Proprio quando tocca il record di consenso a livello nazionale, la Lega assesta il più tremendo dei colpi al Centro e soprattutto al Sud Italia. La chiamano “autonomia differenziata” o “autonomia rafforzata”, ma sono eufemismi. In realtà, il progetto di riforma dei poteri regionali su cui il governo si sta spaccando non è una devolution vecchio stile, ma qualcosa di molto più pericoloso.

 

La questione è partita da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, che insieme producono più del 50% del Pil nazionale. Basandosi su quanto la Costituzione prevede dal 2001, le tre Regioni del Nord hanno chiesto di poter gestire direttamente materie che oggi vengono amministrate dallo Stato in esclusiva o in concorrenza con le autorità regionali. Nel calderone rientrano fisco e fiscalità locale, sanità, istruzione, infrastrutture, trasporti e beni culturali. In sostanza, le tre grandi regioni del Nord diventerebbero dei piccoli Stati.

 

Se una riforma del genere passasse, verrebbe stabilito per legge che i cittadini possono godere di servizi differenziati a seconda della parte del Paese in cui hanno la fortuna (o la sfortuna) di nascere. Ad esempio, se la spesa sanitaria diventasse totalmente locale, un malato originario della provincia di Potenza non avrebbe mai un accesso alle cure paragonabile a quello di cui può godere un milanese.

 

L’uniformità delle prestazioni sociali è già in molti casi una chimera, ma rimane comunque l’obiettivo a cui lo Stato deve puntare, redistribuendo le risorse accumulate con la fiscalità generale. Le “autonomie rafforzate”, invece, uccidono il potere redistributivo dello Stato centrale, stabilendo che esistono cittadini di serie A (al Nord), di serie B (al Centro) e di serie C (al Sud).

 

È la negazione di ogni principio di solidarietà nazionale. Di fatto, si tratta della “secessione dei ricchi”, come scrivono gli oltre 200 firmatari dell’appello dal titolo “L'autonomia differenziata alle Regioni ricche avvia lo smantellamento dell'Unità d'Italia”. Uno dei pericoli evocati nel testo è la soppressione dell’universalità “dei diritti, trasformati in beni di cui le Regioni potrebbero disporre a seconda del reddito dei loro residenti; per poterne usufruire nella quantità e qualità necessarie, non basterebbe essere cittadini italiani, ma esserlo di una regione ricca, in aperta violazione dei principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione”.

 

Le conseguenze peggiori ricadrebbero naturalmente “sulle regioni del Sud e sugli abitanti non ricchi di tutta Italia, con la progressiva privatizzazione dei servizi – prosegue l’appello – Il Mezzogiorno viene condannato a essere privo di pari riconoscimento della cittadinanza, con ancor maggiore desertificazione degli investimenti e sempre più debole economia. L’autonomia regionale differenziata negherebbe così la solidarietà nazionale, la coesione e i diritti uguali per tutte/i, che garantiscono l’unità giuridica ed economica del paese”.

 

A livello politico, il progetto delle “autonomie differenziate” fa emergere una delle contraddizioni più macroscopiche su cui è nata l’alleanza gialloverde: la Lega ha il suo bacino elettorale di riferimento al Nord e da trent’anni sogna la secessione della parte più produttiva del Paese; il Movimento 5 Stelle, al contrario, è radicato soprattutto al Sud e non può lasciare che le regioni meridionali vengano declassate per legge. Se lo facesse, dilapiderebbe un oceano di consensi, accelerando il proprio declino e consegnando definitivamente l’Italia a Matteo Salvini.

 

Stavolta, però, in gioco non c’è solo il futuro elettorale di questo o quel partito, ma la coesione sociale del Paese intero. Nell’interesse nazionale, c’è da sperare che i pentastellati siano disposti a tutto pur di evitare che questa legge passi. Anche a far cadere il governo

Due sono i dati politici rilevanti del voto abruzzese: la supremazia elettorale della destra, quando unisce tutte le sue componenti, e la disfatta dei 5 stelle. Se per la prima non si può parlare si sorpresa, per il secondo si tratta di ben altro che di un risultato circostanziale di una elezione locale; pare piuttosto esprimere nel migliore dei casi tutte le difficoltà dei grillini (sono ancora quelli?) e, nel peggiore, la fine prematura di un progetto rinnegato dai suoi stessi capi, passati da critici spietati ad ancelle del sistema.

