La recita sembra ormai alle battute finali. Dopo mesi passati a fingere unità, negli ultimi tempi il governo gialloverde rivela ogni giorno di più la profondità della frattura che lo divide. Questo non significa che la fine sia questione di giorni, perché nessuno si sognerebbe di mandare tutto all’aria poco prima delle europee. Superata la boa del 26 maggio, però, ogni momento potrebbe essere quello giusto. E le due anime della maggioranza hanno già iniziato a scambiarsi il cerino della crisi.

Come un sogno ricorrente dal 1994 – quando ne parlò per la prima volta Silvio Berlusconi – la Flat Tax torna a illuminare il cielo leghista. Forse perché a corto di argomenti con cui impressionare l’elettorato, giorni fa Matteo Salvini ha rilanciato il progetto fiscale più iniquo della storia repubblicana: “Noi non abbiamo smesso di lavorare” sulla Flat Tax “giorno e notte – ha detto il leader del Carroccio – In questa manovra economica siamo già riusciti ad avvantaggiare commercianti, partite Iva, imprenditori e liberi professionisti: nel 2019 vogliamo entrare anche nelle case delle famiglie e dei lavoratori dipendenti italiani”.

 

In sostanza, dopo le novità introdotte quest’anno (aliquota unica al 15% per le partite Iva fino a 65mila euro annui e al 20% fra 65mila e 100mila), la Lega dice di voler estendere la tassa piatta anche alla maggioranza dei contribuenti italiani rimasta finora esclusa dal provvedimento.

 

Quanto costa? Secondo calcoli circolati a inizio febbraio e inizialmente attribuiti al ministero dell’Economia - che poi ha smentito la paternità delle stime - in tutto la nuova Flat Tax costerebbe circa 60 miliardi. La spesa sarebbe così suddivisa: 40 miliardi per la fase uno, con l’aliquota unica al 15% per redditi fino a 50mila euro lordi l’anno; 10 miliardi per la fase due, che prevede l’innalzamento del limite di reddito da 50mila a 80 mila euro; altri 10 miliardi per la fase tre, ossia l’introduzione di una tassazione unica al 20% per i redditi superiori a 80mila euro lordi l’anno.

 

Ora, 60 miliardi sono una cifra abnorme: l’equivalente di due manovre finanziarie corpose, o, se si preferisce, 10 volte il reddito di cittadinanza. Fantascienza contabile.

 

La Lega sostiene però che il conto finale si potrebbe mantenere entro il limite dei 12-13 miliardi. Per ridimensionare i costi in modo così drastico, Armando Siri, il demiurgo leghista della Flat Tax, progetta di applicare la tassa piatta al totale dei redditi familiari e non più a quelli individuali. In questo modo la platea dei beneficiari si ridurrebbe di parecchio, trasformando la Flat Tax in qualcosa di molto diverso dalla misura di cui si parla nel contratto di governo.

 

Tuttavia, anche 12 miliardi sarebbero una cifra proibitiva per il bilancio dello Stato. Siri lo sa benissimo, per questo sta valutando di finanziare la misura con la cancellazione almeno parziale degli 80 euro renziani, che costano circa 10 miliardi l’anno. Questa soluzione rischia però di rivelarsi un boomerang politico, perché abbasserebbe la convenienza della tassa piatta e sarebbe percepita come una nuova imposizione fiscale.

 

Insomma, la matassa è ancora piuttosto ingarbugliata. Non a caso il ministro Tria, nell’ultimo question time al Senato, ha elegantemente glissato sulla vicenda Flat Tax, rimandando il dibattito alla prossima legge di Bilancio.

 

Peccato che in autunno ci sarà ben altro di cui discutere sul piano fiscale. Governo e maggioranza fingono di non ricordare che con l’ultima manovra hanno aumentato a dismisura gli importi delle clausole di salvaguardia sull’Iva: la somma è passata da 13,7 a 23,1 miliardi sul 2020 e da 15,6 a 28,7 miliardi sul 2021, per un conto di 51,8 miliardi in due anni. Se non troveremo questi soldi – com’è probabile – l’aliquota ridotta dell’Iva passerà dal 10 al 13% nel 2020, mentre quella ordinaria, oggi al 22%, salirà al 25,2% nel 2020 e al 26,5% nel 2021. A uscirne peggio saranno ancora una volta i meno abbienti, visto che l’Iva è per definizione un’imposta non progressiva.

