Politica
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- Scritto da Carlo Musilli
Ci dev’essere qualcosa di magico nel portone del ministero della Famiglia. Sarà uno Star-Gate, un portale interdimensionale, qualcosa di simile. Fatto sta che chi lo attraversa si ritrova catapultato nel Concilio di Trento, a metà del XVI secolo, e inizia a ragionare come un teorico della Controriforma. Non si spiega altrimenti il fervorino millenarista con cui Cristiano Ceresani, capo di gabinetto del suddetto dicastero, ci ha deliziato durante una puntata di Uno Mattina.
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- Scritto da Carlo Musilli
Mancano ancora 4 miliardi e mezzo per risolvere il rebus della manovra. La trattativa che l’Italia sta portando avanti con la Commissione europea per evitare di subire una procedura d’infrazione va avanti a singhiozzi. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il numero uno del Tesoro, Giovanni Tria, smaniano per arrivare a un compromesso, anche perché in questa direzione preme Confindustria.
A zavorrare il negoziato c’è però l’incertezza sulle intenzioni dei due vicepremier: Matteo Salvini e Luigi Di Maio si rendono conto che schivare la procedura sarebbe anche nel loro interesse, ma al contempo fanno di tutto per cedere il meno possibile. Il leader leghista a difesa delle risorse per la controriforma delle pensioni, il capo grillino in trincea per il reddito di cittadinanza. Risultato: Conte non sa quasi mai con certezza cosa rispondere alle proposte di Bruxelles. E a ogni giro di giostra occorre sondare la disponibilità dei due veri capi del Governo.
In realtà, la soluzione del rebus non sembra più impossibile come qualche settimana fa. Non solo perché Di Maio e Salvini hanno smesso di considerare il deficit-Pil 2019 al 2,4% come una soglia intoccabile, ma anche perché dall’Europa è arrivata un’apertura. Regole alla mano, per fare il suo dovere l’Italia dovrebbe mantenere il disavanzo dell’anno prossimo entro l’1,6% del Pil, che corrisponde a un calo del deficit strutturale (al netto cioè del ciclo economico e delle misure una tantum) pari allo 0,1% del Pil. In questo modo il debito pubblico scenderebbe, anche se di poco (questa correzione comprende già uno sconto di circa 9 miliardi rispetto a quello che le norme europee dure e pure prevedrebbero per un Paese indebitato come l’Italia).
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- Scritto da Maura Cossutta
Intervistata da Maria Latella su Sky TG24, sulla Casa internazionale delle donne, Virginia Raggi ha snocciolato bugie. Ancora una volta ha mentito sapendo di mentire. Alcune perle della sindaca? “Esser morosi non è femminista”; "Abbiamo lottato per avere gli stessi diritti, non per avere privilegi;“Essere donne non vuol dire avere diritto di scavalcare leggi e regole";“Vogliamo trovare una transazione, un accordo? Facciamolo, ma non c’è stato nulla, pretendono di continuare a non pagare nulla”. “Il debito è di 900mila euro, ma dovrebbero pagare molto di più”. Nulla di più falso.
Come stanno veramente le cose l’hanno spiegato le avvocate Giuliana Alberti e Maria Rosaria Russo Valentini, insieme alla Presidente Francesca Koch, che in una conferenza stampa alla Casa internazionale delle donne hanno illustrato i termini del ricorso al TAR presentato dopo la revoca da parte del Comune della concessione della convenzione che consente alla Casa di gestire il Buon Pastore.
La questione è nota. Il movimento femminista romano, dopo lo sfratto dello storico palazzo di via del Governo Vecchio, ha avuto fin dal 1983 la concessione della convenzione da parte del Comune di Roma per gestire gli spazi del Buon Pastore in via della Lungara. Negli anni successivi, pur con vicende alterne, è stata sempre riconfermata la destinazione di questi locali all’attuazione del “Progetto Casa Internazionale delle Donne”.
