Luigi Di Maio continua a tenere il punto: “O mi fate vicepremier o qui salta tutto”. Era e rimane lui l’ostacolo principale lungo la strada che dovrebbe portare alla nascita di un governo Pd-M5S. E non c’entra solo l’ambizione personale, che pure non manca allo statista di Pomigliano. La questione ha a che vedere piuttosto con lo spirito di sopravvivenza.

Come una preda braccata, il capo politico pentastellato sente l’odore del pericolo. Sa che la sua carriera politica appena nata rischia di essere già finita. A picconarla è l’amico-rivale Giuseppe Conte, che giorno dopo giorno - sempre con il sorriso - continua ad allargare la frattura fra il Movimento e il suo leader.

La trattativa fra i partiti per dare vita a un nuovo governo ha assunto i contorni della soap opera. E non di una qualsiasi: proprio di Beautiful, l’archetipo del genere. Nella fattispecie – sorvolando sulla differente prestanza fisica – Luigi Di Maio veste i panni di Ridge Forrester, da circa trent’anni indeciso fra la bionda Brooke (Salvini) e la mora Taylor (Zingaretti). Ogni volta che sembra aver finalmente scelto una delle due, in un modo o nell’altro finisce nelle braccia dell’altra.

La differenza è che Beautiful va in onda dal 1987 e continuerà ancora non si sa per quanto, mentre il capo politico grillino ha tempo fino a martedì per chiarirsi le idee. Se non ci riuscirà, Mattarella eviterà di perdere altro tempo e aprirà la strada alle elezioni, che comunque ormai non potranno tenersi prima di novembre. È verosimile perciò che il Capo dello Stato affidi al governo uscente o a un qualche esecutivo istituzionale – privo della fiducia delle Camere – il compito di traghettare gli italiani alle urne mettendo in sicurezza i conti. Il che vorrebbe dire sterilizzare l’aumento dell’Iva (almeno fino ad aprile) e finanziare le spese indifferibili (come le missioni all’estero). Per decreto, se necessario.

In questo scenario, Di Maio finirebbe probabilmente fuori dal cono di luce. Ha collezionato troppi insuccessi per pensare di essere nuovamente il candidato premier del Movimento: quella poltrona ormai spetta a Giuseppe Conte, nuovo dominus dei sondaggi dopo la rampogna anti-Salvini. Il Ridge di Avellino lo sa benissimo, per questo ha posto come condizione imprescindibile per l’alleanza con il Pd la permanenza di Conte a Palazzo Chigi. L’obiettivo era farsi dire di no da Zingaretti (che non accetterà mai di entrare in maggioranza senza una marcata discontinuità) e avere così un pretesto per tornare da Salvini, che nel frattempo gli ha offerto la Presidenza del Consiglio.

Ma il trabocchetto era troppo scoperto e non ci è cascato nessuno. Per mandare a monte il piano di Di Maio, a Conte è bastato sfilarsi. Pur senza negare l’aspirazione al reincarico, dal G7 in Francia il premier dimissionario ha sottolineato che ormai la trattativa non può che essere con i dem e che nessuno deve porre ultimatum sul nome del nuovo capo del governo.

Tutto da rifare per il leader pentastellato, che quindi ha rialzato il telefono per parlare nuovamente con il segretario del Pd. Frattanto, il Nazareno aveva aperto a una possibile premiership del presidente della Camera, Roberto Fico, da sempre considerato l’anima di sinistra del M5S. Peccato che il diretto interessato si sia tirato indietro: altro buco nell’acqua.

A quel punto - proprio come Ridge - invece d’inventare una soluzione alternativa, Di Maio ha scelto di perseverare nell’errore. Nella seconda telefonata con Zingaretti, il numero uno grillino ha continuato a insistere per il Conte-bis. Stavolta però avrebbe messo sul piatto quasi tutti i ministeri chiave, che dunque passerebbero al Pd, marcando quella discontinuità tanto invocata dal segretario dem. L’indiscrezione è stata poi smentita dai 5 Stelle, ma quello che conta è che Zingaretti ha rifiutato ancora, sebbene fonti del suo partito facciano sapere che “si lavora comunque a una soluzione”.

Sullo sfondo rimane lo spettro delle elezioni, che la destra continua a presentare come unico esito democratico della crisi, fingendo di non sapere (si spera) che l’Italia è una repubblica parlamentare. La Lega è in calo nei sondaggi (dal 38% raggiunto a inizio agosto siamo ora al 31-33%), ma rimane di gran lunga il primo partito. E alla fine Salvini, ora apparentemente sconfitto, potrebbe rientrare a sorpresa dalla finestra. Proprio come la cara vecchia Brooke Logan. 

C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».

 

L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.

 

Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.

 

Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.

 

Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.

Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.

 

Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.

 

L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.

 

Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.

 

fonte: il manifesto

Hai voglia a fare smorfie, a dedicare ogni secondo alle telecamere senza le quali il nulla coprirebbe il peggio: esibendo il suo braccialetto di Salvini premier, che più di un progetto a breve termine ormai sembra un epitaffio, quella andata in onda ieri è stata una debacle politica e persino televisiva per Matteo Salvini. L’uomo-felpa ha chiesto pieni poteri ma se il percorso di un nuovo governo sostenuto da PD e 5 Stelle avrà seguito, non  avrà nemmeno quelli relativi alla funzione istituzionale. Ancora ieri si diceva pronto ad asserragliarsi al Viminale, finché qualcuno gli ha spiegato che è proprio da lì che deve sbrigarsi a uscire. Inutili e patetici i tentativi di innestare la marcia indietro per provare a riprendere il rapporto con Di Maio e restare sull’onda. La relazione del Primo Ministro Conte ha dato la misura di come un capitolo si sia chiuso ed ha avvertito i più lesti a cogliere i flussi che l’era del re Mida dei media è diventata quella del bauscia.

L’Iva aumenterà perché è caduto il governo o il governo è caduto perché l’Iva aumenterà? La seconda opzione è più convincente, ma poco importa. Il punto è che, a meno di miracoli all’italiana o di improbabili accordi con Bruxelles, dal primo gennaio 2020 l’imposta sui consumi salirà. E non di poco: l’aliquota ridotta passerà dal 10 al 13% e quella ordinaria dal 22 al 25,2%, per poi arrivare al 26,5% nel 2021.

Di chi è la colpa? Salvini e Di Maio hanno già iniziato a scaricare il barile sul Pd e su Forza Italia: “È un regalino ricevuto in eredità dai governi precedenti”, ripete da un anno e mezzo il leader della Lega. In linea di principio non ha torto: le clausole di salvaguardia furono introdotte dal governo Berlusconi nel 2011 per garantire all’Europa che l’Italia avrebbe rispettato gli impegni sui conti pubblici. Da allora, ogni anno l’esecutivo di turno le ha disinnescate (compensandole con tagli alla spesa o maggiori entrate fiscali), ma nessuno le ha mai cancellate: ogni volta la minaccia viene solo rinviata di 12 mesi.


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