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- Scritto da Carlo Musilli
La nuova legge di bilancio poggia su tre colonne: la flat tax leghista, il reddito di cittadinanza grillino e la quota 100 per le pensioni. La terza misura è l’unica su cui i due partiti di governo sono davvero uniti (anzi, gareggiano addirittura per intestarsene la paternità). Purtroppo per gli italiani, però, il problema è sempre lo stesso: esattamente come la tassa piatta salviniana e il sussidio grillino, anche il principale intervento in tema di previdenza si rivelerà lontanissimo dalle promesse elettorali sciorinate nell’ultimo anno.
Gli inganni sono due. Il primo ha a che vedere con il nome stesso del provvedimento: “quota 100”. Questa definizione lascia intendere che dall’anno prossimo agli italiani sarà concesso andare in pensione quando la somma di età anagrafica e anni di contribuzione arriverà, appunto, a quota 100. Bello, vero? Peccato che il progetto di governo non preveda esattamente questo.
Sono previste infatti due soglie minime: 62 anni di età e 38 di contributi. Ciò significa che i lavoratori di 63 anni avranno comunque bisogno di almeno 38 anni di contributi per andare in pensione: di conseguenza, la quota 100 si trasformerà magicamente in quota 101 (63+38). Per la stessa ragione, i 64enni andranno in pensione con quota 102 (64+38) e i 65enni con quota 103 (65+38).
Il secondo inganno è ancora più grave e riguarda le condizioni garantite a chi sceglierà di ritirarsi dal lavoro sfruttando questo nuovo canale. Finora i legastellati hanno presentato la quota 100 come una misura che avrebbe ammorbidito le rigidità della legge Fornero, introducendo maggiore flessibilità in uscita. Il problema è che, per abbandonare il lavoro in anticipo, i nuovi pensionati si ritroveranno in tasca un assegno (molto) più leggero di quello che la stessa legge Fornero avrebbe previsto.
La ragione è semplice: se vai in pensione prima vuol dire che versi meno contributi, perciò la tua pensione – che si calcola con il metodo contributivo – sarà per forza più bassa di quella che avresti percepito se avessi continuato a lavorare. È aritmetica di base, non ci vuole un genio. A guardare i numeri, però, la differenza raggiunge picchi impressionanti.
Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di Bilancio - illustrati dal presidente Giuseppe Pisauro nel corso di un’audizione parlamentare - con un anticipo del pensionamento di un solo anno il taglio dell’assegno causato dalla quota 100 sarebbe del 5,06%. Se però l’anticipo fosse di sei anni, l’importo della pensione si ridurrebbe di oltre un terzo: -34,17%. Una stangata terrificante.
La simulazione dell’Upb contraddice vistosamente il vicepremier Matteo Salvini, che in tv aveva escluso qualsiasi tipo di penalizzazione. Il leader leghista faceva riferimento alle stime già comunicate dal presidente dell'Inps, Tito Boeri, secondo cui un lavoratore medio della Pa, andando in pensione a 62 anni anziché a 67, vedrebbe il proprio assegno ridursi di circa 500 euro.
Chi ha ragione? Sempre l’Ufficio parlamentare di bilancio sottolinea che nel 2019 potrebbero andare in pensione con quota 100 fino a “437.000 contribuenti attivi”. Nel caso tutti quanti scegliessero di abbandonare il lavoro, lo Stato dovrebbe affrontare un “aumento di spesa lorda pari a 13 miliardi di euro”. Se accadesse, i conti pubblici finirebbero in corto circuito.
Eppure, il governo stesso ritiene che “la metà delle persone che potrebbe utilizzare quota 100 sceglierà di non andare in pensione”. Come mai? Non certo per amore del lavoro, ma per schivare l’ennesima fregatura: la metà delle persone vorrà evitare di ritrovarsi con un assegno ancora più basso di quello lasciato in eredità dalla professoressa Fornero.
