Stanno per concludersi le audizioni sul ddl Pillon sull’affido condiviso e sulla cosiddetta “bigenitorialità perfetta”: un testo infarcito di tesi sbagliate, pericolose, che non difendono in alcun modo l“interesse superiore del minore” ma sono una vera crociata contro le donne. Una follia misogina.

 

Professioniste del diritto e anche figure educative e sanitarie che conoscono i problemi dello sviluppo dei minori, hanno ampiamente criticato l’articolato che prevede: la mediazione obbligatoria  a pagamento, anche nei casi di violenza domestica (vietata dalla Convenzione di Istanbul in quanto la violenza non è un conflitto ma un reato); l’obbligatorietà dell’affido condiviso rigidamente normato con parameri standard, con l’obbligo per i genitori di sottoscrivere un “piano genitoriale”, con  tempi paritetici di frequentazione dei figli; il mantenimento diretto e la cancellazione dell’assegno di mantenimento (mentre i processi penali per mancato pagamento dell’assegno sono aumentati del 20 per cento negli ultimi cinque anni);  l’obbligo per chi mantiene la casa familiare di versare un canone d’affitto “di mercato”.

Cos’hanno in comune il reddito di cittadinanza e le commedie sexy all’italiana? Oltre a Lino Banfi quale nume tutelare, da qualche giorno i due universi condividono un possibile esito comico. Tutto comincia con una scoperta. Dopo averci riflettuto bene, la Lega ha realizzato che il sussidio pentastellato potrebbe indurre gli italiani a truffare lo Stato in un modo particolarmente difficile da smascherare. Cioè divorziando o separandosi per finta.

 

In sostanza, una coppia felicemente sposata potrebbe mettere fine al matrimonio solo per incassare due redditi di cittadinanza da single anziché uno da famiglia (la differenza vale alcune centinaia di euro al mese). Oppure, ancora peggio, la messinscena potrebbe garantire il sussidio a chi non ne avrebbe diritto, perché il suo Isee familiare eccede la soglia prevista dalla legge.

Sta espletando i suoi effetti dall’autunno del 2017 ma, a oggi, non è ancora stato sottoposto al vaglio del Parlamento italiano. Sono bastate due firme, apposte il 26 settembre 2017, del governo italiano e di quello nigeriano, a sancire un accordo militare (per la gestione dei flussi migratori e della conseguente sicurezza) che, definito e non modificabile, vede la presenza in Niger di militari italiani mesi prima di un qualsiasi dibattito parlamentare.

 

Perché l’accordo di cooperazione in materia di difesa tra Italia e Niger - diffuso qualche giorno fa grazie al ricorso presentato al TAR del Lazio da Cild, Asgi e Rete Disarmo, in seguito al diniego da parte delle autorità italiane a poter prendere visione dei documenti tramite accesso civico – non è stato ancora ratificato né pubblicato in Gazzetta Ufficiale, nonostante la sua natura di vero e proprio accordo internazionale.

 

Rivendicandone, le autorità italiane, la piena legittimità in quanto rientrante nell’ambito degli accordi in forma semplificata – sempre più utilizzati dal governo italiano negli impegni internazionali e nella lotta all’immigrazione illegale – che, entrando in vigore al momento della firma, vengono sottratti al procedimento di previa autorizzazione legislativa alla ratifica e, dunque, al controllo delle Camere e del Presidente della Repubblica.

 

Specificatamente, “la missione militare in Niger – si legge nel dossier delle associazioni – autorizzata, per la prima volta, a gennaio 2018, sarebbe stata discussa dal Parlamento senza che lo stesso sia mai venuto a conoscenza del contenuto dell’accordo e delle lettere (…) che, indicate come base giuridica dal governo italiano già nella richiesta di autorizzazione della missione militare, contengono le indicazioni specifiche richieste dal governo della Niger a quello italiano al fine di legittimare una missione militare di uno stato estero sul proprio territorio”. Ma, il contenuto delle due lettere, datate 1 novembre 2017 e 15 gennaio 2018, è secretato e non accessibile non solo alla società civile ma, anche, agli stessi parlamentari.

 

Quanto, invece, all’accordo che Cild, Asgi e Rete Disarmo hanno potuto leggere, l’impianto del testo è simile a quelli già vagliati dal Parlamento, dimostrando un approccio per nulla specifico alla situazione nigerina e, anzi, facendo intuire che si tratti di un copia incolla alla base di una strategia più di quantità che rispondente a reale necessità per la somiglianza con tutti gli accordi internazionali finora stipulati.