Nel 1996 è tra le opere previste dal Giubileo. Quando nel 2001 vengono consegnate le chiavi della Casa Internazionale delle Donne, perfettamente ristrutturata, viene altresì consegnato un nuovo e inedito problema: quello della sostenibilità economica della gestione degli spazi. Il piano di fattibilità economica elaborato nella fase iniziale non riesce a garantire la copertura delle spese e la convenzione tra Comune e Casa (divenuta “Associazione Consorzio Casa Internazionale delle Donne” cui aderiscono circa 50 associazioni) va avanti dentro a un grande equivoco, che le avvocate hanno argomentato proprio nel ricorso al TAR. Quale?
L’immobile Buon Pastore è “patrimonio indisponibile” del Comune, in quanto destinato ad “uso di pubblica utilità”; quindi non è patrimonio disponibile alla sua alienazione per fare cassa, nemmeno per risanare il bilancio. Inoltre, è lo stesso regolamento del Comune di Roma del 1983 a prevedere la destinazione del Buon Pastore alla Casa internazionale delle donne, riconoscendo la funzione sociale delle attività svolte e poi, nel 1992, un Decreto ministeriale stanzia fondi per ristrutturare il Buon Pastore ai fini della destinazione alla Casa.
Eppure, ai primi di agosto, una Determina dirigenziale del Comune di Roma ha disposto la revoca della concessione alla Casa, considerandolo “atto dovuto” per mancato pagamento. La Casa è stata così sfrattata con un atto di un funzionario, come se si trattasse di qualsiasi altro inquilino moroso, di ordinario sfratto di locazione morosa. La sindaca dovrebbe ricordare che la convenzione con la Casa non può essere equiparata ad una semplice concessione di immobile, né questo può essere oggetto di normale affitto, perché si tratta appunto di concessione di servizi socialmente utili e perché l’erogazione di questi servizi di pubblica utilità resi alla comunità, vengono effettuati in forma di sussidiarietà, visto che il Comune non paga e non rimborsa nulla. L’immobile, in questo senso, rappresenta un “elemento strumentale” della concessione e il canone non può equivalere ad un corrispettivo “canone di affitto”. Che valore hanno i servizi della Casa che il Comune dovrebbe offrire e che non offre? Il moroso, qui, è il Campidoglio.
Del resto, la stessa Corte dei Conti, nel 2017, ha sancito che non si configura danno erariale quando spazi in convenzione offrono servizi con finalità sociali, se questi servizi dovrebbero comunque essere svolti dall’istituzione pubblica che invece non offre. E il Comune di Roma, non solo non provvede ai servizi, ma non paga e non rimborsa nulla alla Casa che invece li offre gratuitamente alle donne.
E non solo il Buon Pastore da anni non costa nulla al Comune per la gestione dei servizi che utilizzano le donne della città di Roma, ma non spende nemmeno per il mantenimento dello stabile, perché tutto è pagato con soldi che arrivano dai progetti presentati dalla Casa e dalla Regione. Le bollette, la pulizie, le attività, i servizi, le lavoratrici impiegate nella Casa, al Comune non costano una lira. La Casa e i suoi servizi, per il Comune hanno costo zero.
Ma il Campidoglio, invece di provvedere alla sua inadempienza, colpevolizza chi svolge l’opera e continua a dichiarare la Casa morosa, sostenendo che in 15 anni ha accumulato un debito su un canone di circa 11 mila euro al mese. Da dove viene questa cifra? Si basa sul prezzo di mercato di un palazzo il cui affitto arriverebbe ipoteticamente a 900 mila euro l’anno, che viene scontato a 90mila euro l’anno (questo per la sindaca sarebbe ovviamente il privilegio).
La Casa è riuscita a pagarlo solo in parte, cioè circa 600 mila euro, quindi non si tratta di pagamento nullo (come invece insiste a dichiarare la sindaca). E comunque, nonostante il canone non fosse stato pagato per intero, nel 2010 il Comune di Roma ha riconfermato la concessione alla Casa proprio per la valenza sociale delle attività svolte.