 

Uno scenario a dir poco grigio, che rischia di rivelarsi decisivo addirittura per la tenuta della maggioranza. Siccome gli aumenti automatici dell’imposta sui consumi saranno quasi impossibili da scongiurare, è verosimile che Salvini deciderà di portare il Paese alle urne prima di mettere mano alla nuova legge di Bilancio. Quando c’è da sferrare un colpo al Paese, il momento migliore non è certo subito prima delle elezioni. È subito dopo.   

Dopo la Tav, arriva un altro tema ad alzare la tensione nella maggioranza gialloverde. La nuova faglia tra Lega e Movimento 5 Stelle si è aperta intorno all’accordo che l’Italia firmerà con la Cina durante la visita a Roma del presidente Xi Jinping, in calendario dal 21 al 23 marzo.

 

L’intesa riguarda la cosiddetta “Nuova via della seta” (o “Belt & Road Initiative”), il gigantesco progetto lanciato da Pechino nel 2013 per creare una rete d’infrastrutture fra Estremo Oriente, Europa e Africa Orientale. Il fulcro della nuova architettura sarebbe naturalmente la Cina, che quindi, a suon d’investimenti - sono già stati stanziati 100 miliardi - finirebbe col ridefinire il sistema di rapporti economici e geopolitici a livello globale.

 

Nemmeno a dirlo, il progetto è inviso agli Stati Uniti, il cui ruolo su scala planetaria rischia di uscire drammaticamente ridimensionato.

 

La Commissione europea è più salomonica: non vuole compromettere la possibilità di redditizi accordi economici con i cinesi, ma al tempo stesso non può permettersi d’irrigidire i rapporti con gli Usa, già tesi più che mai sul versante commerciale. La settimana scorsa Bruxelles ha ricordato che Pechino è un “partner” dell'Ue, ma anche un “concorrente economico” e un “rivale sistemico”, per questo serve “piena unità” tra i Paesi europei.

 

L’avvertimento dell’Esecutivo comunitario era chiaramente indirizzato all’Italia, che sta per diventare il primo Paese del G7 ad appoggiare formalmente l’espansionismo cinese. In questo modo, secondo il Financial Times, si rischia di compromettere la pressione degli Stati Uniti nei confronti della Cina sui dazi e di danneggiare il tentativo di Bruxelles di trovare un percorso comune nell’Ue per gestire gli investimenti cinesi.

 

Il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, ha cercato di minimizzare la faccenda, parlando di “tempesta in un bicchiere d’acqua”. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha assicurato invece che l’adesione dell’Italia al progetto della Via della Seta avverrà “con tutte le cautele”. In precedenza il leader della Lega, Matteo Salvini, aveva paventato il rischio di una “colonizzazione” cinese dell’Italia, improvvisandosi baluardo della collocazione atlantica sullo scacchiere globale.

 

Di Maio non ha voluto essere da meno: “Gli Usa non hanno ragione di preoccuparsi, restano il nostro principale alleato - ha detto il leader pentastellato - ma se Trump diceva America First, io dico Italia First. Vogliamo tutelare gli interessi dei nostri imprenditori ed esportare il Made in Italy nel mondo”.

 

Alla fine, dopo l’ennesimo vertice a Palazzo Chigi, il Governo ha comunicato di aver risanato le fratture sugli accordi con Pechino. Il vero problema è che nessuno ha ancora capito cosa ci sarà scritto nel memorandum of understanding che Conte firmerà con Xi Jinping. È probabile che si tratterà di un accordo quadro, infarcito più di buone intenzioni che di impegni concreti. Sarà quindi un’intesa di natura politica e per i dettagli bisognerà attendere martedì, quando Conte, nel corso dell’informativa sul Consiglio europeo, dovrebbe riferire alla Camera le intenzioni del governo con la Cina.

 

Oltre alle affermazioni ufficiali, non è però difficile prevedere che la visita del leader cinese a Roma sarà anche l’occasione di stringere contatti informali funzionali a partnership future, considerato che Xi Jinping arriverà accompagnato da uno stuolo di imprenditori.

 

Il capitolo più delicato è quello delle telecomunicazioni: la prima bozza di accordo conteneva una sezione tlc (scritta da Pechino), che però è scomparsa dalle versioni successive. Quasi certamente hanno pesato le pressioni di Washington, impegnata in una battaglia senza quartiere contro il colosso cinese Huawei, principale concorrente dei giganti Usa nella corsa al 5G.