 

La parte più cospicua delle otto pagine dell’accordo Italia – Niger riguarda la cooperazione nel campo dei prodotti della difesa con articoli che sembrano scritti a esclusivo vantaggio dell’industria a produzione militare del Belpaese (con finalità prettamente commerciali) mentre la parte più generale relativa alla cooperazione vera e propria è ampia, generica e omnicomprensiva.

 

Riferimenti specifici, (presumibilmente) e stando all’articolo 11 dell’accordo che prevede eventuali “protocolli aggiuntivi ed emendamenti” si troveranno in quelle due lettere che “dettano i contorni della missione militare italiana in Niger”.

Proprio quando tocca il record di consenso a livello nazionale, la Lega assesta il più tremendo dei colpi al Centro e soprattutto al Sud Italia. La chiamano “autonomia differenziata” o “autonomia rafforzata”, ma sono eufemismi. In realtà, il progetto di riforma dei poteri regionali su cui il governo si sta spaccando non è una devolution vecchio stile, ma qualcosa di molto più pericoloso.

 

La questione è partita da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che insieme producono più del 50% del Pil nazionale. Basandosi su quanto la Costituzione prevede dal 2001, le tre Regioni del Nord hanno chiesto di poter gestire direttamente materie che oggi vengono amministrate dallo Stato in esclusiva o in concorrenza con le autorità regionali. Nel calderone rientrano fisco e fiscalità locale, sanità, istruzione, infrastrutture, trasporti e beni culturali. In sostanza, le tre grandi regioni del Nord diventerebbero dei piccoli Stati.

 

Se una riforma del genere passasse, verrebbe stabilito per legge che i cittadini possono godere di servizi differenziati a seconda della parte del Paese in cui hanno la fortuna (o la sfortuna) di nascere. Ad esempio, se la spesa sanitaria diventasse totalmente locale, un malato originario della provincia di Potenza non avrebbe mai un accesso alle cure paragonabile a quello di cui può godere un milanese.

 

L’uniformità delle prestazioni sociali è già in molti casi una chimera, ma rimane comunque l’obiettivo a cui lo Stato deve puntare, redistribuendo le risorse accumulate con la fiscalità generale. Le “autonomie rafforzate”, invece, uccidono il potere redistributivo dello Stato centrale, stabilendo che esistono cittadini di serie A (al Nord), di serie B (al Centro) e di serie C (al Sud).

 

È la negazione di ogni principio di solidarietà nazionale. Di fatto, si tratta della “secessione dei ricchi”, come scrivono gli oltre 200 firmatari dell’appello dal titolo “L'autonomia differenziata alle Regioni ricche avvia lo smantellamento dell'Unità d'Italia”. Uno dei pericoli evocati nel testo è la soppressione dell’universalità “dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre a seconda del reddito dei loro residenti; per poterne usufruire nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca, in aperta violazione dei principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione”.

 

Le conseguenze peggiori ricadrebbero naturalmente “sulle regioni del Sud e sugli abitanti non ricchi di tutta Italia, con la progressiva privatizzazione dei servizi – prosegue l’appello – Il Mezzogiorno viene condannato a essere privo di pari riconoscimento della cittadinanza, con ancor maggiore desertificazione degli investimenti e sempre più debole economia. L’autonomia regionale differenziata negherebbe così la solidarietà nazionale, la coesione e i diritti uguali per tutte/i, che garantiscono l’unità giuridica ed economica del paese”.

 

A livello politico, il progetto delle “autonomie differenziate” fa emergere una delle contraddizioni più macroscopiche su cui è nata l’alleanza gialloverde: la Lega ha il suo bacino elettorale di riferimento al Nord e da trent’anni sogna la secessione della parte più produttiva del Paese; il Movimento 5 Stelle, al contrario, è radicato soprattutto al Sud e non può lasciare che le regioni meridionali vengano declassate per legge. Se lo facesse, dilapiderebbe un oceano di consensi, accelerando il proprio declino e consegnando definitivamente l’Italia a Matteo Salvini.

 

Stavolta, però, in gioco non c’è solo il futuro elettorale di questo o quel partito, ma la coesione sociale del Paese intero. Nell’interesse nazionale, c’è da sperare che i pentastellati siano disposti a tutto pur di evitare che questa legge passi. Anche a far cadere il governo

Due sono i dati politici rilevanti del voto abruzzese: la supremazia elettorale della destra, quando unisce tutte le sue componenti, e la disfatta dei 5 stelle. Se per la prima non si può parlare si sorpresa, per il secondo si tratta di ben altro che di un risultato circostanziale di una elezione locale; pare piuttosto esprimere nel migliore dei casi tutte le difficoltà dei grillini (sono ancora quelli?) e, nel peggiore, la fine prematura di un progetto rinnegato dai suoi stessi capi, passati da critici spietati ad ancelle del sistema.