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- Scritto da Alessandro Iacuelli
Ci risiamo. Ciclicamente, la tematica del ciclo dei rifiuti in Campania viene riproposta dalla politica, ammesso che sia davvero la politica a volerla riproporre. Puntuale, dopo mesi o a volte anni di silenzi e omissioni su una delle più gravi commistioni tra criminalità e disastri industriali annunciati (problematica mai risolta e mai seriamente affrontata) viene riportata alla luce la più banale delle non-soluzioni: disseminare la regione di impianti di incenerimento.
Così, in questi giorni ascoltiamo il leader politico di turno, stavolta Salvini, ripetere in modo martellante che occorre costruire nuovi impianti di incenerimento in Campania. Le parole sono le stesse dette dal 1994 a questa parte dai vari Amato, Berlusconi, Prodi, Renzi, come a sottolineare che sulle politiche riguardanti l'ambiente e i rifiuti ancora una volta destra e sinistra sono incapaci di mostrare una differenza.
Perché serve un altro impianto di incenerimento in Campania, come se non bastasse l'enorme e sproporzionato inceneritore di Acerra, che brucia migliaia di tonnellate di rifiuti solidi urbani (si spera solo quelli), con un rendimento elettrico bassissimo e con la produzione di energia termica che va interamente perduta?
A detta dell'attuale ministro dell'Interno, perché il problema va risolto e per fermare i roghi tossici.
In parte il ministro va compreso: non conosce il problema e, qualche anno fa, quando la Commissione Bicamerale sul Ciclo dei Rifiuti della XV legislatura produsse un ampio dossier sul ciclo rifiuti in Campania, Salvini fu tra quelli che pubblicamente negarono l'esistenza del problema e la veridicità della relazione della Commissione. Occorse l'intervento dell'allora Presidente della Repubblica, Napolitano, per riportare i leghisti ad un dignitoso silenzio.
Cerchiamo di comprendere allora cosa c'è dietro le parole del ministro. Dice che il problema va risolto, e per risolverlo occorre eliminare i rifiuti urbani. Guardiamo allora i dati ISPRA, quelli più recenti, riferiti al 2016. In Italia abbiamo prodotto in totale 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani; difficile anche sono immaginare, per noi umani, quanto sia grande questo numero. Intuiamo però che una simile quantità è insostenibile: facendo una media brutale sulla popolazione del Paese, viaggiamo su un valore attorno alla mezza tonnellata procapite in un anno! Ciascuno di noi, preso singolarmente, fa mezza tonnellata di rifiuti all'anno. Decisamente troppo.
Tuttavia, a fronte di questa cifra impressionante di rifiuti solidi urbani, la produzione di rifiuti speciali, cioè i rifiuti delle attività economiche e produttive - sempre secondo l'ISPRA e sempre riferiti al 2016 - è di 135,1 milioni di tonnellate, ovvero oltre 100 milioni di tonnellate in più (un volume di rifiuti ancora più difficile da immaginare). Tra questi, sono inclusi i 9,6 milioni di tonnellate di rifiuti speciali classificati come pericolosi.
La legge, ma anche il buon senso, impedisce di incenerire i rifiuti di origine industriale, cioè quei rifiuti speciali che sono molti di più rispetto ai rifiuti urbani. Pertanto, un inceneritore, se usato legalmente senza far infiltrare rifiuti speciali come avvenuto anni fa a Colleferro e in altri impianti chiusi dalle Procure per questo tipo di reati, risolve (e forse non del tutto) solo lo smaltimento residuo dei rifiuti urbani.
I dati parlano chiaro: l'Italia nel 2016 ha prodotto 165,2 milioni di tonnellate di rifiuti totali (urbani più speciali) di cui gli urbani sono solo il 18,2%. Siamo allora sicuri che un inceneritore sia la soluzione? Anche eliminando il totale dei rifiuti urbani, avremmo eliminato una minoranza dei rifiuti totali prodotti. Diventa la soluzione solo se ai rifiuti urbani vengono miscelati rifiuti speciali, cosa che ha conseguenze gravi sulla popolazione, che respirerebbe aria contaminata dai residui di combustione di scarti industriali. Non a caso, quindi, costituisce un reato grave che prevede la chiusura ed il sequestro dell'impianto.
