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- Scritto da Antonio Rei
Giuseppe Conte è sempre stato più vicino ai 5 Stelle che alla Lega: lo sanno tutti, fin dalla nascita del governo. Nessuno però immaginava che in meno di un anno il Professore campano sarebbe diventato il poliziotto cattivo di Luigi Di Maio contro Matteo Salvini. Negli ultimi giorni il Presidente del Consiglio ha scaricato il Carroccio su tre fronti decisivi: il destino di Armando Siri, sottosegretario leghista ai Trasporti indagato per corruzione, la flat tax e le autonomie regionali.
In questo modo, il capo del Governo ha alleggerito la pressione sui pentastellati, che in vista delle elezioni del 26 maggio possono abbassare i toni e fingere una tregua, lasciando in mano alla Lega il cerino di un’eventuale (e probabile) crisi post-europee.
Lo scontro più agguerrito si è consumato sul caso Siri. La settimana scorsa Conte ha annunciato che questo martedì, in Consiglio dei ministri, proporrà la revoca dell’incarico al sottosegretario leghista, a cui per settimane i 5 Stelle hanno chiesto invano un passo indietro. Si tratta di una soluzione politica “assolutamente sganciata dal caso giudiziario: non mi voglio ergere a giudice”, ha precisato Conte, anche per tutelare la propria immagine di avvocato garantista.
A nulla è servita la dichiarazione arrivata poco prima dallo stesso Siri, che si era nuovamente proclamato innocente, mettendosi a disposizione dei magistrati e garantendo le proprie dimissioni entro 15 giorni se la Procura non lo avesse ascoltato. A bocciare l’ipotesi di rinvio è stato ancora una volta il Presidente del Consiglio: “Le dimissioni o si danno o non si danno”.
Per evitare una crisi di governo immediata, Salvini ha reagito con sorprendente moderazione: “I magistrati sono pronti a incontrare Siri – ha detto il leader leghista – e lui dimostrerà la totale estraneità ad una vicenda surreale dove due tizi parlavano di lui senza che sia stato fatto nulla. In un Paese civile funziona così. Lascio a Conte e a Siri le loro scelte. A me va bene qualunque cosa, se me la spiegano”.
In privato, però, Salvini si è infuriato con Conte, perché la Lega aveva sempre escluso le dimissioni di Siri e non si aspettava che il Premier intervenisse in prima persona per risolvere lo scontro a favore dei 5 Stelle. Non avendo alcuna conoscenza delle istituzioni che rappresenta, forse il capo del Carroccio non sapeva che il Presidente del Consiglio nomina i sottosegretari, è responsabile delle loro azioni e ha anche il potere di rimuoverli. Gli basta accordarsi con il ministro competente (in questo caso il grillino Toninelli) e “sentire” il Consiglio dei ministri prima di portare il decreto di revoca al presidente della Repubblica per la firma. Il voto del Cdm è possibile, ma non è previsto, né in alcun modo vincolante per il capo del Governo.
Risultato: visto Siri non si è dimesso, lo fa fuori Conte. Secondo molti retroscena, per questa mossa il Presidente del Consiglio sarebbe finito nel mirino di Salvini, che avrebbe in mente di sostituirlo dopo il 26 maggio, in caso di vittoria della Lega alle europee.
In realtà, al momento questo scenario è meno verosimile di un ritorno alle urne a settembre-ottobre, perché il M5S – che rispetto al Carroccio ha ancora il doppio dei seggi in Parlamento – non accetterebbe mai di farsi guidare da un Premier d’inclinazione leghista. Senza contare poi che un cambio della guardia a Palazzo Chigi non risolverebbe nessuno dei problemi di questa maggioranza.
L’incognita che più minaccia il futuro dell’alleanza pentaleghista, infatti, non è politica, ma contabile. In autunno bisognerà scrivere una delle manovre finanziarie più complicate di sempre, bilanciando un aumento perlomeno selettivo dell’Iva (praticamente inevitabile) con le vecchie promesse leghiste sulla flat tax (praticamente irrealizzabile).
Ancora una volta è stato Conte a mettere le mani avanti: “Ovvio che ci piacerebbe realizzare tutto a un tratto una misura omogenea di pressione fiscale molto bassa – ha detto – ma ragionevolmente questo non sarà possibile: teniamo a mantenere i conti in ordine”. Niente flat tax, dunque, ma solo impegni generici su “misure a sostegno delle famiglie” e “riforma del Fisco”.
Infine, per completare l’opera, il Premier ha tirato il freno a mano anche su un’altra misura-bandiera della Lega, l’autonomia regionale: “Andiamo avanti, perché quando prendo un impegno lo porto a termine, ma bisogna garantire la coesione nazionale, assicurare livelli essenziali di prestazione a tutti ed evitare che questa riforma contribuisca ad aumentare il divario tra Nord e Sud”. Anche perché è al Sud che i 5 Stelle hanno il loro principale bacino elettorale.