D’altra parte la Casa ha sempre ribadito che gli inadempimenti contestati sono stati e sono ampiamente compensati dal valore economico dei servizi resi - come anche la perizia dell’università di Pisa presentata nel ricorso al TAR ha valutato - e dai costi interamente sostenuti dalla Casa per la manutenzione ordinaria e straordinaria del Buon Pastore, un prezioso edifico del ‘600 che resta a disposizione di tutta la città.
Al di là dell’assurdità amministrativa che vede un funzionario del Comune e non il Consiglio o la Giunta decidere, resta la volontà politica di procedere. Infatti neppure l’offerta da parte della Casa di una transazione economica, come avviene normalmente tra “creditori” e “debitori” per trovare un accordo che risolva una volta per tutte il tema del debito pregresso, ha avuto seguito. L’offerta della Casa è quella di pagare il giusto, mettendo quindi a valore tutto il lavoro svolto in questi anni, ma la sindaca non ha risposto. Altro che “non vogliono pagare”!
C’è quindi materia seria per trattare. Ma in questi mesi gli incontri fissati sono slittati, non c’è stata mai risposta da parte delle assessore competenti e nessun accordo è all’orizzonte, nonostante le bugie della sindaca. Prova che alla sindaca non interessa ripristinare canoni e servizi, ma solo cacciare le donne. Non a caso ad oggi esiste solo la revoca della concessione, quindi la Casa è sotto sfratto ed ha dovuto ricorrere al TAR per chiederne l’annullamento della revoca della convenzione.
E’ poi successo anche qualcosa di peggio. Prima dell’estate, con un blitz in Aula Giulio Cesare, tra le proteste di tutte le associazioni è stata votata la cosiddetta “mozione Guerrini” (consigliera 5 Stelle famosa alle cronache per la sua battaglia fondamentalista contro i “ragazzi di piazza San Cosimato”). La linea 5 Stelle è stata indicata chiaramente: il “Progetto Casa internazionale delle donne è fallito, occorre cambiare, sarà il Comune a coordinare le attività a favore delle donne, privilegiando le periferie, mettendo a bando i servizi.” Ovvio, senza investire un Euro.
Nel merito del lavoro svolto dalla Casa la consigliera Guerini non sa molto e quel poco che sa non lo capisce. Infatti, mentre tutte le raccomandazioni europee e internazionali riconoscono l’approccio di genere come un indicatore di efficacia dei servizi dedicati alle donne, considerare le attività svolte dalle associazioni della Casa come servizi “neutri”, è colpevole ignoranza. Non è in discussione l’efficacia delle prestazioni svolte: si vuole solo azzerare l’autonomia politica della Casa, il suo valore storico, simbolico e politico, attribuendo all’istituzione comunale il controllo e il governo delle attività (che mai ha svolto e che mai svolgerebbe), rimuovendo tutta l’esperienza e le pratiche del movimento femminista.
Mettere a bando tutte le attività svolte dalla Casa, dai servizi contro la violenza alle donne a quelli di consulenza per la salute sessuale e riproduttiva, fino agli sportelli di promozione di empowerment delle donne migranti, significa ipotizzare che possano essere svolte da chiunque, basta che l’offerta economica sia la più bassa, anche magari dai movimenti pro-life o dalle associazioni femminili neofasciste che non vedono l’ora di mettere le grinfie su un presidio di laicità e di femminismo in un città papalina.
