di Fabrizio Casari

Facciamo il tifo per Daniele Mastrogiacomo, perché sia liberato presto, prestissimo, senza nemmeno un capello fuori posto. Perché di giornalisti vittime della follia guerriera non ne possiamo più. Persone che cercano di fare il loro lavoro costretti a raccontare di un paese devastato tra un esercito straniero e una banda di pazzi ed assassini. Con in mezzo un popolo annientato, principale vittima di un conflitto che schiera interessi poco confessabili e soldati poco adatti. Già, i soldati. Trentacinquemila. Soldati bene armati. Ipertecnologizzati. Con le mostrine della Nato e le stimmate della “war of terror”. Sono i coalizzati dell’Occidente contro i Talebani afgani. Ventotto anni dopo i sovietici, le “forze del bene” scoprono quanto siano imprendibili quelle montagne. E ventotto anni dopo una invasione che non poteva vincere, scoprono quanto sia duro ripercorrerne le orme. Ci sono soldati che combattono una guerra vera contro un nemico sfuggente, il cui burattinaio, nella comodità pakistana, gode dei favori di quelli che combattono contro i burattini. Quei soldati dell’Occidente che combattono i Talebani sono comandati da uomini che stringono alleanze sporche con i protettori dei Talebani, da Washington insediati e mantenuti nei salotti pakistani. Sono in Afghanistan senza l’illusione di poter vincere. Tengono in vita il governo di Karzai, che altrimenti non durerebbe un giorno. E tengono in vita un modello di governance globale, quello statunitense, che è già stato sconfitto dalla storia, deriso dai nemici, umiliato dalla cronaca. Che racconta di una occupazione che non occupa un bel niente, di un controllo del territorio che non c’è. Di una rinascita politica che appare un’indecente ironia.
L’Afghanistan, lontano dal clamore mediatico assegnato all’Iraq, senza una Falluja che apra gli occhi e senza una Abu Ghraib che indigni le coscienze, proclama vergognose guerre di civiltà, ma somiglia in modo straordinario ad un Vietnam asiatico.

L’invasione dell’Afghanistan, risposta politica all’11 settembre, annunciava al mondo l’unilateralismo planetario. Rigettava la sfida alla superpotenza spostando la guerra da New York alle montagne afgane prima ed all’Iraq poi. Lasciava, all’interno degli Usa, le tracce abnormi di una democrazia sospesa, che ha eletto il mondo ad un suo tappeto ed i suoi stessi cittadini a sudditi. La credibilità di un’ amministrazione Usa al di sotto degli standard minimi di decenza ha trascinato il suo strumento internazionale (la Nato) nell’opera di ristabilimento del comando universale. E, nel fare strame del diritto internazionale, trascina nel gorgo dell’autoritarismo l’ipotizzata “guida dell’Occidente”.

Si annunciano offensive di primavera e risposte alla stessa. Si annunciano voti di parlamenti e conferenze internazionali con tutti, tranne quelli contro cui si combatte. A cercare di capire cosa succederà in primavera, per quella che si può definire la più annunciata delle operazioni; per tentare di capire quali potranno essere le strategie militari dei Talebani, insomma, per raccontare una guerra che sembra lontano ma che è terribilmente vicina, Daniele Mastrogiacomo si trova tra le montagne afgane. Il suo sequestro è una infamia, come lo sono tutte le azioni militari che non distinguono nemici e testimoni. Il suo rilascio, immediato, è un atto dovuto. Per non sommare barbarie a barbarie.


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