 

Per quanto si possa argomentare o eccepire sulla probità del test, sulla sua valenza numerica generale, il risultato elettorale delle regionali abruzzesi conferma quanto gli istituti di rilevazione dei flussi elettorali vanno sostenendo da tempo: l’avanzata della destra che quando ritrova la sua unità è vincente; la fine annunciata del PD; la delusione totale dell’elettorato 5 stelle.

 

Il risultato fotografa il limite strutturale del movimento. La sua ascesa, concretizzatasi alle ultime politiche, ha imboccato la discesa sin dalla nascita del governo con Salvini. Nella dimostrata frenesia di accomodarsi sulle poltrone governative, il M5S non si pose il problema della composizione del suo voto; eppure, anche solo leggendo i dati degli osservatori elettorali, avrebbe potuto comprendere come almeno un 30% del suo elettorato proveniva dalla sinistra in senso lato.

 

Bastava una semplice operazione matematica: se la destra complessivamente girava intorno alla sua media storica del 35-40% e il PD raccoglieva circa il 20, dopo aver però sfiorato il 40%, il flusso in uscita riguardava il campo della sinistra e del centrosinistra. Il quale, per via della pregiudiziale antifascista, non poteva accettare il governo con la Lega.

 

Erano elettori, cioè, che avevano abbandonato il campo del centrosinistra a causa del suo procedere spedito e con poca decenza nel campo del liberalismo e non importa a quale tradizione si richiami perché è ormai destra liberale sotto tutti i punti di vista: dalle ricette economiche e sociali al modello di architettura istituzionale, dalla concezione liberista del welfare alla politica estera.

 

Una parte di quell’elettorato deluso dal centrosinistra aveva intravisto nel M5S la possibilità di non votare per il PD e dintorni senza per questo lasciare campo libero alla destra. Ma l’alleanza con Salvini e un governo fedele alla prosecuzione delle politiche liberiste con l’aggiunta di tinte razziste e xenofobe, non poteva essere accettata. Quei voti di quella sinistra sparsa sono quindi i primi che sono venuti meno. Insieme a essi, sono mancati all’appello anche quelli di chi riteneva i 5 Stelle un’ondata critica verso il politically correct, presto divenuti bottino della cannibalizzazione da parte della Lega.

 

Lo conferma l’analisi della SWG sui flussi di voto indica che il 46,3% di chi aveva votato 5 stelle non ha votato, il 32,6% ha confermato il suo voto, il 21,1 lo ha cambiato. Tra questi ultimi il 10% ha votato Lega, il 9,7 è tornato a votare PD e l'1,1 ha votato un altra lista.

 

Sin dall’inizio, nell’accettare il patto di governo con la Lega, il M5S metteva in scena due colossali smentite di quanto sempre sostenuto: non governare con alleanze non indicate nel programma (e la Lega veniva esclusa da ogni possibile compartecipazione al governo), non dare vita ad una trattativa all’oscuro dei suoi elettori.

 

Lo stesso gruppo dirigente, diretto da Di Maio, Buonafede e Toninelli, con la regia occulta del Casaleggio figlio, ha dimostrato di non essere in grado, per cultura politica, incapacità di comprendere testo e contesto, scarso spessore personale e comprensione dell’arte di governo, di assumere la guida di un Paese, quale esso sia.

 

Non un dossier sui temi più importanti, non una nomina governativa né un intervento normativo hanno potuto evitare di generare scetticismo generale, come l’affaccio balconato nel quale si dichiarava di aver sconfitto la povertà, rappresentazione massima dell’imbecillità politica e personale.

 

Nell’allontanamento di una parte del suo elettorato sono risultati determinanti le promesse non mantenute: l’annunciata abolizione del Jobs Act mai avvenuta (anzi votarono per il suo mantenimento), l’abolizione della Fornero (mascherata da quota 100 che la peggiora), il no agli F35 (divenuto un Si), la fine delle sanzioni alla Russia (che sono state mantenute con il voto italiano favorevole in sede UE), il blocco della Tap (che è diventata anacronistica) e il no alla Tav (d’improvviso sconveniente), sono state giravolte emblema di un partito che si proponeva di aprire il sistema come una scatoletta e che è finito invece lui sottovuoto.