 

Per quanto si possa argomentare o eccepire sulla probità del test, sulla sua valenza numerica generale, il risultato elettorale delle regionali abruzzesi conferma quanto gli istituti di rilevazione dei flussi elettorali vanno sostenendo da tempo: l’avanzata della destra che quando ritrova la sua unità è vincente; la fine annunciata del PD; la delusione totale dell’elettorato 5 stelle.

 

Il risultato fotografa il limite strutturale del movimento. La sua ascesa, concretizzatasi alle ultime politiche, ha imboccato la discesa sin dalla nascita del governo con Salvini. Nella dimostrata frenesia di accomodarsi sulle poltrone governative, il M5S non si pose il problema della composizione del suo voto; eppure, anche solo leggendo i dati degli osservatori elettorali, avrebbe potuto comprendere come almeno un 30% del suo elettorato proveniva dalla sinistra in senso lato.

 

Bastava una semplice operazione matematica: se la destra complessivamente girava intorno alla sua media storica del 35-40% e il PD raccoglieva circa il 20, dopo aver però sfiorato il 40%, il flusso in uscita riguardava il campo della sinistra e del centrosinistra. Il quale, per via della pregiudiziale antifascista, non poteva accettare il governo con la Lega.

 

Erano elettori, cioè, che avevano abbandonato il campo del centrosinistra a causa del suo procedere spedito e con poca decenza nel campo del liberalismo e non importa a quale tradizione si richiami perché è ormai destra liberale sotto tutti i punti di vista: dalle ricette economiche e sociali al modello di architettura istituzionale, dalla concezione liberista del welfare alla politica estera.

 

Una parte di quell’elettorato deluso dal centrosinistra aveva intravisto nel M5S la possibilità di non votare per il PD e dintorni senza per questo lasciare campo libero alla destra. Ma l’alleanza con Salvini e un governo fedele alla prosecuzione delle politiche liberiste con l’aggiunta di tinte razziste e xenofobe, non poteva essere accettata. Quei voti di quella sinistra sparsa sono quindi i primi che sono venuti meno. Insieme a essi, sono mancati all’appello anche quelli di chi riteneva i 5 Stelle un’ondata critica verso il politically correct, presto divenuti bottino della cannibalizzazione da parte della Lega.

 

Lo conferma l’analisi della SWG sui flussi di voto indica che il 46,3% di chi aveva votato 5 stelle non ha votato, il 32,6% ha confermato il suo voto, il 21,1 lo ha cambiato. Tra questi ultimi il 10% ha votato Lega, il 9,7 è tornato a votare PD e l'1,1 ha votato un altra lista.

 

Sin dall’inizio, nell’accettare il patto di governo con la Lega, il M5S metteva in scena due colossali smentite di quanto sempre sostenuto: non governare con alleanze non indicate nel programma (e la Lega veniva esclusa da ogni possibile compartecipazione al governo), non dare vita ad una trattativa all’oscuro dei suoi elettori.

 

Lo stesso gruppo dirigente, diretto da Di Maio, Buonafede e Toninelli, con la regia occulta del Casaleggio figlio, ha dimostrato di non essere in grado, per cultura politica, incapacità di comprendere testo e contesto, scarso spessore personale e comprensione dell’arte di governo, di assumere la guida di un Paese, quale esso sia.

 

Non un dossier sui temi più importanti, non una nomina governativa né un intervento normativo hanno potuto evitare di generare scetticismo generale, come l’affaccio balconato nel quale si dichiarava di aver sconfitto la povertà, rappresentazione massima dell’imbecillità politica e personale.

 

Nell’allontanamento di una parte del suo elettorato sono risultati determinanti le promesse non mantenute: l’annunciata abolizione del Jobs Act mai avvenuta (anzi votarono per il suo mantenimento), l’abolizione della Fornero (mascherata da quota 100 che la peggiora), il no agli F35 (divenuto un Si), la fine delle sanzioni alla Russia (che sono state mantenute con il voto italiano favorevole in sede UE), il blocco della Tap (che è diventata anacronistica) e il no alla Tav (d’improvviso sconveniente), sono state giravolte emblema di un partito che si proponeva di aprire il sistema come una scatoletta e che è finito invece lui sottovuoto.

