Le foibe sono una realtà storica che non può essere negata né giustificata. Questo non è mai stato in discussione. Al momento, però, il problema in Italia è un altro. E cioè che alcuni le stanno usando per legittimare il revisionismo storico. Un’operazione vile, che nasce dalla malafede, si alimenta di ignoranza e genera la più bassa forma di propaganda politica.

 

È esattamente questo che ha fatto Matteo Salvini: “Trieste, spettacolo unico - ha twittato il vicepremier leghista - Oggi qui per onorare il sacrificio di migliaia di connazionali torturati, massacrati e gettati nelle foibe, spesso ancora vivi, dai comunisti. La colpa? Essere Italiani Chi nega uccide due volte. Noi non dimentichiamo”.  

 

E ancora: “I bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali. Non esistono martiri di serie A e vittime serie B. Non esiste un però per Auschwitz e un però a Basovizza. Sono criminali gli uni e sono criminali gli altri”.

 

Mettere sullo stesso piano Auschwitz e le foibe è un’aberrazione storica. Non si vuole stabilire il giudizio della storia solo sulla contabilità dei morti, ma nemmeno è possibile una equiparazione tra aggressori e aggrediti, tra chi combatteva per trasformare il mondo in una colonia del Terzo Reich e chi si batteva per liberare l’Europa.

 

Il paragone che fa Salvini è politicamente ignobile e storicamente inappropriato, punto è che stiamo parlando di due eventi storici incredibilmente diversi fra loro e confonderli a scopi propagandistici è ignobile. Le foibe - lo abbiamo detto - non vanno negate né giustificate, ma questo non significa che sia lecito dipingerle come ciò che non sono state. E non sono state Auschwitz, questo è certo. Non solo per la dimensione che ebbero ma proprio perché ciò che ispirò una vendetta non può essere paragonato a ciò che ispirò il terrore su scala continentale.

 

Salvini ha poca dimestichezza con la storia, dunque gli proponiamo un breve ripasso. Nel 1941 l’Italia invase la Jugoslavia, annettendo con la violenza la provincia di Lubiana. L’esercito italiano si macchiò di ogni nefandezza ai danni delle popolazioni slave - omicidi, torture, stupri, devastazioni - contribuendo in modo decisivo alla dissoluzione dello Stato jugoslavo. Mussolini e il suo regime consideravano gli slavi una razza inferiore, nei confronti della quale ogni comportamento era permesso. Così come in Abissinia e in Libia, le atrocità italiane venivano orgogliosamente esposte dall’esercito mussoliniano.

 

È in questo contesto storico che vanno inquadrate le stragi delle foibe. Non nacquero dal nulla, ma dall’odio di una popolazione offesa, che aveva motivo di vendicarsi per ciò che aveva subito dagli italiani, ma scelse di macchiarsi della colpa di una rappresaglia, punendo non gli italiani colpevoli, ma gli italiani e basta. Il risultato fu la morte di circa mille persone.

 

Lo sterminio sistematico del popolo ebraico, invece, fu qualcosa di molto diverso. Il nazismo nacque in tempo di pace come ideologia di morte: la teoria della razza è espressa in modo chiaro nel Mein Kampf di Hitler e la soluzione finale (1941-1945) ne fu logica conseguenza. Il risultato fu la morte di circa sei milioni di persone. Lo sterminio degli ebrei, degli slavi e degli zingari non era un prodotto dell’eccesso guerriero, ma l’applicazione fedele di quanto il nazifascismo si proponeva senza infingimenti.

 

Insomma, le stragi nelle foibe furono un crimine orrendo commesso nell’ambito di una guerra, ma è folle equipararle a uno sterminio di massa. Chi lo fa è in malafede e trae profitto dal solleticare la parte peggiore del patriottismo all’italiana. Quello dei vigliacchi che si rifugiano nel vittimismo per non fare i conti con le proprie colpe. 

 

La sfortuna finale delle persone a bordo della Sea Watch 3 è di essere finite in acque italiane a pochi mesi dalle elezioni europee. In altri periodi sarebbero probabilmente sbarcate in Italia nel silenzio e nell’indifferenza generale, come fino a poco tempo fa accadeva quasi sempre a chi si trovava nelle loro stesse condizioni. Ora invece è diverso.

