di Bianca Cerri

In queste ore gli americani stanno scegliendo 435 nuovi congressisti, 33 nuovi senatori e 36 governatori. Gli exit-poll sono ancora oscillanti e non consentono previsioni, bisognerà aspettare le proiezioni ufficiali. Durante la campagna elettorale, i notiziari hanno alternato gli spots dei candidati ad allarmanti notizie di scandali sessuali, raggiri politici e tresche varie ed esiste il serio rischio che il pubblico decida di disertare in massa le urne. In ogni caso, non si verificheranno cambiamenti epocali. Votare per un partito solo per fare dispetto all’altro non sarà sufficiente a ripristinare la giustizia sociale negli Stati Uniti, una delle nazioni più sfortunate del mondo per quello che riguarda la scena politica. Molti vedono nelle elezioni di medio-termine solo un referendum che sarà vinto da chi avrà saputo sfruttare meglio la dabbenaggine degli elettori. Non è escluso che la vera vittoria sarà quella dei media, che durante la campagna elettorale hanno guadagnato circa il 15% di quanto avevano incassato con elezioni presidenziali del 2004. Tradotto in soldoni si parla più o meno di un miliardo e seicentomila dollari per le sole emittenti televisive.

di Fabrizio Casari

Dodici ore di dignità nelle urne, dopo sedici anni di umiliazioni e ruberie, hanno riportato il Nicaragua sull’altare della sovranità. Il trionfo elettorale della coalizione guidata dal Comandante Daniel Ortega Saavedra e dal Frente Sandinista de Liberacìòn Nacional, ha spazzato via il dominio della destra che, dal 1990 ad oggi, con tre governi ultraliberisti, aveva ridotto uno straccio il già povero Paese centroamericano. Il Nicaragua si trova ad essere, di nuovo come negli anni ’80, proprietà dei nicaraguensi e non degli organismi finanziari internazionali che ne hanno soffocato ogni ambizione, fosse anche solo quella di mantenersi in una povertà decente. La vittoria di Daniel Ortega è una splendida notizia. Per i nicaraguensi in primo luogo, che vedono ridisegnare un futuro diverso e per la sinistra latinoamericana, che incrementa il trand favorevole degli ultimi anni aggiungendo un altro Paese alla strategia di affrancamento da Washington e sommandolo alle proposte d’integrazione continentale latinoamericana.

di Neri Santorini

Sorride paziente William Warda mentre si cerca di etichettarlo come curdo, arabo, sciita o sunnita. Lui, non rientra negli schemi classici. Warda è un cristiano assiro, come un milione d'altri iracheni, minoranza colta di un Paese di 26 milioni di cittadini. “Per evitare queste domande dovresti essere non un iracheno ma un gatto, come dice Saad Khalifa, il nostro Beppe Grillo”, spiega Warda che oggi dirige la tv Ashr, voce degli assiri. Ha appena lasciato la direzione di un quotidiano di Bagdad, Bahra, per fondarne uno sportivo, Goal. “Abbiamo troppa stampa di partito, ci manca la stampa libera” aggiunge Warda. E un giornale sportivo è anche un segno del ritorno alla vita normale.

di Daniele John Angrisani

A soli due giorni dalle elezioni e con i sondaggi che vedono in leggerissima rimonta i candidati repubblicani nei collegi chiave del Senato (Missouri, Montana e Virginia), la tanto famigerata november suprise, da molti attesa come l’evento che potrebbe cambiare le sorti della campagna elettorale di mid term, sembra essere arrivata da Baghdad: il collegio giudicante, guidato dal giudice speciale Rauf Rashid Abdul Rahman, ha infatti considerato Saddam Hussein colpevole di genocidio ai danni della popolazione di un villaggio sciita del sud e lo ha quindi condannato a morte per impiccagione. Sentenza da molte parti considerata già scritta ma, nonostante questo, ritenuta abbastanza sospetta da alcuni osservatori politici a causa della sua tempistica. Mentre lo stesso Saddam urlava "Dio è grande" nell'aula del tribunale, è stata però la stessa Casa Bianca a smentire queste voci, affermando che sarebbe "cospirazionista" pensare che la data per la sentenza di Saddam fosse stata scelta di proposito per motivi elettorali; anzi, il portavoce della Casa Bianca, Tony Snow, ha precisato che il verdetto mostra inequivocabilmente che “in Iraq vi è un sistema giudiziario indipendente”.

di Sara Nicoli

Se perderà le elezioni del Mid Term, come sembra ormai plausibile, non sarà certo per colpa di quest’ultimo affondo che gli ha sferrato l’altro giorno il quotidiano progressista inglese The Guardian . Tuttavia quel sondaggio malandrino, pubblicato in prima pagina, su chi venga considerato l’uomo più pericoloso del mondo, la dice lunga su quanto gli inglesi (ma non solo loro) detestino il presidente americano George W Bush. Diciamolo subito: non è lui il vincitore del sondaggio. Ma nell’elenco dei pazzi al potere, pericolosi ancor prima che per se stessi per le sorti complessive dell’umanità, occupa comunque un posto di indubbio prestigio. E’ secondo, con il 75% dei voti, subito dopo Bin Laden che svetta al top con l’87%: ancora una volta, si potrebbe dire con un filo di sarcasmo, Osama lo ha battuto sul campo. La storia, matrigna, non perdona. Neanche nei sondaggi dei giornali.


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