 

Per non parlare del mancato rigore nella gestione della cosa pubblica, ben rappresentato dall’accettare di governare con un partito che ha rubato alle casse pubbliche 49 milioni di Euro e di sostenere un Ministro degli Interni pluri indagato, quando in precedenza, per molto meno, Di Maio invocava dimissioni per i suoi predecessori.

 

Insieme a questo, l’imperizia dei suoi ministri, il cui “diverso modo di governare” ha dimostrato come l’improvvisazione, l’ignoranza crassa e la mancata conoscenza dei meccanismi istituzionali generi ilarità diffusa, proprio quando la situazione richiederebbe massima serietà e determinazione. Non s’improvvisa una classe dirigente con alcuni click.

 

E’ stato regalata a Salvini la rappresentazione del governo e lui non si è fatto pregare. La cannibalizzazione da parte della Lega, del resto, trae ragione dall’adesione spanciata della compagine pentastellata al programma elettorale leghista, che con il 17% sta operando una trasformazione in negativo del Paese che non era riuscita nemmeno a Berlusconi, che pure aveva 100 parlamentari di maggioranza.

 

Un esempio concreto? Il 15 febbraio il governo firmerà l’intesa per la “regionalizzazione differenziata”di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Poi passerà al voto del Parlamento, a maggioranza assoluta. Solo un Sì o un No, senza emendamenti.  Se passa, per 10 anni non potrà più essere modificata, neppure attraverso un referendum abrogativo. E’ in realtà una vera e sostanziale devolution, che riguarda ben 23 aree di competenza su 23, tutte quelle previste dall’articolo 117 della Costituzione. Devolution totale compreso fisco, istruzione, sanità.

 

Il M5S deve trovare, come nel caso del sacrosanto stop sul Venezuela, la forza per porre un NO senza possibilità di mediazione. Perché il progetto appena descritto è il cuore dell’identità della Lega, nata per fare gli interessi del Nord, delle regioni che vogliono fuoriuscire dal sistema di solidarietà fiscale alla base del dettato costituzionale. Cada pure il governo ma questo pasticcio non deve passare.  Se passa, si rompe l’unità dello Stato, salta il sistema universalistico di welfare che è sostenuto appunto dalla solidarietà fiscale. Le risorse resteranno per 9/10 nella regione dove vengono prodotte e verranno stabiliti “bisogni standard” parametrati sul gettito fiscale. Cioè più servizi dove ci sono più entrate fiscali. Quindi i diritti sociali non saranno più legati alla persona, ma al bilancio della regione di residenza.

 

Istruzione e salute saranno diversi a seconda della regione dove si vive. Significa che la sanità pubblica non avrà più perequazione, ci sarà una sanità di serie A e una di serie B. Dopo il voto scellerato sul pareggio di bilancio si dichiara ora la morte del Servizio Sanitario Nazionale pubblico e si apre ai Fondi assicurativi privati. Per l’istruzione, ci sarà la possibilità di avere scuole regionali, con insegnanti regionali, con corsi di studio discrezionali. Altro che prima gli italiani, prima il Nord.

 

Questo sarebbe sconfiggere la povertà? Si legittimeranno le richieste dei ceti sociali più forti ad avere più tutele e diritti. I 5 Stelle regaleranno alla Lega la vera loro grande battaglia: la secessione dei ricchi. Un sovranismo di classe, la spaccatura in tre macroaree del Paese. E’ un disegno eversivo e anticostituzionale. E’ questo il modello di Paese che si vuole? Il governo del cambiamento promesso? Il tutto nel silenzio generale, mentre si spendono milioni di parole sui vaccini.

 

Un immediato ripensamento della collocazione governativa e l’immediata rimozione della sua ridicola compagine sono le prime due misure urgenti che il M5S deve adottare se vuole recuperare, con lo spirito delle origini, l’elettorato che scelse di investire su di esso e che non sembra più disposto a farlo.

