Con la crisi agostana, Matteo Salvini si è procurato un inedito conflitto d’interessi. Niente di irrisolvibile, intendiamoci, ma il Capitano dovrà (forse) rinunciare a uno spicchio di quel potere assoluto che va costruendosi. Almeno per un po’. Se tutto andrà come il leader leghista si augura – e come al momento sembra inevitabile – si tornerà a votare per le elezioni politiche entro la seconda metà di ottobre (non più il 13, come si era detto all’inizio, ma più probabilmente il 20, se non il 27). Questo significa che, in mezzo a tanto caos, ci toccherà anche rispolverare il Rosatellum.

Ed è qui che nasce il dilemma. La legge elettorale vergata dal pretoriano di Renzi, infatti, impone alle forze politiche di nominare un “capo”. Non viene chiamato ufficialmente “candidato premier”, perché la Costituzione non lo prevede, ma ufficiosamente è proprio di questo che si tratta.

Il Governo del Cambiamento è cambiato talmente tanto da implodere. Lo strapotere comunicativo di Salvini – amplificato da un sistema mediatico incapace di criticarlo – alla fine ha ridotto in poltiglia l’alleato a 5 Stelle, sempre più simile a una compagnia d’improvvisazione teatrale che a una forza politica. “Andiamo subito in Parlamento per prendere atto che non c'è più una maggioranza, come evidente dal voto sulla Tav, e restituiamo velocemente la parola agli elettori”. Dopo un’ora di colloquio con Giuseppe Conte, giovedì sera il leader della Lega ha scelto queste parole per dichiarare ufficialmente la morde dell’Esecutivo.  

Mentre gioca al deejay in spiaggia mortificando l’inno di Mameli, Matteo Salvini ha una decisione importante da prendere: far cadere il governo subito o restare intrappolato ancora per molti mesi? Pensava di avere più tempo per scegliere. Nella sua ignoranza delle dinamiche istituzionali, il ministro dell’Interno s’illudeva che - scongiurata l’ipotesi di un’alleanza M5S-Pd -qualunque momento fosse buono per tornare alle elezioni. Invece non è così.

 

Il Quirinale ha fatto capire ai due alleati di governo che c’è una data da segnare in rosso sul calendario: l’8 settembre. E non per memoria storica, ma perché quel giorno la Camera voterà il progetto di riforma costituzionale presentato dai grillini per tagliare il numero dei parlamentari da 945 a 600 (400 deputati e 200 senatori). Si tratta della quarta lettura, perciò in caso di esito positivo la legge sarà approvata in via definitiva.

In teoria, Matteo Salvini e Luigi Di Maio dovrebbero essere tutti e due in difficoltà. Il primo a causa di Moscopoli, lo scandalo relativo alla presunta richiesta di finanziamento alla Russia di Putin. Il secondo per il sì alla Tav, che rinnega un’altra battaglia storica del Movimento per cedere ai voleri del Carroccio. Eppure, sondaggi alla mano, i guai dei due leader non producono lo stesso effetto: Di Maio affonda, mentre Salvini continua a crescere. Com’è possibile?

Iniziamo dal leader grillino, che non solo ha dimezzato i consensi ottenuti alle politiche del 2018, ma da qualche tempo fatica parecchio anche a schivare il fuoco amico. Ce l’hanno con lui soprattutto i senatori vicini a due pesi massimi del M5S, Roberto Fico e Alessandro Di Battista, i duri e puri che conservano il piglio delle origini e promettono di lottare fino alla fine contro la Tav.

Il fronte dei dissidenti ha cercato una sponda in Danilo Toninelli, ma è rimasto deluso, perché il ministro delle Infrastrutture si è prodotto in una piroetta ancora più spettacolare di quella del vicepremier grillino: all’inizio diceva che si sarebbe dimesso piuttosto che accettare la Tav, mentre adesso promette di andare avanti “a testa alta”.

Così, i rivoltosi progettano di portare la protesta in Parlamento. Hanno già iniziato alla Camera, dove il decreto sicurezza-bis è passato con l’astensione di 17 pentastellati, mentre Fico è addirittura uscito dall’Aula. La scena si potrebbe replicare al Senato, dove il provvedimento leghista rischia di essere approvato solo grazie alla manciata di voti determinanti di Fratelli d’Italia. Dopo di che, il 7 agosto al Senato i 5stelle voteranno da soli la mozione da loro stessi presentata per dire no alla Tav, nonostante la lettera spedita dal Governo all’Ue per confermare che l’opera sarà realizzata. In questo modo si arriverebbe sull’orlo di una crisi dal sapore di harakiri, perché un eventuale ritorno alle urne danneggerebbe il Movimento 5 Stelle più di chiunque altro.

Ogni giorno che passa, infatti, il consenso di cui gode la Lega assume proporzioni sempre più bulgare. Alcune analisi danno il Carroccio al 36%, due punti percentuali in più rispetto al risultato delle europee di maggio. A prima vista, si direbbe che il moltiplicarsi degli scandali porti acqua al mulino salviniano: il sottosegretario Siri due mesi fa, Moscopoli oggi.

