di Bianca Cerri

Il 25 novembre è stata la Giornata Internazionale contro la violenza alle donne, voluta dall’ONU per sensibilizzare l’opinione pubblica su un fenomeno in costante aumento che nessuno riesce ad arginare. Per quanto riguarda il numero di aggressioni e molestie che hanno per vittima una donna, il primato più triste spetta agli Stati Uniti, dove tuttavia molte donne non denunciano neppure i loro aggressori per paura di ritorsioni. A peggiorare le cose ci si mettono i giudici, spesso più solidali con i maltrattatori che con le maltrattate oltre che spesso scettici davanti alle denunce di violenza domestica. Ma il problema resta grave: a livello nazionale sono circa 28 milioni le donne americane che subiscono abusi e almeno 4000 quelle uccise ogni anno dal partner o da un altro famigliare di sesso maschile. Il 40% delle pazienti ricoverate negli ospedali è stata costretta a ricorrere alle cure dei sanitari a causa delle percosse ricevute dal marito o dal convivente. Anche se esiste ormai da dodici anni una legge che equipara i maltrattamenti domestici agli altri reati federali le cose non accennano a migliorare e il tema della violenza contro le donne resta avvolto ancora da troppi misteri. Inoltre, la crescita della destra religiosa ha praticamente annullato i progressi fatti negli ultimi anni.

di Fabrizio Casari

Fino all’11 settembre del 1973, Augusto Pinochet Ugarte, non era niente di speciale. Un qualunque militare di carriera innamorato di sé e del denaro. Reazionario, certo, ma né più né meno di tanti altri gerarchi militari, sudamericani e non solo. Fascistoide lo era sempre stato, sin da quando, a diciotto anni, decise di entrare nell’Accademia militare. Solo 18 giorni prima della morte della democrazia, il 23 agosto 1973, aveva giurato come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito cileno, con un Decreto che si rivelò come uno degli ultimi errori di Salvador Allende. Il legittimo presidente cileno, avvertito dai rumors di malcontento nelle forze armate che avrebbe potuto assumere le sembianze di una rivolta, aveva spostato Carlos Pratt, fino a quel momento Capo dell’esercito, nel ruolo di Ministro dell’Interno del Governo di Unidad Popular. E Pinochet, che dal 1972 aveva il comando ad interim, passò al ruolo che lo rese famoso come il boia del Cile. Tradendo ogni cosa possibile – il suo paese, il suo presidente e l’onore del suo ruolo - il boia si mise alla testa del colpo di stato militare che depose violentemente il governo socialista.

di Mazzetta

Gli ultimi incontri del WTO (World Trade Organization) hanno messo a nudo l’ipocrisia dell’Occidente, il quale si rifiuta di prendere le misure “globalizzanti” che per anni ha imposto al resto del mondo. Per anni la globalizzazione dei mercanti è avanzata macellando tutto quello che trovava sulla sua strada, ma negli ultimi tempi sembra entrata davvero in crisi. Succede che USA e UE, arrivate al dunque, non hanno la minima intenzione di aprire i loro mercati, così come non hanno la minima intenzione di eliminare i sussidi alla loro agricoltura o di mollare la presa sui diritti intellettuali e sugli altri capitoli che potrebbero rappresentare un loro impoverimento. Dopo due decenni durante i quali gli apostoli della globalizzazione hanno devastato Asia, Africa e Sudamerica, costringendo i loro governi ad aprire alle merci e agli investimenti internazionali, nonché a una sistematica e criminale privatizzazione dei servizi pubblici, il ricco Occidente getta la maschera e comunica che la globalizzazione vale per i deboli e non per i forti.

di Fabrizio Casari

Se Margareth Tatcher era la “dama di ferro”, lei era quella d’acciaio. Jeane Kirkpatrick, ambasciatrice all’Onu durante l’Amministrazione di Ronald Reagan, è morta all’età di 80 anni. Operò nel pieno della guerra fredda, quando i reazionari ancora non si chiamavano, educatamente, neocon. Fervente anticomunista, svolse il ruolo di gendarme della dottrina Reagan in seno alle Nazioni Unite. L’attore-presidente l’aveva voluta con sé dopo aver letto i suoi articoli pubblicati sul Commentary Magazine, dove discettava di dittature e democrazie con una franchezza che rasentava la brutalità. In sostanza, la signora riteneva che l’unica forma per combattere “la minaccia comunista”, fosse quella di appoggiare senza riserve le dittature militari che, dall’America Latina all’Asia, s’incaricavano di portare avanti il lavoro sporco che gli Usa non sempre erano in grado di compiere. E, dove invece “l’asse del male” era al governo, allora bisognava sostenere con dollari ed armi i gruppi armati dell’opposizione, salvo addirittura formarli nel caso fossero assenti. A tutto questo, ovviamente, si aggiungeva la necessità strategica del riarmo statunitense nel confronto globale con il blocco socialista e con tutti i movimenti di liberazione d’ispirazione indipendentista e antimperialista a livello planetario.

di Matteo Cavallaro e Giorgio Ghiglione

Il 7 Dicembre 2006 l’agenzia Associated Press batteva le parole, mai così veritiere, di George Bush: “It’s bad in Iraq”. In Iraq la situazione è pessima. Questa dichiarazione era pressoché contemporanea alla pubblicazione del rapporto Baker, il documento bipartisan che, nei fatti, boccia la linea sin qui adottata nel gestire la guerra al terrore. Scrive infatti nelle proprie conclusione la commissione: “Nonostante uno sforzo massiccio, la stabilità in Iraq rimane un miraggio e la situazione si sta deteriorando”. Pare insomma che l’intera classe dirigente degli Stati Uniti si sia finalmente resa conto della reale gravità in cui versa il paese occupato. Forti di questa nuova consapevolezza negli Stati Uniti in molti si adoperano a pensare ad una exit strategy che permetta di salvare l’onore, il denaro e la pelle. E non necessariamente in questo ordine.


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