 

La crisi terminale del centrosinistra e l’assenza di una proposta unitaria a sinistra offre ancora, persino a dispetto dei suoi meriti, uno sbocco possibile per un elettorato sconcertato e indeciso. Il campo della destra, in tutte le sue articolazioni, è colmo, inutile gareggiare per occuparlo. Se si vuole costruire un percorso di reincontro con l’elettorato perso e con gli astenuti è bene spostare decisamente a sinistra la linea politica.

 

Viceversa, più che le prospettive a medio-lungo termine, dietro l’angolo pentastellato si affaccia l’effetto “Uomo Qualunque” di Giannini, che nel dopoguerra arrivò a sfiorare il trionfo per poi finire nel nulla, miseramente, nello spazio di una elezione.

Le foibe sono una realtà storica che non può essere negata né giustificata. Questo non è mai stato in discussione. Al momento, però, il problema in Italia è un altro. E cioè che alcuni le stanno usando per legittimare il revisionismo storico. Un’operazione vile, che nasce dalla malafede, si alimenta di ignoranza e genera la più bassa forma di propaganda politica.

 

È esattamente questo che ha fatto Matteo Salvini: “Trieste, spettacolo unico - ha twittato il vicepremier leghista - Oggi qui per onorare il sacrificio di migliaia di connazionali torturati, massacrati e gettati nelle foibe, spesso ancora vivi, dai comunisti. La colpa? Essere Italiani Chi nega uccide due volte. Noi non dimentichiamo”.  

 

E ancora: “I bimbi morti nelle foibe e i bimbi di Auschwitz sono uguali. Non esistono martiri di serie A e vittime serie B. Non esiste un però per Auschwitz e un però a Basovizza. Sono criminali gli uni e sono criminali gli altri”.

 

Mettere sullo stesso piano Auschwitz e le foibe è un’aberrazione storica. Non si vuole stabilire il giudizio della storia solo sulla contabilità dei morti, ma nemmeno è possibile una equiparazione tra aggressori e aggrediti, tra chi combatteva per trasformare il mondo in una colonia del Terzo Reich e chi si batteva per liberare l’Europa.

 

Il paragone che fa Salvini è politicamente ignobile e storicamente inappropriato, punto è che stiamo parlando di due eventi storici incredibilmente diversi fra loro e confonderli a scopi propagandistici è ignobile. Le foibe - lo abbiamo detto - non vanno negate né giustificate, ma questo non significa che sia lecito dipingerle come ciò che non sono state. E non sono state Auschwitz, questo è certo. Non solo per la dimensione che ebbero ma proprio perché ciò che ispirò una vendetta non può essere paragonato a ciò che ispirò il terrore su scala continentale.

 

Salvini ha poca dimestichezza con la storia, dunque gli proponiamo un breve ripasso. Nel 1941 l’Italia invase la Jugoslavia, annettendo con la violenza la provincia di Lubiana. L’esercito italiano si macchiò di ogni nefandezza ai danni delle popolazioni slave - omicidi, torture, stupri, devastazioni - contribuendo in modo decisivo alla dissoluzione dello Stato jugoslavo. Mussolini e il suo regime consideravano gli slavi una razza inferiore, nei confronti della quale ogni comportamento era permesso. Così come in Abissinia e in Libia, le atrocità italiane venivano orgogliosamente esposte dall’esercito mussoliniano.

 

È in questo contesto storico che vanno inquadrate le stragi delle foibe. Non nacquero dal nulla, ma dall’odio di una popolazione offesa, che aveva motivo di vendicarsi per ciò che aveva subito dagli italiani, ma scelse di macchiarsi della colpa di una rappresaglia, punendo non gli italiani colpevoli, ma gli italiani e basta. Il risultato fu la morte di circa mille persone.

 

Lo sterminio sistematico del popolo ebraico, invece, fu qualcosa di molto diverso. Il nazismo nacque in tempo di pace come ideologia di morte: la teoria della razza è espressa in modo chiaro nel Mein Kampf di Hitler e la soluzione finale (1941-1945) ne fu logica conseguenza. Il risultato fu la morte di circa sei milioni di persone. Lo sterminio degli ebrei, degli slavi e degli zingari non era un prodotto dell’eccesso guerriero, ma l’applicazione fedele di quanto il nazifascismo si proponeva senza infingimenti.