L’operazione è truffa a 5 Stelle. In nome della legalità e della trasparenza, della lotta ai privilegi, si sta compiendo un’operazione di normalizzazione sociale, contro le esperienze di auto-organizzazione, siano delle donne o dei giovani che, da spazi “liberati” sono invece la vera garanzia contro l’illegalità criminale. Allora, la Casa delle donne è “morosa”, Lucha y siesta (centro antiviolenza) è “occupante”, le proiezioni di film nelle piazze sono "abusive"; solo Casa Pound pare legale. Un'idea bizzarra delle democrazia e della partecipazione. D’altra parte per i 5 Stelle essa è solo quella del web, che dovrebbe persino sostituire quella rappresentativa costituzionalmente prevista. Non importa se è quella che magari decide i candidati al Parlamento solo con qualche click, magari sulla piattaforma Rosseau.
Mentre si acclama il cambiamento, si riutilizzano categorie di pensiero retrive. Sembra che i 5 Stelle siano influenzati dai loro alleati di governo, i quali associano ormai quotidianamente, con spregiudicatezza e naturalezza, la misoginia, il sessismo, l’antifemminismo, il razzismo che spalmati da Salvini e dai suoi non suscitano indignazione e proteste di nessuno dei 5 Stelle.
L’attacco alla Casa non è quindi questione economica ma politica. Dietro c’è un’idea di società, di democrazia, ci sono politiche e pensiero che ciancia di modernità e avvenirismo mentre propone Medioevo e misticismo. Un cambiamento promesso diventato reazione per restare attaccati alle poltrone.
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- Scritto da Carlo Musilli
La nuova legge di bilancio poggia su tre colonne: la flat tax leghista, il reddito di cittadinanza grillino e la quota 100 per le pensioni. La terza misura è l’unica su cui i due partiti di governo sono davvero uniti (anzi, gareggiano addirittura per intestarsene la paternità). Purtroppo per gli italiani, però, il problema è sempre lo stesso: esattamente come la tassa piatta salviniana e il sussidio grillino, anche il principale intervento in tema di previdenza si rivelerà lontanissimo dalle promesse elettorali sciorinate nell’ultimo anno.
Gli inganni sono due. Il primo ha a che vedere con il nome stesso del provvedimento: “quota 100”. Questa definizione lascia intendere che dall’anno prossimo agli italiani sarà concesso andare in pensione quando la somma di età anagrafica e anni di contribuzione arriverà, appunto, a quota 100. Bello, vero? Peccato che il progetto di governo non preveda esattamente questo.
Sono previste infatti due soglie minime: 62 anni di età e 38 di contributi. Ciò significa che i lavoratori di 63 anni avranno comunque bisogno di almeno 38 anni di contributi per andare in pensione: di conseguenza, la quota 100 si trasformerà magicamente in quota 101 (63+38). Per la stessa ragione, i 64enni andranno in pensione con quota 102 (64+38) e i 65enni con quota 103 (65+38).
Il secondo inganno è ancora più grave e riguarda le condizioni garantite a chi sceglierà di ritirarsi dal lavoro sfruttando questo nuovo canale. Finora i legastellati hanno presentato la quota 100 come una misura che avrebbe ammorbidito le rigidità della legge Fornero, introducendo maggiore flessibilità in uscita. Il problema è che, per abbandonare il lavoro in anticipo, i nuovi pensionati si ritroveranno in tasca un assegno (molto) più leggero di quello che la stessa legge Fornero avrebbe previsto.
La ragione è semplice: se vai in pensione prima vuol dire che versi meno contributi, perciò la tua pensione – che si calcola con il metodo contributivo – sarà per forza più bassa di quella che avresti percepito se avessi continuato a lavorare. È aritmetica di base, non ci vuole un genio. A guardare i numeri, però, la differenza raggiunge picchi impressionanti.
Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di Bilancio - illustrati dal presidente Giuseppe Pisauro nel corso di un’audizione parlamentare - con un anticipo del pensionamento di un solo anno il taglio dell’assegno causato dalla quota 100 sarebbe del 5,06%. Se però l’anticipo fosse di sei anni, l’importo della pensione si ridurrebbe di oltre un terzo: -34,17%. Una stangata terrificante.