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- Scritto da Carlo Musilli
Come suo fratello minore, il reddito di cittadinanza, in questi giorni anche la pensione di cittadinanza si sta rivelando molto diversa dalle attese. Per mesi, dalla campagna elettorale del 2018 fino al varo della manovra di fine anno, i due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno sbandierato l’intenzione di alzare le pensioni minime, “perché così è un’indecenza”.
A intestarsi la battaglia sono stati soprattutto i grillini, visto che lo strumento concepito per centrare l’obiettivo era appunto la pensione di cittadinanza, che avrebbe dovuto garantire un’integrazione fino a 780 euro mensili. Come il reddito di cittadinanza, ma per i pensionati.
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- Scritto da Carlo Musilli
La recita sembra ormai alle battute finali. Dopo mesi passati a fingere unità, negli ultimi tempi il governo gialloverde rivela ogni giorno di più la profondità della frattura che lo divide. Questo non significa che la fine sia questione di giorni, perché nessuno si sognerebbe di mandare tutto all’aria poco prima delle europee. Superata la boa del 26 maggio, però, ogni momento potrebbe essere quello giusto. E le due anime della maggioranza hanno già iniziato a scambiarsi il cerino della crisi.
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- Scritto da Carlo Musilli
Come un sogno ricorrente dal 1994 – quando ne parlò per la prima volta Silvio Berlusconi – la Flat Tax torna a illuminare il cielo leghista. Forse perché a corto di argomenti con cui impressionare l’elettorato, giorni fa Matteo Salvini ha rilanciato il progetto fiscale più iniquo della storia repubblicana: “Noi non abbiamo smesso di lavorare” sulla Flat Tax “giorno e notte – ha detto il leader del Carroccio – In questa manovra economica siamo già riusciti ad avvantaggiare commercianti, partite Iva, imprenditori e liberi professionisti: nel 2019 vogliamo entrare anche nelle case delle famiglie e dei lavoratori dipendenti italiani”.
In sostanza, dopo le novità introdotte quest’anno (aliquota unica al 15% per le partite Iva fino a 65mila euro annui e al 20% fra 65mila e 100mila), la Lega dice di voler estendere la tassa piatta anche alla maggioranza dei contribuenti italiani rimasta finora esclusa dal provvedimento.
Quanto costa? Secondo calcoli circolati a inizio febbraio e inizialmente attribuiti al ministero dell’Economia - che poi ha smentito la paternità delle stime - in tutto la nuova Flat Tax costerebbe circa 60 miliardi. La spesa sarebbe così suddivisa: 40 miliardi per la fase uno, con l’aliquota unica al 15% per redditi fino a 50mila euro lordi l’anno; 10 miliardi per la fase due, che prevede l’innalzamento del limite di reddito da 50mila a 80 mila euro; altri 10 miliardi per la fase tre, ossia l’introduzione di una tassazione unica al 20% per i redditi superiori a 80mila euro lordi l’anno.
Ora, 60 miliardi sono una cifra abnorme: l’equivalente di due manovre finanziarie corpose, o, se si preferisce, 10 volte il reddito di cittadinanza. Fantascienza contabile.
La Lega sostiene però che il conto finale si potrebbe mantenere entro il limite dei 12-13 miliardi. Per ridimensionare i costi in modo così drastico, Armando Siri, il demiurgo leghista della Flat Tax, progetta di applicare la tassa piatta al totale dei redditi familiari e non più a quelli individuali. In questo modo la platea dei beneficiari si ridurrebbe di parecchio, trasformando la Flat Tax in qualcosa di molto diverso dalla misura di cui si parla nel contratto di governo.
Tuttavia, anche 12 miliardi sarebbero una cifra proibitiva per il bilancio dello Stato. Siri lo sa benissimo, per questo sta valutando di finanziare la misura con la cancellazione almeno parziale degli 80 euro renziani, che costano circa 10 miliardi l’anno. Questa soluzione rischia però di rivelarsi un boomerang politico, perché abbasserebbe la convenienza della tassa piatta e sarebbe percepita come una nuova imposizione fiscale.
Insomma, la matassa è ancora piuttosto ingarbugliata. Non a caso il ministro Tria, nell’ultimo question time al Senato, ha elegantemente glissato sulla vicenda Flat Tax, rimandando il dibattito alla prossima legge di Bilancio.
Peccato che in autunno ci sarà ben altro di cui discutere sul piano fiscale. Governo e maggioranza fingono di non ricordare che con l’ultima manovra hanno aumentato a dismisura gli importi delle clausole di salvaguardia sull’Iva: la somma è passata da 13,7 a 23,1 miliardi sul 2020 e da 15,6 a 28,7 miliardi sul 2021, per un conto di 51,8 miliardi in due anni. Se non troveremo questi soldi – com’è probabile – l’aliquota ridotta dell’Iva passerà dal 10 al 13% nel 2020, mentre quella ordinaria, oggi al 22%, salirà al 25,2% nel 2020 e al 26,5% nel 2021. A uscirne peggio saranno ancora una volta i meno abbienti, visto che l’Iva è per definizione un’imposta non progressiva.