 

Ma al di là dei dettagli, al momento a preoccupare di più è la leggerezza con cui diversi esponenti del governo parlano del progetto di accordo con la Cina. La sensazione è che la maggior parte di loro non si renda pienamente conto delle implicazioni geopolitiche di questa storia. 

Come su Ilva, Tap e variante di valico, anche sulla Tav il vincitore è Matteo Salvini. In piena coerenza con leggi e accordi internazionali, partono oggi i bandi di gara per la linea ad alta velocità Torino-Lione. Le barricate e i rinvii promessi dal Movimento 5 Stelle sono rimasti nel regno della fantasia: se negli ultimi mesi Luigi Di Maio non si fosse minimamente occupato di Tav, la procedura sarebbe partita esattamente nel modo in cui è partita oggi.

 

Come si spiega allora la pantomima su giornali e tv? Puro maquillage politico per tenere in piedi quel che resta della maggioranza almeno fino alle elezioni europee. È per questo che Di Maio mette in scena un’esultanza da commediante (“abbiamo guadagnato sei mesi”) e Salvini evita di sbugiardarlo (“non ha vinto nessuno”).

In realtà, la procedura avviata oggi è esattamente quella suggerita da Telt – la società italo-francese che realizza l’opera – nella lettera del 18 dicembre in cui spiegava come evitare di perdere i finanziamenti europei.

 

Le leggi francesi prevedono che tutti gli appalti inizino con una fase di sei mesi durante i quali il committente sonda la disponibilità delle varie aziende a partecipare alla gara. Telt, che è una società di diritto francese, comincerà a fare esattamente questo. Peraltro, i bandi in questione riguardano soltanto i 45 chilometri della galleria a doppia canna da scavare sul versante francese del tunnel di base. Quelli da un miliardo per la parte italiana dovranno essere lanciati a giugno con la stessa procedura.

 

Fin qui, insomma, la tabella di marcia prevista per la Tav è stata rispettata come da accordi. E non poteva essere altrimenti, perché in caso contrario non sarebbe arrivata la prossima tranche da 300 milioni dei finanziamenti europei (che al momento coprono il 40% dei costi).

 

I Cinque Stelle assicurano che il progetto sarà “integralmente rivisto” e che si faranno “valere in Parlamento”, ma è un bluff scoperto. Da solo, il Movimento non ha il potere di modificare per legge il trattato che regola la Tav. Per farlo gli servirebbe un nuovo accordo con la Francia o perlomeno una maggioranza parlamentare favorevole allo strappo. E nessuno dei due scenari ha qualcosa in comune con il mondo reale.

 

L’unico dato politicamente rilevante di tutta questa storia è che le decisioni vere sulla Tav - quelle operative - si prenderanno dopo le elezioni europee. Nelle prossime settimane la Lega avrà così il tempo di portare a casa la legge sulla legittima difesa e il no all’autorizzazione a procedere contro Salvini. Il Movimento 5 Stelle, invece, proverà ad appuntarsi al petto la coccarda del salario minimo, sperando che questo successo – insieme ai primi soldi in arrivo con il reddito di cittadinanza – gli permetta di recuperare in parte il terreno perduto.

 

Se però i sondaggi attuali saranno confermati, il voto di maggio certificherà che i rapporti di forza fra Lega e M5S si sono invertiti anche sul piano elettorale. A quel punto, con il Carroccio primo partito, Conte non avrà più alcun appiglio per fermare la Tav. Di Maio, invece, potrà scegliere fra due alternative: far cadere il governo (poco probabile, vista la disponibilità dei grillini al compromesso pur di conservare il seggio) oppure piegarsi e presentare l’opera che sarà realizzata come una “mini Tav”. In fondo, “tirare a campare è meglio che tirare le cuoia”. Nella Terza Repubblica come nella Prima.

“Siamo oltre 250mila persone”, dicono gli organizzatori. Sui numeri esatti c’è il solito balletto di opinioni divergenti, ma stavolta nessuno può contestare che in strada sia scesa davvero una marea umana. Quella che, a Milano, ha dato vita alla manifestazione contro il razzismo “People, prima le persone”. Si tratta di “una grande iniziativa pubblica - si legge nell’appello collettivo - per dire che vogliamo un mondo che metta al centro le persone. La politica della paura e la cultura della discriminazione viene sistematicamente perseguita per alimentare l'odio e creare cittadini e cittadine di serie A e di serie B. Per noi, invece, il nemico è la diseguaglianza, lo sfruttamento, la condizione di precarietà”.


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