In realtà, le inchieste sulla Lega non intaccano la popolarità di Salvini per una ragione molto semplice: al suo elettorato non interessano. I fan del Capitano hanno a cuore solo tre argomenti: immigrazione, sicurezza e tasse. Tutto il resto è roba buona per intellettualoni, professoroni, giornaloni. O per i famosi radical chic, un calderone in cui ormai finisce chiunque riconosca la solidarietà come valore e abbia la fortuna di non vivere sotto i ponti.

Senza contare che per dare una lettura critica del caso Siri o di Moscopoli occorre leggere, informarsi e ragionare. Ma a che pro affaticarsi tanto, quando per sentirsi dei militanti basta rispondere “e allora Bibbiano?”, oppure scagliarsi contro la sbruffoncella Carola, che osa andare in giro senza il reggiseno sotto la maglietta?

Come il gradimento di Berlusconi è rimasto sostanzialmente immune alle inchieste giudiziarie per decenni, così anche Salvini ha poco da temere su questo fronte. La sua rimane l’immagine di un Capitano sicuro e coraggioso, capace di proteggere chi si affida a lui ciecamente. Il classico uomo forte che la grande maggioranza degli italiani ha sempre adorato.

I problemi per il leader leghista inizieranno quando i suoi elettori gli chiederanno conto dei risultati in campo economico. A cominciare dalla flat tax, che se si farà sarà comunque un provvedimento all’acqua di rose, lontano anni luce da quello promesso nelle ultime campagne elettorali. E poi c’è l’aumento dell’Iva, che tutti vogliono evitare ma nessuno sa con quali soldi, visto che solo per il 2020 servono 23 miliardi da inserire nella prossima manovra. Sono questi i due capitoli su cui Salvini si gioca tutto. Altro che Savoini.

“Non si tratta più di capire se aprire la crisi o meno: si tratta solo di capire quando”. Negli ultimi giorni Matteo Salvini risponde così alla folla di leghisti che lo scongiurano di rompere con i Cinque Stelle. Dal sottosegretario Giorgetti al viceministro Garavaglia, passando per i governatori Zaia e Fontana, è lunga la lista dei maggiorenti del Carroccio che vorrebbero far saltare il governo al più presto.

In effetti, l’analisi non è peregrina: ora che la Lega ha più che doppiato il Movimento nei sondaggi (35 a 17%), ora che Forza Italia è implosa e il Pd non ha risolto ancora nessuno dei suoi problemi (coalizione, programma, leadership), per quale motivo il Carroccio non passa all’incasso elettorale? Difficile immaginare un momento migliore per trasformare in seggi l’impennata di consensi registrata nell’ultimo anno e mezzo. Eppure, Salvini non è convinto: non del tutto, non ancora.

Questa indecisione appare inspiegabile a molti dei suoi, anche perché - se volesse - il numero uno della Lega potrebbe aprire la crisi scaricando comodamente la responsabilità su Di Maio. Il pretesto sarebbe la legge sulle autonomie, che giovedì arriverà sul tavolo del Consiglio dei ministri e da mesi spacca la maggioranza come una Tav elevata a potenza.

Il capo del governo, Giuseppe Conte, è convinto che alla fine l’esecutivo gialloverde andrà avanti. Proprio perché la Lega ha il 34% – è il ragionamento – deve comportarsi come un partito nazionale, non più regionale, e con la riforma delle autonomie rischia di sacrificare una buona fetta di voti al Sud. Ne vale la pena?

Il Presidente del Consiglio pensa di no, ma intanto sbollisce in privato la rabbia per gli insulti ricevuti dai governatori leghisti. Non intende firmare una proposta di legge che faccia gli interessi solo di Veneto e Lombardia, danneggiando il resto del Paese, anche perché un testo simile incapperebbe quasi certamente nella censura della Corte costituzionale. Preoccupazioni non condivise da Zaia e Fontana, che negli ultimi giorni hanno coordinato una serie di attacchi al vetriolo contro il governo, nel chiaro intento di destabilizzare la maggioranza.

In mezzo a questo fuoco incrociato, diventa improponibile anche qualsiasi progetto di rimpasto o di revisione del contratto gialloverde, opzioni che pure Conte aveva esplorato nel tentativo di ricompattare le fila.

Se Salvini non avesse già minacciato mille volte la crisi per poi tirarsi sempre indietro, a questo punto tutti nella maggioranza sarebbero certi che questa settimana arriverà lo strappo. Il passato però insegna a sperare: non a caso, Conte cercherà oggi una mediazione nel corso di un vertice con i ministri e mercoledì difenderà Salvini rispondendo in Aula alle domande delle opposizioni su Moscopoli.

Tutto pur di prendere tempo, visto che la finestra elettorale è quasi chiusa: per votare il 29 settembre, infatti, bisognerebbe consumare crisi, consultazioni e scioglimento delle Camere entro il 30 luglio.

Il problema di Salvini è che può decidere di aprire la crisi, ma non di sciogliere le Camere, compito che spetta al Presidente della Repubblica. E anche se la prospettiva di un governo M5S-Pd non convince nessuno – né i diretti interessati, né il Colle – alla fine il Quirinale potrebbe comunque trovare una soluzione, un compromesso per evitare di chiudere immediatamente la legislatura. Ed è proprio questa idea ad alimentare l’indecisione di Salvini.


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