Italia in particolare, per ovvie ragioni.


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