 

Insomma, le stragi nelle foibe furono un crimine orrendo commesso nell’ambito di una guerra, ma è folle equipararle a uno sterminio di massa. Chi lo fa è in malafede e trae profitto dal solleticare la parte peggiore del patriottismo all’italiana. Quello dei vigliacchi che si rifugiano nel vittimismo per non fare i conti con le proprie colpe. 

 

La sfortuna finale delle persone a bordo della Sea Watch 3 è di essere finite in acque italiane a pochi mesi dalle elezioni europee. In altri periodi sarebbero probabilmente sbarcate in Italia nel silenzio e nell’indifferenza generale, come fino a poco tempo fa accadeva quasi sempre a chi si trovava nelle loro stesse condizioni. Ora invece è diverso.

 

Con l’appuntamento elettorale in arrivo, Matteo Salvini ha più bisogno che mai di premere sull’acceleratore della propaganda. E in questo è inimitabile. Non si lascia frenare da alcuno scrupolo morale, nemmeno da quel minimo senso di decenza che ci si aspetta di trovare in chiunque, figurarsi in un ministro della Repubblica.

 

In spregio a qualsiasi principio di umanità, il ministro degli Interni italiano fa propaganda sulla pelle degli ultimi. Parliamo di 47 persone in tutto, fra cui 13 minori non accompagnati. “I migranti sono stremati e debilitati - spiegano i volontari della Ong - raccontano dei mesi trascorsi nelle prigioni libiche e riportano traumi seri per gli abusi e le torture subite”.

 

In realtà, negare a queste persone l’approdo in Italia è illegale. In base alla Convenzione di Amburgo del 1979 e ad altre norme sul soccorso marittimo, gli sbarchi devono avvenire nel primo “porto sicuro” sia per prossimità geografica sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani. E la Libia, è evidente, non può essere considerata un porto sicuro.

 

Il problema è che la legge non interessa a nessuno, perché non è solo l’Italia a violarla. Di fronte ai rimproveri che arrivano dalle altre capitali europee, Salvini ha buon gioco a rinfacciare all’Ue di aver lasciato sola l’Italia e di non aver onorato gli accordi sui ricollocamenti. Su questo ha ragione, non si discute. A questo punto però la domanda è un’altra: il comportamento ignobile dell’Unione europea nei confronti dell’Italia giustifica la crudeltà dell’Italia nei confronti di chi è sulla Sea Watch 3? La risposta è no, ovviamente. Da nessun punto di vista.

 

Questa linea sarebbe inaccettabile anche se portasse un tornaconto politico sul piano internazionale, ma non è nemmeno questo il caso. L’atteggiamento del governo italiano non sta affatto costringendo gli altri Paesi a prendere atto del problema e a darsi da fare. Al contrario, sta irrigidendo le posizioni di quelli che dovrebbero essere i nostri principali alleati, aumentando ancora di più l’isolamento dell’Italia in Europa. Respingere le navi delle Ong, insomma, non ci avvicina affatto a una soluzione, ma rende la questione ancora più difficile da affrontare. È significativo che, in Europa, i migliori amici di Salvini siano Orban e la compagnia cantante di Visegrad, cioè i Paesi più nazionalisti e ottusi di tutta l’Unione, che mai e poi mai accetteranno alcun piano di ricollocamento comunitario.  

 

Ma se la strategia salviniana non ha alcun senso in termini di politica estera, è innegabile che sia efficacissima sul piano della propaganda. La retorica dell’uomo forte, del Capitano che tira dritto (per usare una delle tante espressioni mussoliniane tornate in voga) piace moltissimo a una larga fetta di elettorato. Del resto, una mobilità elettorale come quella innescata dalla Lega negli ultimi 10 mesi non si era mai vista nella storia della Repubblica: il partito di Salvini ha più che raddoppiato i consensi di cui gode nel Paese, passando dal 17% incassato alle politiche del 4 marzo 2018 all’attuale 35% registrato dai sondaggi, punto più punto meno.

