di Carlo Benedetti

Mirek Topolanek Nella Repubblica Ceca - e nella sua specifica collocazione geopolitica - si cambia stagione. Vanno in archivio le tante propagandate "Duemila parole" del 1968; si dimenticano i buoni propositi della "Primavera di Praga" relativi ad un "socialismo dal volto umano". Ora tutto si azzera e tutto cambia in un clima di svilimento politico. Perché le elezioni dei giorni scorsi (otto milioni alle urne) segnano una vera e propria svolta a destra della giovane repubblica nata il primo gennaio del 1993 con il distacco dalla Slovacchia e la conseguente dissoluzione della Cecoslovacchia.

di Bianca Cerri

George Bush ha saputo della strage di Haditha leggendo la notizia sul giornale. Ovviamente la cosa l'ha molto colpito perché ignorava completamente che, dopo l'arrivo del terzo battaglione dei marines nella città irachena, i civili avevano iniziato a morire come mosche. Quello che ora lo preoccupa non sono tanto i bambini straziati, ma le eventuali polemiche sulla scarsa attenzione degli americani alla sicurezza degli iracheni. Il presidente degli Stati Uniti teme anche che qualcuno possa strumentalizzare la storia di Haditha ritirando fuori le voci sulle torture ad Abu Ghraib o paragonando Haditha a My Lai, dove il 15 marzo del 1968 l'esercito USA sterminò 600 civili inermi. In entrambi i casi, si è trattato di "tragiche fatalità" e qualunque persona ragionevole capirebbe da sola che in guerra incidenti del genere sono inevitabili…

di Lidia Campagnano

E adesso a Peter Handke, forse il più grande scrittore contemporaneo in lingua tedesca, viene letteralmente tolto dalle mani il premio Einrich Heine: la città di Dusseldorf preferisce non celebrare uno dei riti culturali più prestigiosi per la Germania piuttosto che rendere omaggio all'autore austriaco che ha partecipato ai funerali di Slobodan Milosevic. Una decisione tutta politica, come lo era stata lo scorso aprile quella della Comédie Française di togliere dal cartellone una pièce di Handke già programmata. Ma che cosa sta succedendo nell'Europa della libertà di pensiero? Sta succedendo qualcosa di nuovo davvero: uno scrittore, un poeta è riuscito a mettere alle corde il bon ton intellettuale, i sentimenti politicamente corretti e politicamente trasversali del Vecchio Continente. L'epoca in cui viviamo di solito mostra uno stomaco robusto, capace di digerire e di rendere semplicemente irrilevanti le voci poetiche che giudicano il mondo: censurarle è reputata cosa da fondamentalismo islamico. Ma lo scrittore che ha percorso a piedi la Jugoslavia per descriverla, il poeta severo capace di stanare l'antisemitsmo europeo dai suoi nascondigli più riposti, il critico più intelligente dei vizi del pensiero massmediatico dominante (ammesso che possa chiamarsi ancora pensiero) è riuscito a far saltare i nervi dell'Europa perbene, scoprendo una piaga che tutti vogliono dimenticare e della quale nessuno si cura.

di mazzetta

L'undici settembre del 2001 ha segnato più di ogni altro evento recente la storia del pianeta; quel giorno ero davanti alla televisione che trasmetteva in edizione straordinaria le immagini della prima torre del WTC in fiamme, quando si materializzò un secondo aereo che colpì la seconda torre. In quel momento fu chiaro a tutti che non si trattasse di un incidente, ma di un clamoroso attentato. Immediatamente il mio pensiero andò alla reazione americana e non ebbi alcun dubbio che la risposta dell'amministrazione Bush sarebbe stata a mano armata. Le due torri erano ancora in piedi, e ancora non si avevano notizie degli altri due aerei dirottati, ma non ebbi nessun dubbio che le due torri in fiamme colpite da due aerei di linea dirottati sarebbero state interpretate come un atto di guerra, al quale gli americani avrebbero risposto con la guerra. Poi successe altro: altri due aerei dirottati, il Pentagono colpito, il crollo delle torri. L'amministrazione Bush subì quel giorno la peggior sconfitta che fosse mai stata inferta agli Stati Uniti e al suo poderoso apparato militare: per la prima volta il territorio americano veniva attaccato in grande stile e la nazione si scoprì nuda ed impotente di fronte alla determinazione di un nemico lontano e modesto; un nemico che grazie alla sua determinazione e al sacrificio di alcuni uomini aveva per la prima volta risposto militarmente colpendo il suo territorio metropolitano, provocando una strage spettacolare diffusa in diretta su tutti gli schermi del pianeta.

di Carlo Benedetti

Tante le definizioni politico-diplomatiche per quest'isola Lost dei nostri giorni. L'antica e mitica Cipro è definita, di volta in volta, come terra dell'assurdo, zona della linea verde e dell'ultimo muro, spina nel fianco della Nato, isola di tensione permanente, quartier generale della criminalità. E ancora: Tortuga del Mediterraneo, paradiso fiscale dei nuovi russi, miccia a lenta combustione… Ma una cosa - al di fuori di queste definizioni - è certa: Cipro è un'isola che può esplodere in ogni momento per il fatto che è uno dei punti critici dell'Europa. E dove le sinistre fanno, dal punto di vista politico, il bello e il cattivo tempo. Tanto da arrivare, nei giorni scorsi, alla vittoria nelle elezioni legislative (le prime dopo il rifiuto del piano di riunificazione proposto dall'Onu) con una coalizione a dir poco eterogenea. Con cinque partiti i quali, pur se di diversa estrazione, hanno trovato un minimo comune denominatore per la gestione del potere. In prima linea quel "Dyko" che è sì di centrodestra (finanziato dagli americani) ma che esprime forti posizioni di centro: è il partito del presidente della Repubblica, Tassos Papadopoulos, che non nasconde le sue simpatie per le forze nazional-democratiche. A ruota c'è l'"Akel", di chiara ispirazione comunista, sostenuto dai nazionalisti di sinistra e guidato dal presidente del Parlamento Demetris Christofias. Partito sempre egemone (pur se ora con un calo in percentuale) che segna nel profondo le scelte di politica estera. Seguono poi, sempre nella coalizione vittoriosa, l'"Edek" socialista, l'"Evroko" europeista e la formazione ecologista dei Verdi.


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