di Laura Bruzzaniti

Riso. Il tesoro dell’Asia, cibo principale per milioni di persone e simbolo dell’Asian way of life, è oggi in pericolo. Un’intera cultura contadina, fatta di coltivazioni tradizionali e semi tramandati di generazione in generazione, rischia di estinguersi in India come nelle Filippine o in Malesia. Per portare l’attenzione sul problema, le associazioni e organizzazioni non governative di tredici stati asiatici hanno indetto la Week of Rice Action – Settimana di Azione per il Riso: sette giorni dedicati al riso, dal 29 marzo al 4 aprile, con iniziative diverse per parlare di quello che sta accadendo alla coltivazione del riso in Asia. Inaugurata in Bangladesh con un evento a cui hanno preso parte molte delle comunità di agricoltori locali, la Settimana del Riso si è svolta anche in India, Pakistan, Corea, Nepal, Malesia, Filippine con seminari, dimostrazioni e feste. Il tema principale è che il riso asiatico è in pericolo e va difeso. Ma difeso da chi?

di Carlo Benedetti

Sul tavolo del Cremlino le diplomazie dei due paesi hanno allineato una serie di dossier sui temi della cooperazione energetica e commerciale. Tutto questo perché l’arrivo a Mosca del presidente cinese Hu Jintao (che ricambia il viaggio di un anno fa, a Pechino, di Putin) offre una nuova occasione per rafforzare i contatti tra le due grandi potenze che vengono a trovarsi – in un contesto di grandi ed importanti fermenti politici - sempre più vicine e concordi quanto ad atteggiamenti sulla conduzione della politica internazionale. Primo e concreto risultato, comunque, è quello relativo alle questioni economiche e commerciali con il varo di contratti per 4 miliardi di dollari nei settori del petrolio e del gas, dell’acciaio, dell’immobiliare e di quello navale. Le cifre e le caratteristiche dei rapporti hanno già un valore epocale. Ma ora c’è un ben preciso passo in avanti perché nel quadro delle relazioni entra, più forte che mai, il “Fattore Siberia”. Si apre, infatti, una pagina di grande rilevanza geopolitica e geoeconomica che va a collocarsi nel quadro di un’iniziativa che è stata lanciata dal Cremlino e che viene ormai comunemente definita come “Il secolo della Cina in Russia”.

di Giuseppe Zaccagni

L’allarme – per l’Iran - non è rientrato. Pur se i servizi di sicurezza di Teheran avevano allertato l’intero paese denunciando una possibile “incursione” statunitense per venerdi 6 aprile. Tutto era pronto, compresa l’accoglienza. Con gli americani impegnati a violare regole e norme e a mettere in campo la loro macchina bellica, capace di attuare la soluzione finale. Ma è accaduto (per ora) un fatto che non era previsto. Perché il presidente di Teheran, Ahmadinejad, offrendo la libertà ai quindici militari britannici che avevano violato lo spazio delle acque territoriali iraniane, ha compiuto un gesto che, tutto sommato, ha spiazzato gli americani che avevano già scaldato al massimo i motori dell’aggressione. Ed ha smantellato (per ora…) quella cabina di regia che il Pentagono ha costruito con grande dispiego di mezzi. E così i marinai di Sua Maestà sono apparsi tirati a nuovo dopo la brutta avventura (completo senza cravatta per gli uomini; blusa, giacca e pantaloni per l'unica donna, Faye Turney, alla quale sono stati fatti coprire anche i capelli con un foulard azzurro) sono stati a colloquio con Ahmadinejad il quale, con molta cortesia mediatica, li ha rispediti al mittente notando che la loro era stata “una visita forzata”.

di Giovanni Gnazzi

Non hanno neanche aspettato la scadenza dell’ultimatum da loro stessi fissata, i Talebani, per assassinare orrendamente l’interprete di Mastrogiacomo fatto prigioniero insieme al giornalista di La Repubblica. Lui no, non era stato liberato. Perché il Presidente Karzai non aveva rispettato appieno l’accordo raggiunto? Perché non c’era nessun accordo ma i Talebani ritenevano di poter avviare una seconda trattativa, specifica, sulla sorte di Adjmal Nasqebandi? Sono domande destinate ancora a rimanere senza risposta; meglio, ad averne diverse, tutte destinate ai diversi obiettivi politici e di comunicazione che i protagonisti sceglieranno. Ma a poca distanza si celebra un altro rito d’ipocrisia politica, che riguarda la sorte del mediatore di Emergency, Rahmatull Hanefi, tenuto anch’egli ostaggio. Solo che i suoi sequestratori sono i Servizi Segreti afgani, cioè niente di credibile sotto il profilo professionale e politico, bensì una banda di assassini guidati e gestiti dalla Cia, che operano agli ordini di Karzai e negli interessi statunitensi, cioè per identici scopi.

di Elena Ferrara


Islamabad attacca i santuari di “Al Qaeda”: si combatte nelle zone tribali del Pakistan, quelle del distretto del Waziristan, al confine con l'Afghanistan dove si dovrebbero trovare le basi di addestramento di “Al Qaeda”. In campo ci sono oltre cinquemila guerriglieri usbeki e ceceni tutti legati a Bin Laden ed equipaggiati con armi pesanti. Operano nel Sud Waziristan e, da sempre, si battono contro il Pakistan. Dall’altra parte del fronte c’è l’esercito pakistano con quarantamila unità e 3500 paramilitari muniti delle armi più sofisticate. Ora la situazione è a un giro di boa. Le truppe regolari hanno sferrato un’offensiva che non ha precedenti e che dovrebbe portare a recidere i legami tra la guerriglia interna e l’Afghanistan dei Talebani. I combattimenti interessano soprattutto il villaggio di Yaghunde, qualche chilometro a Sud della capitale amministrativa della regione tribale, Wana. Qui sono rimasti uccisi 25 miliziani islamici. Poi è stata la volta della zona di Shin Warsak, otto chilometri a Est di Wana, con venti morti fra gli stranieri e cinque locali feriti.


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