 

Con l’appuntamento elettorale in arrivo, Matteo Salvini ha più bisogno che mai di premere sull’acceleratore della propaganda. E in questo è inimitabile. Non si lascia frenare da alcuno scrupolo morale, nemmeno da quel minimo senso di decenza che ci si aspetta di trovare in chiunque, figurarsi in un ministro della Repubblica.

 

In spregio a qualsiasi principio di umanità, il ministro degli Interni italiano fa propaganda sulla pelle degli ultimi. Parliamo di 47 persone in tutto, fra cui 13 minori non accompagnati. “I migranti sono stremati e debilitati - spiegano i volontari della Ong - raccontano dei mesi trascorsi nelle prigioni libiche e riportano traumi seri per gli abusi e le torture subite”.

 

In realtà, negare a queste persone l’approdo in Italia è illegale. In base alla Convenzione di Amburgo del 1979 e ad altre norme sul soccorso marittimo, gli sbarchi devono avvenire nel primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. E la Libia, è evidente, non può essere considerata un porto sicuro.

 

Il problema è che la legge non interessa a nessuno, perché non è solo l’Italia a violarla. Di fronte ai rimproveri che arrivano dalle altre capitali europee, Salvini ha buon gioco a rinfacciare all’Ue di aver lasciato sola l’Italia e di non aver onorato gli accordi sui ricollocamenti. Su questo ha ragione, non si discute. A questo punto però la domanda è un’altra: il comportamento ignobile dell’Unione europea nei confronti dell’Italia giustifica la crudeltà dell’Italia nei confronti di chi è sulla Sea Watch 3? La risposta è no, ovviamente. Da nessun punto di vista.

 

Questa linea sarebbe inaccettabile anche se portasse un tornaconto politico sul piano internazionale, ma non è nemmeno questo il caso. L’atteggiamento del governo italiano non sta affatto costringendo gli altri Paesi a prendere atto del problema e a darsi da fare. Al contrario, sta irrigidendo le posizioni di quelli che dovrebbero essere i nostri principali alleati, aumentando ancora di più l’isolamento dell’Italia in Europa. Respingere le navi delle Ong, insomma, non ci avvicina affatto a una soluzione, ma rende la questione ancora più difficile da affrontare. È significativo che, in Europa, i migliori amici di Salvini siano Orban e la compagnia cantante di Visegrad, cioè i Paesi più nazionalisti e ottusi di tutta l’Unione, che mai e poi mai accetteranno alcun piano di ricollocamento comunitario.  

 

Ma se la strategia salviniana non ha alcun senso in termini di politica estera, è innegabile che sia efficacissima sul piano della propaganda. La retorica dell’uomo forte, del Capitano che tira dritto (per usare una delle tante espressioni mussoliniane tornate in voga) piace moltissimo a una larga fetta di elettorato. Del resto, una mobilità elettorale come quella innescata dalla Lega negli ultimi 10 mesi non si era mai vista nella storia della Repubblica: il partito di Salvini ha più che raddoppiato i consensi di cui gode nel Paese, passando dal 17% incassato alle politiche del 4 marzo 2018 all’attuale 35% registrato dai sondaggi, punto più punto meno.

 

La Lega è diventata così di gran lunga la lista numero uno, distanziando di parecchio il Movimento 5 Stelle, che pure alle ultime elezioni aveva preso il doppio dei voti. Ora, perché mai Salvini dovrebbe modificare una linea di condotta così fertile sul piano del consenso? In teoria, potrebbe farlo perché salvare vite è meglio che averle sulla coscienza. Ma pare che questo non gli interessi.

Sono morte in mare 117 persone che avremmo potuto salvare. È solo questo il punto, il resto non conta. Ammettiamo pure che l’Italia non avesse l’obbligo di legge d’intervenire (e ce l’aveva). Ammettiamo che esistesse una Guardia Costiera libica in grado di operare al posto nostro (e non c’era). Ammettiamo che tutte le Ong siano delle associazioni a delinquere da combattere al pari degli scafisti (e non lo sono). Ammettiamo che su quella nave ci fossero solo assassini e stupratori smaniosi di venire a delinquere in Italia (e non era così). Ammettiamo che tutto quello che dice Salvini sia vero (ed è un gigantesco ammasso di bugie).