Certo, in un Paese civile non può succedere che in un impianto che rientra nel ciclo industriale dei rifiuti urbani - che è sotto stretto controllo pubblico - vengano miscelati dei rifiuti industriali, ma in Italia è successo e le inchieste della magistratura hanno già portato al sequestro temporaneo di una decina di impianti sparsi su tutto il territorio nazionale.
C’è poi un secondo problema, quello dei roghi tossici. Problema in Campania ben noto, dove ogni notte, su un letto di combustione di difficile spegnimento, costituito solitamente da pneumatici dismessi, vengono dati alle fiamme cumuli grandi e piccoli di rifiuti speciali. Rifiuti speciali, non urbani. Si tratta di un ciclo criminale parallelo, dove grandi quantità di scarti della produzione industriale, dal tessile al chimico, dal farmaceutico all'automobilistico, vengono fatti sparire, anche dai certosini conteggi dell'ISPRA, mediante il fuoco, senza alcun controllo.
Quel che Salvini non spiega, è come un inceneritore possa incidere sui traffici, assolutamente illeciti, di rifiuti pericolosi, spesso tossico-nocivi, che comunque in un inceneritore non potrebbero essere eliminati. Anche da questo punto di vista, un inceneritore non conviene affatto.
Probabilmente, l'unico vantaggio reale di un inceneritore sta nella sua costruzione, ma non è un vantaggio per tutti: trattandosi di una tipologia di impianto molto costosa, la sua realizzazione vede puntualmente lo stanziamento di importanti cifre, di denaro pubblico, che portano lavoro e profitti alla lobby industriale delle imprese che costruiscono l'impianto. Lobby che già in passato ha dimostrato di saper premere sul mondo politico per ottenere questo tipo di appalti. A discapito della qualità dell'aria, ma anche trasformando in rifiuti speciali le pericolose ceneri residue della combustione, utilizzando anche i rifiuti urbani.
Tirando le somme, ciclicamente il tema della realizzazione di inceneritori verrà sempre riproposto. Ieri è toccato a Berlusconi, oggi a Salvini, domani ad altri. Quel che da cittadini chiediamo al ministro Salvini è molto semplice: sia onesto, ci dica qual è il gruppo industriale che richiede di poter produrre inceneritori per uscire magari da una sua fase di crisi economica privata, con robuste iniezioni di denaro pubblico.
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- Scritto da Redazione
Con la tempesta di insulti che il Movimento 5 Stelle ha fatto piovere sulla stampa italiana dopo l’assoluzione della sindaca di Roma, Virginia Raggi, siamo passati dall’era della macchina del fango a quella della girandola del fango. Una volta a spalare letame erano principalmente i gruppi editoriali, che pur di screditare gli avversari politici non esitavano a inventare notizie. Oggi questa tendenza si è duplicata, producendo una forza uguale e contraria: sono i politici che, per ricompattare le fila e riguadagnare credibilità, spalano letame contro i giornalisti.
Intendiamoci, qui non si fa autodifesa in nome della categoria. Anzi, molte delle critiche che i grillini muovono contro la stampa hanno fondamento, altre sono perfino condivisibili. Ma non è questo il punto.
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- Scritto da Carlo Musilli
Da reddito a mini reddito, da flat tax a regalino per le partite Iva. Le misure promesse da Lega e Movimento 5 Stelle durante la campagna elettorale per le ultime politiche si sono ristrette come vestiti dopo un lavaggio sbagliato. E ora che la prima manovra del governo gialloverde è approdata in Parlamento, vale la pena di fare un confronto fra gli annunci dell’anno scorso e i risultati che si prospettano oggi.
Partiamo dal reddito di cittadinanza. Fino al 4 marzo scorso, i 5 Stelle parlavano di dare 780 euro a tutti i poveri (non solo alle persone in povertà assoluta) e di alzare le pensioni minime allo stesso livello. Il costo previsto era di 17 miliardi (di cui due per la riforma dei centri per l’impiego), soldi che i grillini sostenevano di aver già trovato. Tutto fatto, tutto pronto.