 

La Lega è diventata così di gran lunga la lista numero uno, distanziando di parecchio il Movimento 5 Stelle, che pure alle ultime elezioni aveva preso il doppio dei voti. Ora, perché mai Salvini dovrebbe modificare una linea di condotta così fertile sul piano del consenso? In teoria, potrebbe farlo perché salvare vite è meglio che averle sulla coscienza. Ma pare che questo non gli interessi.

Sono morte in mare 117 persone che avremmo potuto salvare. È solo questo il punto, il resto non conta. Ammettiamo pure che l’Italia non avesse l’obbligo di legge d’intervenire (e ce l’aveva). Ammettiamo che esistesse una Guardia Costiera libica in grado di operare al posto nostro (e non c’era). Ammettiamo che tutte le Ong siano delle associazioni a delinquere da combattere al pari degli scafisti (e non lo sono). Ammettiamo che su quella nave ci fossero solo assassini e stupratori smaniosi di venire a delinquere in Italia (e non era così). Ammettiamo che tutto quello che dice Salvini sia vero (ed è un gigantesco ammasso di bugie).

 

Anche così, la questione non cambia. Potevamo scegliere se salvare 120 persone oppure rimanere fermi: siamo rimasti fermi e 117 sventurati sono morti in acqua.

 

L’inazione non è il contrario dell’azione, ma una scelta, e come tale implica delle responsabilità. Chi ha il potere di salvare qualcuno e decide di non farlo diventa automaticamente corresponsabile di quella morte, a prescindere da tutto il resto. È un’ovvietà, come dire che la vita umana è un valore assoluto da anteporre a qualsiasi interesse politico, strategico, legale o propagandistico.

 

Purtroppo, queste considerazioni apparentemente così banali non sono condivise dal ministro dell’Interno. Impermeabile a qualsiasi principio di empatia e di umanità, Matteo Salvini ha dimostrato tutto il cinismo di cui è capace: “Sarà una coincidenza - ha detto il leader leghista subito dopo la strage - che da tre giorni c'è una nave di una Ong, proprietà olandese, equipaggio tedesco, che gira davanti alle coste della Libia? Ed è un caso che in questi giorni gli scafisti tornano a far partire barchini, barconi e gommoni mezzi sgonfi che poi affondano e poi si contano i morti e i feriti?”.

 

Lasciamo stare i dubbi sulla fondatezza di queste insinuazioni, che come sempre non sono suffragate da alcuna prova. Facciamo finta che abbia ragione Salvini, che le sue parole siano distillati di verità marchiati a fuoco nel granito. Ma cosa c’entra tutto questo con la vita delle persone su quella barca?

 

“Io non sono stato, non sono e non sarò mai complice dei trafficanti di esseri umani, che con i loro guadagni investono in ARMI e DROGA, e delle Ong che non rispettano regole e ordini - ha aggiunto il ministro via social - e quanto a certi sindaci e governatori di PD e sinistra anziché denunciare la presunta violazione dei ‘diritti dei clandestini’, dovrebbero occuparsi del lavoro e del benessere dei loro cittadini, visto che sono gli italiani a pagare loro lo stipendio”.

 

Siamo all’assurdo, al delirio. Nella logica perversa del fascio-leghismo, salvare 117 persone dall’annegamento non sarebbe stato un gesto di umanità elementare, ma addirittura un atto criminoso, perché avrebbe realizzato i progetti di scafisti e Ong. Come se prendere le distanze dai trafficanti di persone fosse più importante che salvarle, le persone. Come se la morte di 117 esseri umani fosse un prezzo accettabile da pagare pur di non cedere ai ricatti dei libici e impartire loro una lezione.

 

Senza contare che con quegli stessi libici trafficanti di uomini e donne l’Italia è già scesa a patti ai tempi di Minniti - accordi mai rinnegati da Salvini - garantendosi anni di tregua sul fronte degli sbarchi (con buona pace della narrazione leghista) e affollando a dismisura i campi di concentramento costruiti nel paese nordafricano. Ora, se i barconi ricominciano a partire, può voler dire solo una cosa: che i libici vogliono alzare il prezzo.  

 

Da qualsiasi angolazione si veda il problema, come direbbe il poeta, per quanto noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.


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