 

Anche così, la questione non cambia. Potevamo scegliere se salvare 120 persone oppure rimanere fermi: siamo rimasti fermi e 117 sventurati sono morti in acqua.

 

L’inazione non è il contrario dell’azione, ma una scelta, e come tale implica delle responsabilità. Chi ha il potere di salvare qualcuno e decide di non farlo diventa automaticamente corresponsabile di quella morte, a prescindere da tutto il resto. È un’ovvietà, come dire che la vita umana è un valore assoluto da anteporre a qualsiasi interesse politico, strategico, legale o propagandistico.

 

Purtroppo, queste considerazioni apparentemente così banali non sono condivise dal ministro dell’Interno. Impermeabile a qualsiasi principio di empatia e di umanità, Matteo Salvini ha dimostrato tutto il cinismo di cui è capace: “Sarà una coincidenza - ha detto il leader leghista subito dopo la strage - che da tre giorni c'è una nave di una Ong, proprietà olandese, equipaggio tedesco, che gira davanti alle coste della Libia? Ed è un caso che in questi giorni gli scafisti tornano a far partire barchini, barconi e gommoni mezzi sgonfi che poi affondano e poi si contano i morti e i feriti?”.

 

Lasciamo stare i dubbi sulla fondatezza di queste insinuazioni, che come sempre non sono suffragate da alcuna prova. Facciamo finta che abbia ragione Salvini, che le sue parole siano distillati di verità marchiati a fuoco nel granito. Ma cosa c’entra tutto questo con la vita delle persone su quella barca?

 

“Io non sono stato, non sono e non sarò mai complice dei trafficanti di esseri umani, che con i loro guadagni investono in ARMI e DROGA, e delle Ong che non rispettano regole e ordini - ha aggiunto il ministro via social - e quanto a certi sindaci e governatori di PD e sinistra anziché denunciare la presunta violazione dei ‘diritti dei clandestini’, dovrebbero occuparsi del lavoro e del benessere dei loro cittadini, visto che sono gli italiani a pagare loro lo stipendio”.

 

Siamo all’assurdo, al delirio. Nella logica perversa del fascio-leghismo, salvare 117 persone dall’annegamento non sarebbe stato un gesto di umanità elementare, ma addirittura un atto criminoso, perché avrebbe realizzato i progetti di scafisti e Ong. Come se prendere le distanze dai trafficanti di persone fosse più importante che salvarle, le persone. Come se la morte di 117 esseri umani fosse un prezzo accettabile da pagare pur di non cedere ai ricatti dei libici e impartire loro una lezione.

 

Senza contare che con quegli stessi libici trafficanti di uomini e donne l’Italia è già scesa a patti ai tempi di Minniti - accordi mai rinnegati da Salvini - garantendosi anni di tregua sul fronte degli sbarchi (con buona pace della narrazione leghista) e affollando a dismisura i campi di concentramento costruiti nel paese nordafricano. Ora, se i barconi ricominciano a partire, può voler dire solo una cosa: che i libici vogliono alzare il prezzo.  

 

Da qualsiasi angolazione si veda il problema, come direbbe il poeta, per quanto noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.

Un indecoroso scalpitare di nuovi Fregoli improvvisatisi ministri, con sullo sfondo il circo mediatico, come sempre pronto ad accarezzare lo spettacolo che c’è e quando non c’è ad inventarlo, ha suggellato la cattura e l’arrivo in Italia di Cesare Battisti, latitante da 37 anni. Le scene dei Salvini e dei Buonafede non stupiscono, sebbene risultino ripugnanti per cinismo politicante.