La simulazione dell’Upb contraddice vistosamente il vicepremier Matteo Salvini, che in tv aveva escluso qualsiasi tipo di penalizzazione. Il leader leghista faceva riferimento alle stime già comunicate dal presidente dell'Inps, Tito Boeri, secondo cui un lavoratore medio della Pa, andando in pensione a 62 anni anziché a 67, vedrebbe il proprio assegno ridursi di circa 500 euro.
Chi ha ragione? Sempre l’Ufficio parlamentare di bilancio sottolinea che nel 2019 potrebbero andare in pensione con quota 100 fino a “437.000 contribuenti attivi”. Nel caso tutti quanti scegliessero di abbandonare il lavoro, lo Stato dovrebbe affrontare un “aumento di spesa lorda pari a 13 miliardi di euro”. Se accadesse, i conti pubblici finirebbero in corto circuito.
Eppure, il governo stesso ritiene che “la metà delle persone che potrebbe utilizzare quota 100 sceglierà di non andare in pensione”. Come mai? Non certo per amore del lavoro, ma per schivare l’ennesima fregatura: la metà delle persone vorrà evitare di ritrovarsi con un assegno ancora più basso di quello lasciato in eredità dalla professoressa Fornero.
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- Scritto da Alessandro Iacuelli
Ci risiamo. Ciclicamente, la tematica del ciclo dei rifiuti in Campania viene riproposta dalla politica, ammesso che sia davvero la politica a volerla riproporre. Puntuale, dopo mesi o a volte anni di silenzi e omissioni su una delle più gravi commistioni tra criminalità e disastri industriali annunciati (problematica mai risolta e mai seriamente affrontata) viene riportata alla luce la più banale delle non-soluzioni: disseminare la regione di impianti di incenerimento.
Così, in questi giorni ascoltiamo il leader politico di turno, stavolta Salvini, ripetere in modo martellante che occorre costruire nuovi impianti di incenerimento in Campania. Le parole sono le stesse dette dal 1994 a questa parte dai vari Amato, Berlusconi, Prodi, Renzi, come a sottolineare che sulle politiche riguardanti l'ambiente e i rifiuti ancora una volta destra e sinistra sono incapaci di mostrare una differenza.
Perché serve un altro impianto di incenerimento in Campania, come se non bastasse l'enorme e sproporzionato inceneritore di Acerra, che brucia migliaia di tonnellate di rifiuti solidi urbani (si spera solo quelli), con un rendimento elettrico bassissimo e con la produzione di energia termica che va interamente perduta?
A detta dell'attuale ministro dell'Interno, perché il problema va risolto e per fermare i roghi tossici.
In parte il ministro va compreso: non conosce il problema e, qualche anno fa, quando la Commissione Bicamerale sul Ciclo dei Rifiuti della XV legislatura produsse un ampio dossier sul ciclo rifiuti in Campania, Salvini fu tra quelli che pubblicamente negarono l'esistenza del problema e la veridicità della relazione della Commissione. Occorse l'intervento dell'allora Presidente della Repubblica, Napolitano, per riportare i leghisti ad un dignitoso silenzio.
Cerchiamo di comprendere allora cosa c'è dietro le parole del ministro. Dice che il problema va risolto, e per risolverlo occorre eliminare i rifiuti urbani. Guardiamo allora i dati ISPRA, quelli più recenti, riferiti al 2016. In Italia abbiamo prodotto in totale 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani; difficile anche sono immaginare, per noi umani, quanto sia grande questo numero. Intuiamo però che una simile quantità è insostenibile: facendo una media brutale sulla popolazione del Paese, viaggiamo su un valore attorno alla mezza tonnellata procapite in un anno! Ciascuno di noi, preso singolarmente, fa mezza tonnellata di rifiuti all'anno. Decisamente troppo.
