Ci mancava solo l’indecente spettacolo dei selfie ai funerali, al quale l’orrendo Salvini non ha voluto sottrarsi. Non c’è solo la necessità della campagna elettorale permanente, unica spiegazione all’uso disinvolto e cinico della propaganda politica:  c’è che la vanità privata cova ambizioni politiche più forti di quanto il senso dello Stato obblighi al decoro istituzionale. La pulsione è inarrestabile, scappa da ogni poro; i due vicepremier risultano due illustri ignoranti alle prese con un mondo che li trasforma in potenziali statisti e,  così facendo, si riduce l’opera di governo ad una cattiva imitazione di Gianni e Pinotto.

 

Stupisce, insieme al cattivo gusto dei richiedenti selfie e dei plaudenti accorsi, l’assoluto disprezzo per la verità storica che assegna ruoli e conseguenti responsabilità, travolti dai meme e dalle fake news, azzerati dalla grancassa ignorante e urlatrice dei seguaci della novità, di questi oscuri talebani che plaudono al vecchio spacciandolo per nuovo e cancellano i fatti sull’altare delle opinioni.

 

La Lega, della quale Salvini è sempre stato esponente di rilievo, tanto in Lombardia come a livello nazionale, prima di trovare nel M5S il suo collegio di difesa è stata al governo per circa venti anni: sotto la sottana di Berlusconi e le ascelle di Bossi in canottiera, ha garantito ogni scempio legislativo, di cui la privatizzazione delle autostrade è solo un esempio. Volete chiedere a Lunardi, improbabile ministro di un improbabile governo dov’era e cosa faceva? Ed è fuorviante dire che oggi la Lega è altra cosa: proprio Salvini, nell’aprile 2008, ha votato il cosiddetto “Decreto salva Benetton” e l'aspetto ridicolo è che oggi riconosce (non può farne a meno) di aver aiutato i Benetton, ma accusa chi non avrebbe vigilato! Come il ladro che, arrestato, accusa la polizia di non aver impedito che rubasse!

 

E sebbene sia stato il centrosinistra ad assegnare la concessione ad Autostrade, perché la Lega al governo non l’ha impugnata? Perché non l’ha disdetta o anche solo esercitato pressioni per modificarla, bensì l'ha rafforzata blindando l'irresponsabilità e l'impunità per i concessionari? Sembra come vedere il film della legge sulla difesa personale, che la Lega dichiara assurda addossandola al centrosinistra ma che in realtà è stata scritta dalla Lega stessa e porta la firma del suo ministro Castelli.

 

Il centrosinistra, parola ormai invereconda, cacofonica persino, ha costruito la sua identità nel piegare i bisogni del paese al vantaggio delle famiglie potenti che su questi lucravano. Ha scelto, come corollario alla distruzione progressiva di una identità progressista, la valanga privatizzatrice che ha seppellito la storia italiana sotto le macerie dell’incuria, della deindustrializzazione, dell’abbandono di ogni ragione sociale nella realizzazione di opere di qualunque rilevanza, nell’assegnare al capitale finanziario e speculativo il timone delle politiche economiche e sociali, le decisioni strategiche sul presente e futuro del Paese, di colpo divenute preda di bocconiani a trazione cinetica. Ha ricondotto l’interesse pubblico a opportunità di profitto privato e la responsabilità sociale delle imprese a dettaglio di beneficienza. Ha abdicato, insomma, al suo dovere e lo ha fatto per tornaconto politico, ideologico e anche finanziario.

 

Ma oggi come stiamo messi? L’Italia è un Paese che ha nel suo dissesto del territorio la rappresentazione plastica dei fasti della cosiddetta seconda repubblica. Lo sviluppo della nostra rete infrastrutturale, che aveva caratterizzato gli anni del boom economico e ipotecato con le sue scelte il futuro che abbiamo ora sul collo, avrebbe avuto bisogno di manutenzione, controlli, modifiche, interventi.

 

Tra questi, ad esempio, limitare gli investimenti sul trasporto pubblico su gomma, come Fiat voleva. L'alternativa al trasporto su gomma era la rete ferroviaria, ma nell'era delle privatizzazioni si è deciso di tagliare le linee, danneggiando le merci e i pendolari per favorire l’alta velocità. Perché la stessa famiglia che investiva sulle strade investiva anche sull’alta velocità.