 

Tentare d’intestarsi qualcosa della quale non hanno merito, trasformare in propaganda elettorale una operazione di polizia mentre il loro governo si caratterizza per il massimo livello di docilità verso la criminalità organizzata, è offensivo e paradossale per tutti prima che contrario alle norme del galateo istituzionale. Purtroppo, com’è noto, la cultura politica dei due può essere scritta agevolmente sul retro di un francobollo e il fatto che oggi si trovino nel ruolo di ministri della Repubblica, certifica più di qualunque analisi il livello comatoso della politica italiana.

Più di 30mila? Meno di 20mila? Che fossero una platea da Woodstock o da riunione di condominio, gli italiani scesi in piazza sabato in favore del Tav erano senza dubbio molti meno di quelli che negli ultimi anni si sono sgolati contro la grande opera più inutile, costosa e distruttiva mai progettata in Italia dopo il Ponte sullo Stretto.

 

Ma il balletto dei numeri lascia il tempo che trova. Mai come stavolta, infatti, più che la quantità dei dimostranti conta la loro qualità. Difficile ricordare una manifestazione della società civile con una presenza di politici più ampia e più bipartisan: dal duo inseparabile piddini-forzisti, nostalgici del Patto del Nazareno, fino ai leghisti, passando per Fratelli d’Italia.

 

Ora, è piuttosto kafkiano che un partito di governo, quello di Matteo Salvini, scenda in piazza per avanzare una richiesta al governo medesimo. Il problema del Carroccio è che si ritrova a governare con il Movimento 5 Stelle, da sempre ostile alla Tav e già in subbuglio per essersi dovuto calare le braghe sul Tap (l’infrastruttura che porterà il gas azero in Europa approdando vicino Lecce e che, malgrado gli schiamazzi pentastellati, alla fine si farà).

 

La Torino-Lione rischia perciò di trasformarsi nella dimostrazione più plastica della schizofrenia su cui si fonda il governo gialloverde. Portatori di interessi contrapposti - Nord contro Sud, anziani contro giovani, imprenditori contro disoccupati - Lega e M5S non potranno mai trovare un punto di caduta sulla direzione da imprimere alla strategia per lo sviluppo infrastrutturale del Paese.

 

Su una materia del genere il compromesso è impossibile. Si può dare un colpo al cerchio e uno alla botte con abomini tipo il decreto sicurezza o il reddito di cittadinanza, su cui ciascuna delle due parti acconsente a chiudere un occhio per tenere in piedi la baracca governativa. Ma quando si arriva alla Tav non c’è artificio retorico di Rocco Casalino che tenga: la montagna o la buchi oppure no.

 

Del resto, questa contraddizione era chiara fin dai tempi del contratto di governo: «Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione - si legge nel Sacro Testo - ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Cosa questo significhi non è ancora chiaro.

 

Di fatti, una parte del governo, la Lega, ha già scelto da che parte stare, mentre l’altra, il M5S, si nasconde dietro l’ennesima analisi del rapporto costi-benefici. Uno studio inutile ancor più dell’opera in oggetto - ce n’erano già un’infinità - e che si spiega solo in una logica politica. Non c’è dubbio infatti che l’analisi avrà esito negativo, offrendo al ministro ToninUlla una pezza d’appoggio con cui giustificare il Gran Rifiuto.

 

A quel punto, però, c’è il rischio che Salvini aumenti il pressing per un referendum su base nazionale, che non avrebbe ovviamente alcun senso pratico (andrebbe fatto, semmai, su base regionale) ma metterebbe spalle al muro i pentastellati, che si troverebbero di fronte al più scomodo dei bivi. Da una parte la possibilità di essere sconfessati dal Paese alle urne, dall’altra quella di passare per gli antidemocratici che rifiutano di ascoltare l’opinione dei cittadini. Proprio loro, gli auto-proclamati alfieri della democrazia diretta.

 

Come uscirne? Se non vuole rischiare di far cadere il governo, il Movimento 5 Stelle potrebbe optare per il male minore: una revisione del progetto Tav, con ridimensionamento di opera e costi. Su questo argomento, entro la fine della settimana, andrà in scena molto probabilmente l’ennesimo vertice di maggioranza a Palazzo Chigi. Ma c’è da giurare che non sarà risolutivo. Sul treno dei desideri la posta in gioco è troppo alta.


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