Tuttavia, a fronte di questa cifra impressionante di rifiuti solidi urbani, la produzione di rifiuti speciali, cioè i rifiuti delle attività economiche e produttive - sempre secondo l'ISPRA e sempre riferiti al 2016 - è di 135,1 milioni di tonnellate, ovvero oltre 100 milioni di tonnellate in più (un volume di rifiuti ancora più difficile da immaginare). Tra questi, sono inclusi i 9,6 milioni di tonnellate di rifiuti speciali classificati come pericolosi.
La legge, ma anche il buon senso, impedisce di incenerire i rifiuti di origine industriale, cioè quei rifiuti speciali che sono molti di più rispetto ai rifiuti urbani. Pertanto, un inceneritore, se usato legalmente senza far infiltrare rifiuti speciali come avvenuto anni fa a Colleferro e in altri impianti chiusi dalle Procure per questo tipo di reati, risolve (e forse non del tutto) solo lo smaltimento residuo dei rifiuti urbani.
I dati parlano chiaro: l'Italia nel 2016 ha prodotto 165,2 milioni di tonnellate di rifiuti totali (urbani più speciali) di cui gli urbani sono solo il 18,2%. Siamo allora sicuri che un inceneritore sia la soluzione? Anche eliminando il totale dei rifiuti urbani, avremmo eliminato una minoranza dei rifiuti totali prodotti. Diventa la soluzione solo se ai rifiuti urbani vengono miscelati rifiuti speciali, cosa che ha conseguenze gravi sulla popolazione, che respirerebbe aria contaminata dai residui di combustione di scarti industriali. Non a caso, quindi, costituisce un reato grave che prevede la chiusura ed il sequestro dell'impianto.
Certo, in un Paese civile non può succedere che in un impianto che rientra nel ciclo industriale dei rifiuti urbani - che è sotto stretto controllo pubblico - vengano miscelati dei rifiuti industriali, ma in Italia è successo e le inchieste della magistratura hanno già portato al sequestro temporaneo di una decina di impianti sparsi su tutto il territorio nazionale.
C’è poi un secondo problema, quello dei roghi tossici. Problema in Campania ben noto, dove ogni notte, su un letto di combustione di difficile spegnimento, costituito solitamente da pneumatici dismessi, vengono dati alle fiamme cumuli grandi e piccoli di rifiuti speciali. Rifiuti speciali, non urbani. Si tratta di un ciclo criminale parallelo, dove grandi quantità di scarti della produzione industriale, dal tessile al chimico, dal farmaceutico all'automobilistico, vengono fatti sparire, anche dai certosini conteggi dell'ISPRA, mediante il fuoco, senza alcun controllo.
Quel che Salvini non spiega, è come un inceneritore possa incidere sui traffici, assolutamente illeciti, di rifiuti pericolosi, spesso tossico-nocivi, che comunque in un inceneritore non potrebbero essere eliminati. Anche da questo punto di vista, un inceneritore non conviene affatto.
Probabilmente, l'unico vantaggio reale di un inceneritore sta nella sua costruzione, ma non è un vantaggio per tutti: trattandosi di una tipologia di impianto molto costosa, la sua realizzazione vede puntualmente lo stanziamento di importanti cifre, di denaro pubblico, che portano lavoro e profitti alla lobby industriale delle imprese che costruiscono l'impianto. Lobby che già in passato ha dimostrato di saper premere sul mondo politico per ottenere questo tipo di appalti. A discapito della qualità dell'aria, ma anche trasformando in rifiuti speciali le pericolose ceneri residue della combustione, utilizzando anche i rifiuti urbani.
Tirando le somme, ciclicamente il tema della realizzazione di inceneritori verrà sempre riproposto. Ieri è toccato a Berlusconi, oggi a Salvini, domani ad altri. Quel che da cittadini chiediamo al ministro Salvini è molto semplice: sia onesto, ci dica qual è il gruppo industriale che richiede di poter produrre inceneritori per uscire magari da una sua fase di crisi economica privata, con robuste iniezioni di denaro pubblico.