 

Ma ora le considerazioni su quanto avvenuto possono essere utili solo a ricostruire, mentre invece c’è urgente bisogno di decidere cosa fare da qui in avanti. Disdire la concessione governativa è cosa giusta e le stesse penali previste dal contratto sono impugnabili di fronte alla mancata opera di sorveglianza e manutenzione delle infrastrutture. Ma ridurre la questione a Genova sarebbe riduttivo, perché in tutta Italia la rete autostradale, così come quella provinciale e consolare, soffre di mancanza di manutenzione.

 

Più in generale, l’Italia frana per dissesto idrogeologico. Siamo un paese nel quale qualunque pioggia può far franare intere colline, montagne, far crollare ponti ed esondare fiumi a causa della follia costruttrice e dell’assenza di manutenzione.

 

Siamoin un Paese dove alle pendici dei vulcani si sono costruiti paesi interi in barba ad ogni minimo buonsenso prima che ad ogni legge; non è un mistero che una eventuale eruzione del Vesuvio veda la possibilità di azzerare decine di paesi e si calcola in un milione il numero dei morti potenziali se l’eruzione avvenisse in forma improvvisa e di notte. E siamo un paese dove il 70% degli ospedali e soprattutto le scuole sono a rischio crollo parziale o totale per assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria.

 

Vogliamo continuare ad ignorare la realtà? C’è una sola vera questione sul tappeto ed è la questione decisiva. Si vuole procedere ad un intervento strutturale per rimettere il Paese in sicurezza? E allora basta con le privatizzazioni, che offrono profitti privati che, per natura, sono realizzati a danno degli interessi generali.

 

Serve una grande azienda pubblica che abbia come scopo proprio la realizzazione di questo progetto. Una sorta di IRI, come l’abbiamo conosciuta, che abbia la capacità di assumere le decine e decine di migliaia di dirigenti, quadri e maestranze necessarie alla messa in opera dei progetti.

 

Una cabina di regia concertata con il governo e il Quirinale che assuma le decisioni necessarie a breve, medio e lungo termine. La presa in carico dei progetti e la loro realizzazione non dovrebbe vedere subappalti di nessuna natura, con ciò assestando anche un colpo decisivo alla iniezione di risorse pubbliche verso la criminalità organizzata che vive di appalti ed alla politica corrotta che dirige i fondi a suo favore ricavandone in cambio voti.

 

Il denaro necessario arriverà dai fondi europei previsti, da fondi straordinari governativi che non verranno conteggiati nella partita relativa ai parametri europei sul pareggio di bilancio, dai pedaggi autostradali e dallo spostamento ingente di risorse che, in ogni settore, possono apportare una liquidità immediata e prospettica importante.

 

Si pensi solo a due esempi: le stupide sanzioni alla Russia, cui aderiamo per volontà di obbedienza a Washington e a Berlino, ci costano oltre 4 miliardi di euro l’anno di mancato export e, su un altro fronte, al netto della follia di spesa per gli F35, l’Italia spende 70 milioni di Euro al giorno per il suo apparato bellico. Sono insomma possibili grandi risparmi a cui associare una lotta dura all’evasione fiscale e contributiva con la fine di ogni condono e l'inasprimento severissimo delle pene. Ed è possibile recuperare risorse anche con la fine dei finanziamenti a pioggia alle imprese che, invece di innovare tecnologicamente e assumere, portano soldi e impianti all’estero.

 

I soldi ci sarebbero, insomma, non mancherebbero opzioni. Quello che invece manca è la volontà politica. Perché manca un'idea del Paese e del suo futuro, manca una cultura politica di governo, manca lo spessore personale dei politici. Manca quella caratura etica che assumeva su di sé la sfida del governo.

 

Grillini e leghisti vivono solo incolpando gli altri della loro incapacità e noi, invece, avremmo bisogno di ben altro. La classe politica che ricostruì l’Italia dalle macerie della guerra, operò senza incolpare delle proprie inefficienze il regime precedente, e sì che davvero il Paese aveva avuto nel fascismo e nella guerra la più grande tragedia criminale della sua storia.

 

Eppure ricostruirono le città e i paesi, si sostennero le campagne e l’agricoltura, si favorirono apertura e di piccole e medie imprese divenute il modello nazionale di sviluppo, si nazionalizzò l’energia e s’intervenne sulle povertà. Altro che scie chimiche e vaccini tossici. Dovremmo uscire dal talk-show miserabile sul quale siamo sintonizzati e anestetizzati. Dovremmo riscoprire la dignità e la decenza del dolore e non i selfie ai funerali. Avremmo bisogno di una classe politica e di un governo per rifare l’Italia.

