Come su Ilva, Tap e variante di valico, anche sulla Tav il vincitore è Matteo Salvini. In piena coerenza con leggi e accordi internazionali, partono oggi i bandi di gara per la linea ad alta velocità Torino-Lione. Le barricate e i rinvii promessi dal Movimento 5 Stelle sono rimasti nel regno della fantasia: se negli ultimi mesi Luigi Di Maio non si fosse minimamente occupato di Tav, la procedura sarebbe partita esattamente nel modo in cui è partita oggi.

 

Come si spiega allora la pantomima su giornali e tv? Puro maquillage politico per tenere in piedi quel che resta della maggioranza almeno fino alle elezioni europee. È per questo che Di Maio mette in scena un’esultanza da commediante (“abbiamo guadagnato sei mesi”) e Salvini evita di sbugiardarlo (“non ha vinto nessuno”).

In realtà, la procedura avviata oggi è esattamente quella suggerita da Telt – la società italo-francese che realizza l’opera – nella lettera del 18 dicembre in cui spiegava come evitare di perdere i finanziamenti europei.

 

Le leggi francesi prevedono che tutti gli appalti inizino con una fase di sei mesi durante i quali il committente sonda la disponibilità delle varie aziende a partecipare alla gara. Telt, che è una società di diritto francese, comincerà a fare esattamente questo. Peraltro, i bandi in questione riguardano soltanto i 45 chilometri della galleria a doppia canna da scavare sul versante francese del tunnel di base. Quelli da un miliardo per la parte italiana dovranno essere lanciati a giugno con la stessa procedura.

 

Fin qui, insomma, la tabella di marcia prevista per la Tav è stata rispettata come da accordi. E non poteva essere altrimenti, perché in caso contrario non sarebbe arrivata la prossima tranche da 300 milioni dei finanziamenti europei (che al momento coprono il 40% dei costi).

 

I Cinque Stelle assicurano che il progetto sarà “integralmente rivisto” e che si faranno “valere in Parlamento”, ma è un bluff scoperto. Da solo, il Movimento non ha il potere di modificare per legge il trattato che regola la Tav. Per farlo gli servirebbe un nuovo accordo con la Francia o perlomeno una maggioranza parlamentare favorevole allo strappo. E nessuno dei due scenari ha qualcosa in comune con il mondo reale.

 

L’unico dato politicamente rilevante di tutta questa storia è che le decisioni vere sulla Tav - quelle operative - si prenderanno dopo le elezioni europee. Nelle prossime settimane la Lega avrà così il tempo di portare a casa la legge sulla legittima difesa e il no all’autorizzazione a procedere contro Salvini. Il Movimento 5 Stelle, invece, proverà ad appuntarsi al petto la coccarda del salario minimo, sperando che questo successo – insieme ai primi soldi in arrivo con il reddito di cittadinanza – gli permetta di recuperare in parte il terreno perduto.

 

Se però i sondaggi attuali saranno confermati, il voto di maggio certificherà che i rapporti di forza fra Lega e M5S si sono invertiti anche sul piano elettorale. A quel punto, con il Carroccio primo partito, Conte non avrà più alcun appiglio per fermare la Tav. Di Maio, invece, potrà scegliere fra due alternative: far cadere il governo (poco probabile, vista la disponibilità dei grillini al compromesso pur di conservare il seggio) oppure piegarsi e presentare l’opera che sarà realizzata come una “mini Tav”. In fondo, “tirare a campare è meglio che tirare le cuoia”. Nella Terza Repubblica come nella Prima.

“Siamo oltre 250mila persone”, dicono gli organizzatori. Sui numeri esatti c’è il solito balletto di opinioni divergenti, ma stavolta nessuno può contestare che in strada sia scesa davvero una marea umana. Quella che, a Milano, ha dato vita alla manifestazione contro il razzismo “People, prima le persone”. Si tratta di “una grande iniziativa pubblica - si legge nell’appello collettivo - per dire che vogliamo un mondo che metta al centro le persone. La politica della paura e la cultura della discriminazione viene sistematicamente perseguita per alimentare l'odio e creare cittadini e cittadine di serie A e di serie B. Per noi, invece, il nemico è la diseguaglianza, lo sfruttamento, la condizione di precarietà”.

Stanno per concludersi le audizioni sul ddl Pillon sull’affido condiviso e sulla cosiddetta “bigenitorialità perfetta”: un testo infarcito di tesi sbagliate, pericolose, che non difendono in alcun modo l“interesse superiore del minore” ma sono una vera crociata contro le donne. Una follia misogina.

