di Giuseppe Zaccagni

Le istituzioni democratiche dell’occidente alzano il tiro sul Kosovo sperando che un giorno sarà tutto diverso. Per la soluzione della controversia politico-istituzionale si parla già di un passaggio all’Onu. Dovrebbe essere il Consiglio di Sicurezza ad occuparsene per garantire un certo equilibrio. Ma Belgrado protesta ed insiste sulla linea di un Kosovo serbo capace di archiviare gli scontri etnici ed ideologici. Dure prese di posizione arrivano anche dal grande alleato del mondo slavo – la Russia – che manda a dire all’occidente (tramite il ministro degli Esteri Serghei Lavrov) che ogni decisione è possibile, ma solo con il consenso delle due parti coinvolte. E nello stesso tempo Mosca ricorda che potrebbe ricorrere al diritto di veto. E così sulle Nazioni Unite si ripresenta un’arma diplomatica che era caduta in disuso dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sin qui le posizioni della realpolitik. Rafforzate anche dall’annuncio di Slobodan Samardzic, responsabile per il Kosovo del governo di Belgrado. E’ lui che annuncia nuove consultazioni che dovrebbero portare ad un accordo sulla regione contestata con un radicale restyling favorevole, però, ai serbi.

di Eugenio Roscini Vitali

Sono ormai due mesi che i militanti di Fatah al-Islam sono asserragliati a Nahr al-Bared, uno dei 12 campi profughi palestinesi che sorge a nord di Tripoli e che negli ultimi tempi è diventato base e centro di addestramento del gruppo radicale guidato da Shaker al-Absi. I sanguinosi scontri di Nahr al-Bared, che per 32 giorni hanno visto di fronte il gruppo integralista sunnita e l’esercito di Beirut, hanno lasciato sul terreno circa 150 persone, metà delle quali militari libanesi. Una lunga battaglia che è per ora non ha visto ne vinti ne vincitori ma che ha mortificato ancora di più le già precarie condizioni dei 40 mila profughi che nel campo, civili senza Patria che si sono trovati improvvisamente ostaggi di una guerra non loro. Ad annunciare il cessate il fuoco unilaterale sono stati gli ultimi sopravvissuti di Fatah al-Islam, protetti da un accordo del 1969 che impedisce a qualsiasi non palestinese di entrare all’interno dei campi profughi libanesi.

di Elena Ferrara

C’è un altro Kosovo nel cuore dei Balcani. Fa molto meno rumore e desta poca attenzione per quanto riguarda l’opinione pubblica internazionale. Ma il problema esiste e rappresenta un punto interrogativo per la stabilità dell’intera regione. E’ la Macedonia. Una realtà autonoma, indipendente, scaturita il 15 settembre 1991 da quella che era la Federazione Jugoslava. Da quel giorno, infatti, la repubblica di Skopje, ha proclamato la sua sovranità e si è dichiarata stato sovrano con tanto di frontiere (a nord con la Iugoslavia, a est con la Bulgaria, a sud con la Grecia, a ovest con l’Albania), moneta (denar), religione (ortodossa, con minoranze musulmane), presidenza della repubblica e assemblea legislativa nazionale. Ma un piccolo-grande particolare ha posto la nuova realtà geopolitica in grosse difficoltà sin dal suo primo momento. Perché la confinante Grecia si è opposta (e si oppone) decisamente a riconoscere al nuovo stato il nome di “Macedonia”.

di Carlo Benedetti

Boris Abramovic Berezovskij, classe 1946, ultramiliardario proveniente dalla Russia e in esilio (volontario) a Londra, sta scatenando una sua guerra privata contro Putin. Punta ad un colpo di stato che sconvolga il Cremlino e che gli permetta, quindi, di rientrare a Mosca da vincitore e dominatore. Sembra una storia che esce dalle pagine dello scrittore Ian Lancaster Fleming perché ci sono tutti gli ingredienti per un giallo internazionale. C’è un potente, indomito calcolatore, a capo di una personale organizzazione che è una sorta di Spectre mediata dalla saga di James Bond. L’uomo è Berezovskij, appunto, che materializza quell’ Ernst Stavo Blofeld che Fleming poneva a capo della banda terroristica in Thunderball. C’è, dall’altro lato della storia, un personaggio super-potente, allevato nelle scuole dello spionaggio internazionale e ben rodato nelle stanze del potere. Si chiama Putin. Non teme la Spectre perché ai suoi ordini ha una istituzione che si chiama Fsb che conta decine di migliaia di 007 di stanza in ogni angolo del mondo. C’è in palio tra i due personaggi la gestione economica (e politica) di un paese immenso come la Russia: 17 milioni di chilometri quadrati e una popolazione di 142milioni di unità. E ancora: mentre Berezovskij si ricollega alla lobby ebraica antirussa e antislava, Putin si sente l’erede diretto della Santa Russia, slava e nazionalista. Ci sono, quindi, tutte le componenti del giallo anche perché l’elenco dei personaggi fatti fuori è notevole.

di Bianca Cerri

Hillary Clinton ha condannato duramente George Bush per aver concesso la grazia a Lewis Libby, ex-capo di gabinetto di Cheney. Libby avrebbe dovuto scontare trenta mesi di carcere per aver mentito agli investigatori che indagavano su una fuga di notizie che aveva lasciato trapelare il nome di Valerie Plame, agente della CIA in incognito. Bush ha voluto salvarlo in extremis ma la cosa non è piaciuta molto ai Democratici. Nessuno si aspettava però una condanna tanto drastica da parte di Hillary Clinton dal momento che la carriera legale di Libby è strettamente interconnessa con la presidenza del marito. Per capire come andarono le cose è obbligatorio fare un salto all’indietro di alcuni anni ed esattamente ai primi giorni del 2001, quando Lewis Libby giurò davanti al Congresso che il finanziere Marc Rich era un uomo ingiustamente perseguitato da un gruppo di procuratori in malafede. Per la cronaca, Marc Rich era fuggito dagli Stati Uniti lasciandosi alle spalle un debito di 48 milioni di dollari di tasse non pagate e 51 incriminazioni di natura penale. Rifugiatosi in Svizzera assieme alla moglie Denise, il finanziere non si presentò al processo e mandò a rappresentarlo il suo avvocato difensore, che era appunto Lewis Libby.


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