Poi è arrivato il confronto con la realtà. Si è scoperto che le coperture non c’erano affatto: quei 17 miliardi si sono praticamente dimezzati e per trovarli è stato necessario scassare i conti pubblici a un livello tale da rendere inevitabile l’avvio di una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles. Nei fatti, dunque, il reddito di cittadinanza sarà una misura diversissima da quella annunciata, perché i soldi non bastano. Il sussidio sarà destinato solo a chi vive in povertà assoluta (circa 5 milioni di persone, contro i 9 di cui si leggeva nel progetto originario) e l’importo pieno (780 euro) andrà esclusivamente a chi è in affitto e non ha reddito. Per coloro che vivono in una casa di proprietà, invece, la somma sarà sensibilmente più bassa, forse intorno ai 500 euro.
Anche la flat tax si è trasformata in modo radicale nel passaggio da fantasia a realtà. Anzi, se possibile la metamorfosi subìta dalla misura economica di punta del programma leghista è ancora più marcata. La rivoluzione fiscale che avrebbe dovuto abbattere il sistema degli scaglioni Irpef per istituire una sola aliquota al 15 percento è rimasta una favola.
Quella che i leghisti hanno infilato nella manovra e che continuano a chiamare "flat tax" è in realtà qualcosa di molto diverso. Non vale per i lavoratori dipendenti, ma solo per alcuni autonomi. In sostanza, si tratta di un allargamento del vecchio regime dei minimi. Dal 2019, la soglia di reddito annuo entro cui sarà possibile accedere all'aliquota unica e agevolata del 15 percento (sostitutiva di Irpef e Irap) salirà a 65mila euro. Il nuovo tetto sarà valido per tutte le partite Iva, mentre il sistema attualmente in vigore prevede soglie diverse, comprese fra 25mila e 50mila euro, a seconda dell'attività svolta (per i professionisti, ad esempio, l'asticella è a quota 30mila euro).
Inoltre, dal 2020 dovrebbe essere introdotta un'ulteriore aliquota al 20 percento per i redditi fra 65mila e 100mila euro.
La portata di questo intervento è enormemente inferiore alle aspettative di molte persone che hanno votato Lega per pagare meno tasse. La buona notizia è che non dovremo fare i conti con l'ingiustizia sociale di una flat tax vera e propria, che, come ogni taglio delle tasse indiscriminato, avvantaggia i ricchi molto più dei poveri. La cattiva è che, nel suo piccolo, anche questo intervento in favore delle partite Iva si rivela profondamente iniquo, perché - a parità di reddito lordo - permette agli autonomi di intascare più soldi dei dipendenti.
Secondo alcune simulazioni di Eutekne, partendo da 45mila euro lordi, un lavoratore dipendente (a tempo determinato o indeterminato) incassa uno stipendio netto di 2.188 euro per 13 mensilità, mentre un autonomo arriva a sfiorare i 3mila euro al mese (2.994). La differenza è di oltre un terzo, il 36,8%, che vuol dire 10.471 euro in più ogni anno. In altri termini, rispetto al progetto originario è sopravvissuta soltanto l'ingiustizia di fondo.
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- Scritto da Carlo Musilli
Lo spread italiano è già oltre la soglia dei 300 punti e minaccia di allargarsi ancora, aprendo voragini nei conti delle banche. Dopo il declassamento arrivato da Moody’s lo scorso 19 ottobre, venerdì sera Standard & Poor’s ha abbassato l’outlook sul nostro paese da stabile a negativo, preparando la strada per un downgrade nei prossimi mesi. Intanto, di fronte al rifiuto italiano di modificare i saldi della manovra, il 21 novembre Bruxelles darà il via all’iter che fra dicembre e gennaio porterà all’apertura di una procedura d’infrazione contro Roma per il mancato rispetto delle regole sulla riduzione del debito.