Uno scenario a dir poco grigio, che rischia di rivelarsi decisivo addirittura per la tenuta della maggioranza. Siccome gli aumenti automatici dell’imposta sui consumi saranno quasi impossibili da scongiurare, è verosimile che Salvini deciderà di portare il Paese alle urne prima di mettere mano alla nuova legge di Bilancio. Quando c’è da sferrare un colpo al Paese, il momento migliore non è certo subito prima delle elezioni. È subito dopo.
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- Scritto da Antonio Rei
Dopo la Tav, arriva un altro tema ad alzare la tensione nella maggioranza gialloverde. La nuova faglia tra Lega e Movimento 5 Stelle si è aperta intorno all’accordo che l’Italia firmerà con la Cina durante la visita a Roma del presidente Xi Jinping, in calendario dal 21 al 23 marzo.
L’intesa riguarda la cosiddetta “Nuova via della seta” (o “Belt & Road Initiative”), il gigantesco progetto lanciato da Pechino nel 2013 per creare una rete d’infrastrutture fra Estremo Oriente, Europa e Africa Orientale. Il fulcro della nuova architettura sarebbe naturalmente la Cina, che quindi, a suon d’investimenti - sono già stati stanziati 100 miliardi - finirebbe col ridefinire il sistema di rapporti economici e geopolitici a livello globale.
Nemmeno a dirlo, il progetto è inviso agli Stati Uniti, il cui ruolo su scala planetaria rischia di uscire drammaticamente ridimensionato.
La Commissione europea è più salomonica: non vuole compromettere la possibilità di redditizi accordi economici con i cinesi, ma al tempo stesso non può permettersi d’irrigidire i rapporti con gli Usa, già tesi più che mai sul versante commerciale. La settimana scorsa Bruxelles ha ricordato che Pechino è un “partner” dell'Ue, ma anche un “concorrente economico” e un “rivale sistemico”, per questo serve “piena unità” tra i Paesi europei.
L’avvertimento dell’Esecutivo comunitario era chiaramente indirizzato all’Italia, che sta per diventare il primo Paese del G7 ad appoggiare formalmente l’espansionismo cinese. In questo modo, secondo il Financial Times, si rischia di compromettere la pressione degli Stati Uniti nei confronti della Cina sui dazi e di danneggiare il tentativo di Bruxelles di trovare un percorso comune nell’Ue per gestire gli investimenti cinesi.
Il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, ha cercato di minimizzare la faccenda, parlando di “tempesta in un bicchiere d’acqua”. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha assicurato invece che l’adesione dell’Italia al progetto della Via della Seta avverrà “con tutte le cautele”. In precedenza il leader della Lega, Matteo Salvini, aveva paventato il rischio di una “colonizzazione” cinese dell’Italia, improvvisandosi baluardo della collocazione atlantica sullo scacchiere globale.
Di Maio non ha voluto essere da meno: “Gli Usa non hanno ragione di preoccuparsi, restano il nostro principale alleato - ha detto il leader pentastellato - ma se Trump diceva America First, io dico Italia First. Vogliamo tutelare gli interessi dei nostri imprenditori ed esportare il Made in Italy nel mondo”.
Alla fine, dopo l’ennesimo vertice a Palazzo Chigi, il Governo ha comunicato di aver risanato le fratture sugli accordi con Pechino. Il vero problema è che nessuno ha ancora capito cosa ci sarà scritto nel memorandum of understanding che Conte firmerà con Xi Jinping. È probabile che si tratterà di un accordo quadro, infarcito più di buone intenzioni che di impegni concreti. Sarà quindi un’intesa di natura politica e per i dettagli bisognerà attendere martedì, quando Conte, nel corso dell’informativa sul Consiglio europeo, dovrebbe riferire alla Camera le intenzioni del governo con la Cina.
Oltre alle affermazioni ufficiali, non è però difficile prevedere che la visita del leader cinese a Roma sarà anche l’occasione di stringere contatti informali funzionali a partnership future, considerato che Xi Jinping arriverà accompagnato da uno stuolo di imprenditori.
Il capitolo più delicato è quello delle telecomunicazioni: la prima bozza di accordo conteneva una sezione tlc (scritta da Pechino), che però è scomparsa dalle versioni successive. Quasi certamente hanno pesato le pressioni di Washington, impegnata in una battaglia senza quartiere contro il colosso cinese Huawei, principale concorrente dei giganti Usa nella corsa al 5G.
Ma al di là dei dettagli, al momento a preoccupare di più è la leggerezza con cui diversi esponenti del governo parlano del progetto di accordo con la Cina. La sensazione è che la maggior parte di loro non si renda pienamente conto delle implicazioni geopolitiche di questa storia.