di Carlo Benedetti

MOSCA.Le storie sulla morte di Stalin sono tante e tutte misteriose. Malattia o complotto? Infarto o delitto? Veleno? E se di delitto si è trattato chi è stato il mandante? Chi il killer? Beria, il grigio esponente della sicurezza? O un Krusciov ansioso di prendere il posto del grande capo? E cosa avvenne in quelle tragiche ore al Cremlino e nella dacia dove Stalin era solito passare gran parte del suo tempo? Le risposte sono tante e tutte diverse. Non c’è una verità perchè ci sono tante versioni. Ed ora, a Mosca, ne arriva un’altra. E’ quella che il regista russo Grigorij Ljubomirov cercherà di fornire ai telespettatori con il suo serial intitolato “Stalin.Live”. C’è quindi attesa per questo lavoro che si annuncia come estremamente documentato, basato su testimonianze e documenti dell’epoca. Tutto relativo a quell’arco di tempo del febbraio 1953 che la tv cercherà di riportare alla luce arrivando poi al momento della morte che le cronache ufficiali fissano per il 5 marzo 1953.

di Bianca Cerri

L’ingegner Raggett è stato categorico: se si deve fare una barriera sul Golden Gate per impedire ai suicidi di saltare giù dovrà essere solida perché con la struttura dei ponti non si scherza. Ma gli amministratori di San Francisco temono che le modifiche possano influire sull’aspetto estetico dell’imponente struttura di ferro che attraversa la baia. La storia è tutt’altro che nuova, sono già circa 70 anni che ingegneri civili e autorità municipali di San Francisco discutono sull’eventualità di costruire una barriera che renda impossibili i suicidi ma se ai primi interessa soprattutto la sicurezza, i secondi si ribellano all’idea di inserire elementi “non accettabili esteticamente”. Il Golden Gate ha sempre attratto i suicidi come una calamita ma la soluzione non è stata ancora trovata. Il primo progetto di barriera fu presentato dagli architetti Ashen&Allen nel 1970 ma il sindaco di allora non lo approvò e il ponte rimase com’era.

di Daniele John Angrisani

Nei corridori del potere di Washington tira una strana aria. Per la prima volta dalla fine della guerra fredda l’elite politica ed economica degli Stati Uniti, abituata a fare e disfare qualsiasi cosa a suo totale piacimento, si trova ad affrontare una situazione di crisi da cui sembra apparentemente non riuscire ad uscirne fuori. Il pantano in cui si è andato ad infilare l’esercito americano in Iraq, assomiglia infatti, ogni giorno che passa, sempre di più ad una palude di sabbie mobili che inghiotte la potenza politica e militare americana con la velocità di un buco nero. L’inquilino della Casa Bianca, ormai più anatra decapitata che azzoppata, viene additato come il principale responsabile di questa catastrofe, che, anche un giornale dell’estabilishment, come il New York Times definisce “un fallimento disastroso”. Persino coloro che questa guerra tanto l’avevano agognata, ai tempi del “suonar di tamburi di guerra sul Potomac”, adesso hanno iniziato a ricredersi e a considerare questa avventura come uno dei peggiori errori strategici della storia degli Stati Uniti. Il tutto mentre da pochi giorni si è riunito il nuovo Congresso che, dopo la disfatta dei repubblicani alle elezioni di mid term, è dominato dai democratici, i quali non lesinano critiche anche pesanti alla condotta della Casa Bianca, sebbene non abbiano di fatto nessuna soluzione alternativa da proporre.

di Mazzetta

Questa mattina all’alba sono stati giustiziati in Iraq Barzan al-Tikriti e Awad Hamad al-Bandar. Il primo era il fratellastro di Saddam e capo dei suoi temuti servizi segreti dal 1979 al 1983, il secondo era a capo della Corte Rivoluzionaria Irachena e quindi del sistema penale. Entrambi erano stati condannati in quanto riconosciuti colpevoli (insieme a Saddam) dell’esecuzione di 148 abitanti di Dujail nel 1982. La strage degli abitanti di questa cittadina venne decretata a seguito di un fallito attentato a Saddam, nel corso del quale furono sparati colpi di mitragliatrice che colpirono l’auto del dittatore mentre lasciava il posto dopo una visita ufficiale. Dopo un rastrellamento di quasi cinquecento persone, un terzo di loro venne condannato a morte ed ucciso. Se per il capo dei servizi segreti la condanna non aveva suscitato particolare stupore, più problematica è stata sicuramente quella del giudice, poiché la difesa ha a lungo sostenuto che questi si sia limitato ad applicare il codice penale iracheno vigente all’epoca.

di Giuseppe Zaccagni

MOSCA. Sembrava una “vicenda” circoscritta nel tempo. Archiviata nei meandri della storia. Materia di dibattiti per diplomatici e studiosi delle vicende della seconda guerra mondiale. Contenzioso sì, ma pur sempre caratterizzato da intese sul filo della realpolitik. Invece la questione torna ad esplodere e per Putin potrebbe essere un nuovo e duro problema da affrontare. Accade infatti che il Giappone riapre la già contestata pagina relativa a quelle quattro isole che compongono l'arcipelago meridionale delle Kurili, un tempo comprese nel Giappone e poi occupate dall’Urss nel corso della seconda guerra mondiale. Aree tutte della regione di Sachalin e sempre definite, nel linguaggio geopolitico di Tokio, come “Territori del nord”. Ma ora sembra proprio che sia arrivata la resa dei conti. Perchè il ministro degli Esteri giapponese Taro Asso - nel corso di una seduta della commissione parlamentare per gli affari esteri giapponese svoltasi a Tokio - chiede che Russia e Giappone si spartiscano in metà eguali le quattro isole che compongono l'arcipelago meridionale delle Kurili.


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