 

Per non parlare del mancato rigore nella gestione della cosa pubblica, ben rappresentato dall’accettare di governare con un partito che ha rubato alle casse pubbliche 49 milioni di Euro e di sostenere un Ministro degli Interni pluri indagato, quando in precedenza, per molto meno, Di Maio invocava dimissioni per i suoi predecessori.

 

Insieme a questo, l’imperizia dei suoi ministri, il cui “diverso modo di governare” ha dimostrato come l’improvvisazione, l’ignoranza crassa e la mancata conoscenza dei meccanismi istituzionali generi ilarità diffusa, proprio quando la situazione richiederebbe massima serietà e determinazione. Non s’improvvisa una classe dirigente con alcuni click.

 

E’ stato regalata a Salvini la rappresentazione del governo e lui non si è fatto pregare. La cannibalizzazione da parte della Lega, del resto, trae ragione dall’adesione spanciata della compagine pentastellata al programma elettorale leghista, che con il 17% sta operando una trasformazione in negativo del Paese che non era riuscita nemmeno a Berlusconi, che pure aveva 100 parlamentari di maggioranza.

 

Un esempio concreto? Il 15 febbraio il governo firmerà l’intesa per la “regionalizzazione differenziata”di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Poi passerà al voto del Parlamento, a maggioranza assoluta. Solo un Sì o un No, senza emendamenti.  Se passa, per 10 anni non potrà più essere modificata, neppure attraverso un referendum abrogativo. E’ in realtà una vera e sostanziale devolution, che riguarda ben 23 aree di competenza su 23, tutte quelle previste dall’articolo 117 della Costituzione. Devolution totale compreso fisco, istruzione, sanità.

 

Il M5S deve trovare, come nel caso del sacrosanto stop sul Venezuela, la forza per porre un NO senza possibilità di mediazione. Perché il progetto appena descritto è il cuore dell’identità della Lega, nata per fare gli interessi del Nord, delle regioni che vogliono fuoriuscire dal sistema di solidarietà fiscale alla base del dettato costituzionale. Cada pure il governo ma questo pasticcio non deve passare.  Se passa, si rompe l’unità dello Stato, salta il sistema universalistico di welfare che è sostenuto appunto dalla solidarietà fiscale. Le risorse resteranno per 9/10 nella regione dove vengono prodotte e verranno stabiliti “bisogni standard” parametrati sul gettito fiscale. Cioè più servizi dove ci sono più entrate fiscali. Quindi i diritti sociali non saranno più legati alla persona, ma al bilancio della regione di residenza.

 

Istruzione e salute saranno diversi a seconda della regione dove si vive. Significa che la sanità pubblica non avrà più perequazione, ci sarà una sanità di serie A e una di serie B. Dopo il voto scellerato sul pareggio di bilancio si dichiara ora la morte del Servizio Sanitario Nazionale pubblico e si apre ai Fondi assicurativi privati. Per l’istruzione, ci sarà la possibilità di avere scuole regionali, con insegnanti regionali, con corsi di studio discrezionali. Altro che prima gli italiani, prima il Nord.

 

Questo sarebbe sconfiggere la povertà? Si legittimeranno le richieste dei ceti sociali più forti ad avere più tutele e diritti. I 5 Stelle regaleranno alla Lega la vera loro grande battaglia: la secessione dei ricchi. Un sovranismo di classe, la spaccatura in tre macroaree del Paese. E’ un disegno eversivo e anticostituzionale. E’ questo il modello di Paese che si vuole? Il governo del cambiamento promesso? Il tutto nel silenzio generale, mentre si spendono milioni di parole sui vaccini.

 

Un immediato ripensamento della collocazione governativa e l’immediata rimozione della sua ridicola compagine sono le prime due misure urgenti che il M5S deve adottare se vuole recuperare, con lo spirito delle origini, l’elettorato che scelse di investire su di esso e che non sembra più disposto a farlo.

 

La crisi terminale del centrosinistra e l’assenza di una proposta unitaria a sinistra offre ancora, persino a dispetto dei suoi meriti, uno sbocco possibile per un elettorato sconcertato e indeciso. Il campo della destra, in tutte le sue articolazioni, è colmo, inutile gareggiare per occuparlo. Se si vuole costruire un percorso di reincontro con l’elettorato perso e con gli astenuti è bene spostare decisamente a sinistra la linea politica.

 

Viceversa, più che le prospettive a medio-lungo termine, dietro l’angolo pentastellato si affaccia l’effetto “Uomo Qualunque” di Giannini, che nel dopoguerra arrivò a sfiorare il trionfo per poi finire nel nulla, miseramente, nello spazio di una elezione.


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