 

Professioniste del diritto e anche figure educative e sanitarie che conoscono i problemi dello sviluppo dei minori, hanno ampiamente criticato l’articolato che prevede: la mediazione obbligatoria  a pagamento, anche nei casi di violenza domestica (vietata dalla Convenzione di Istanbul in quanto la violenza non è un conflitto ma un reato); l’obbligatorietà dell’affido condiviso rigidamente normato con parameri standard, con l’obbligo per i genitori di sottoscrivere un “piano genitoriale”, con  tempi paritetici di frequentazione dei figli; il mantenimento diretto e la cancellazione dell’assegno di mantenimento (mentre i processi penali per mancato pagamento dell’assegno sono aumentati del 20 per cento negli ultimi cinque anni);  l’obbligo per chi mantiene la casa familiare di versare un canone d’affitto “di mercato”.

Cos’hanno in comune il reddito di cittadinanza e le commedie sexy all’italiana? Oltre a Lino Banfi quale nume tutelare, da qualche giorno i due universi condividono un possibile esito comico. Tutto comincia con una scoperta. Dopo averci riflettuto bene, la Lega ha realizzato che il sussidio pentastellato potrebbe indurre gli italiani a truffare lo Stato in un modo particolarmente difficile da smascherare. Cioè divorziando o separandosi per finta.

 

In sostanza, una coppia felicemente sposata potrebbe mettere fine al matrimonio solo per incassare due redditi di cittadinanza da single anziché uno da famiglia (la differenza vale alcune centinaia di euro al mese). Oppure, ancora peggio, la messinscena potrebbe garantire il sussidio a chi non ne avrebbe diritto, perché il suo Isee familiare eccede la soglia prevista dalla legge.

Sta espletando i suoi effetti dall’autunno del 2017 ma, a oggi, non è ancora stato sottoposto al vaglio del Parlamento italiano. Sono bastate due firme, apposte il 26 settembre 2017, del governo italiano e di quello nigeriano, a sancire un accordo militare (per la gestione dei flussi migratori e della conseguente sicurezza) che, definito e non modificabile, vede la presenza in Niger di militari italiani mesi prima di un qualsiasi dibattito parlamentare.

 

Perché l’accordo di cooperazione in materia di difesa tra Italia e Niger - diffuso qualche giorno fa grazie al ricorso presentato al TAR del Lazio da Cild, Asgi e Rete Disarmo, in seguito al diniego da parte delle autorità italiane a poter prendere visione dei documenti tramite accesso civico – non è stato ancora ratificato né pubblicato in Gazzetta Ufficiale, nonostante la sua natura di vero e proprio accordo internazionale.

 

Rivendicandone, le autorità italiane, la piena legittimità in quanto rientrante nell’ambito degli accordi in forma semplificata – sempre più utilizzati dal governo italiano negli impegni internazionali e nella lotta all’immigrazione illegale – che, entrando in vigore al momento della firma, vengono sottratti al procedimento di previa autorizzazione legislativa alla ratifica e, dunque, al controllo delle Camere e del Presidente della Repubblica.

 

Specificatamente, “la missione militare in Niger – si legge nel dossier delle associazioni – autorizzata, per la prima volta, a gennaio 2018, sarebbe stata discussa dal Parlamento senza che lo stesso sia mai venuto a conoscenza del contenuto dell’accordo e delle lettere (…) che, indicate come base giuridica dal governo italiano già nella richiesta di autorizzazione della missione militare, contengono le indicazioni specifiche richieste dal governo della Niger a quello italiano al fine di legittimare una missione militare di uno stato estero sul proprio territorio”. Ma, il contenuto delle due lettere, datate 1 novembre 2017 e 15 gennaio 2018, è secretato e non accessibile non solo alla società civile ma, anche, agli stessi parlamentari.

 

Quanto, invece, all’accordo che Cild, Asgi e Rete Disarmo hanno potuto leggere, l’impianto del testo è simile a quelli già vagliati dal Parlamento, dimostrando un approccio per nulla specifico alla situazione nigerina e, anzi, facendo intuire che si tratti di un copia incolla alla base di una strategia più di quantità che rispondente a reale necessità per la somiglianza con tutti gli accordi internazionali finora stipulati.

 

La parte più cospicua delle otto pagine dell’accordo Italia – Niger riguarda la cooperazione nel campo dei prodotti della difesa con articoli che sembrano scritti a esclusivo vantaggio dell’industria a produzione militare del Belpaese (con finalità prettamente commerciali) mentre la parte più generale relativa alla cooperazione vera e propria è ampia, generica e omnicomprensiva.

 

Riferimenti specifici, (presumibilmente) e stando all’articolo 11 dell’accordo che prevede eventuali “protocolli aggiuntivi ed emendamenti” si troveranno in quelle due lettere che “dettano i contorni della missione militare italiana in Niger”.


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