Siamo ancora in agosto ma è già cominciata la battaglia d’autunno, quella sulla prossima legge di Bilancio. Da una parte il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, cerca di rassicurare i mercati promettendo che il Governo non metterà a rischio i conti pubblici. Dall’altra i due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, premono per inserire in manovra almeno un prologo delle rispettive (e costose) misure-bandiera, la flat tax e il reddito di cittadinanza. Per non parlare della riforma previdenziale anti-Fornero, cara a entrambe le forze politiche. 

 

La mediazione fra le due parti sarà complessa, anche perché la finanziaria 2019 è salata già in partenza: si parla di oltre 22 miliardi di euro senza varare nessuna delle misure chieste dai partiti.

 

Innanzitutto, bisogna disinnescare le clausole di salvaguardia. Solo per evitare che dal primo gennaio 2019 aumenti l’Iva (l’aliquota ridotta salirebbe dal 10 all’11,5% e quella ordinaria dal 22 al 24,2%), l’Italia dovrà stanziare nella prossima manovra 12,4 miliardi.

«Chi dice “io non sono razzista, ma…” è un razzista ma non lo sa», cantava il rapper torinese Willie Peyote. Le sue parole tornano alla mente leggendo l’intervista a Matteo Salvini pubblicata domenica dal Sunday Times. Secondo il vicepremier, infatti, in Italia non abbiamo alcun problema di razzismo.

 

È vero, la settimana scorsa a Partinico un giovane senegalese è stato picchiato e insultato da tre italiani al grido di "tornatene al tuo paese, sporco negro". Poi c’è chi si diverte a giocare al tiro a segno con le bambine rom e a ben vedere solo negli ultimi due mesi i casi di violenza razziale nel nostro Paese sono stati almeno nove.

 

Ma tutto questo agli occhi di Salvini è fisiologico, nient’affatto allarmante: “Aggredire e picchiare è un reato, a prescindere dal colore della pelle di chi lo compie, e come tale va punito”, concede il ministro dell’Interno, salvo poi precisare che “accusare di razzismo tutti gli italiani ed il governo in seguito ad alcuni limitati episodi è una follia”.

Doveva essere “la Waterloo del precariato”, ma siamo ancora nella fase del cantiere. La pioggia di emendamenti in arrivo sul Decreto Dignità promette di cambiare notevolmente la natura del primo provvedimento varato dal governo Conte. E le incongruenze non mancano.

 

I contorni della legge che verrà sono ancora da definire, ma su questo Dl si misurano già due caratteristiche fondamentali dell’esecutivo gialloverde: l’inconciliabilità politica dei due partiti di maggioranza e la tendenza a improvvisare quando sti tratta di economia.

 

Sul primo fronte, la storia del decreto dimostra che Lega e Movimento 5 Stelle sono portatori di interessi in buona parte opposti. Per schematizzare, il partito di Matteo Salvini non può fare a meno delle imprese - soprattutto delle Pmi del Nord Est - mentre i grillini hanno il loro bacino elettorale di riferimento nei disoccupati e nei precari, soprattutto del Sud.

Nel rapporto con le istituzioni e fra le istituzioni, il governo Conte è più che mai figlio di Silvio Berlusconi. Non perché l’ex Cavaliere abbia una qualche influenza sul nuovo Esecutivo - ormai è uscito dal cono di luce - ma perché la classe politica che guida questa sedicente Terza Repubblica appartiene a una generazione cresciuta a pane e berlusconismo.

 

La settimana scorsa, Matteo Salvini si è prodotto in uno spettacolo che di certo ha fatto rivoltare nella tomba i padri costituenti di tutto l’arco politico, da De Gasperi a Togliatti. Incurante (o forse ignaro) dei limiti che circoscrivono i poteri del ministro dell’Interno, il leader leghista si è opposto allo sbarco della nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, pretendendo la garanzia che “i delinquenti” colpevoli di aver “dirottato una nave con la violenza” finissero “per qualche tempo in galera” prima di essere “riportati nel loro Paese”. In questa semplice frase si affastella una quantità di violazioni istituzionali da fare spavento.


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