di Daniele John Angrisani

Quando Osama Bin Laden, verso la fine degli anni Novanta, aveva iniziato a progettare dalle sue caverne in Afghanistan, quelli che sarebbero stati conosciuti nella storia come gli "attacchi terroristici dell'11 settembre", non poteva certo prevedere che la politica estera del presidente George W. Bush gli avrebbe consentito in pochi anni di ottenere successi che allora erano inimmaginabili contro quella che era considerata l'unica superpotenza rimasta al mondo dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Dalla fine della Guerra Fredda ad oggi, gli Stati Uniti d'America hanno perso tanto e tale prestigio internazionale che in molti circoli di élite si comincia già a considerare questo come il secolo del declino americano. E' indubbio che quando gli storici guarderanno alla nostra era, l'inizio del declino sarà riscontrato con la tragica decisione del presidente Bush di invadere l'Iraq. Da allora è stato un continuo susseguirsi di fallimenti che, come dimostra la cronaca degli ultimi mesi, hanno trasformato l'Iraq in un vero e proprio inferno in Terra.

di Agnese Licata

Quando l’aereo si allontana dalla pista dell’aeroporto di Entebbe, abbandonando il suolo ugandese e il sangue delle migliaia di morti di cui è impregnato, per condurre il protagonista e una parte degli ostaggi verso l’Europa, verso la salvezza, è difficile provare quel senso di liberazione che la stessa colonna sonora de “L’ultimo re di Scozia” cerca di suggerire. Perché il dramma attraversato dall’Uganda sotto la dittatura di Idi Amin Dada (nel film interpretato dal premio Oscar Forest Withaker), il dramma dei continui colpi di Stato da parte dell’esercito, delle segrete regie occidentali, della repressione violenta di qualsiasi opposizione politica e civile, dell’assoluta indifferenza alla povertà della popolazione, rimane lì, non scompare certo con l’avvio del declino di Amin. È destinato a riproporsi per decenni, in Uganda come in gran parte del continente nero.

di Fabrizio Casari

Dall’otto al quattordici marzo prossimo, George Bush si recherà in America latina. Missione delicata, che vede come tappe Brasile, Uruguay, Colombia, Guatemala e Messico. A detta di alcuni analisti, il viaggio sembrerebbe voler indicare un ritorno dell’interesse di Washington sul continente, suo antico feudo, ma ormai attuale terreno di sperimentazione della rinascita latinoamericana. Ma se Colombia, Guatemala e Messico sono agli ultimi paesi che gli Usa considerano “alleati fedeli”, nel caso del Brasile il viaggio ha evidenti scopi commerciali e, in Uruguay, la missione del Presidente Usa ha come scopo quello di coinvolgere il governo di Tabaré Vasquez, (il più eterogeneo politicamente, sostenuto da una coalizione che va dai socialisti fino agli ex-Tupamaros) nel tentativo d’isolare Caracas. La Casa Bianca ritiene che le diverse culture politiche della sinistra nel Cono sud possano portare ad una divisione nell’ambito del fronte progressista latinoamericano.

di Fabrizio Casari

Facciamo il tifo per Daniele Mastrogiacomo, perché sia liberato presto, prestissimo, senza nemmeno un capello fuori posto. Perché di giornalisti vittime della follia guerriera non ne possiamo più. Persone che cercano di fare il loro lavoro costretti a raccontare di un paese devastato tra un esercito straniero e una banda di pazzi ed assassini. Con in mezzo un popolo annientato, principale vittima di un conflitto che schiera interessi poco confessabili e soldati poco adatti. Già, i soldati. Trentacinquemila. Soldati bene armati. Ipertecnologizzati. Con le mostrine della Nato e le stimmate della “war of terror”. Sono i coalizzati dell’Occidente contro i Talebani afgani. Ventotto anni dopo i sovietici, le “forze del bene” scoprono quanto siano imprendibili quelle montagne. E ventotto anni dopo una invasione che non poteva vincere, scoprono quanto sia duro ripercorrerne le orme.

di Carlo Benedetti

L’ultimo caso eccellente è di queste ore. C’è un giornalista del quotidiano Kommersant che è trovato morto davanti al portone di casa. La versione ufficiale è quella del suicidio: si è buttato dal quinto piano. L’uomo si chiamava Ivan Sofronov, un nome noto proprio perché scriveva quotidianamente editoriali infuocati caratterizzati da un radicale scetticismo. Nessuno crede alla versione della polizia. E Andrei Vasiliev, direttore del giornale, dichiara subito: "Conoscendolo bene posso dire che non era certo il tipo da uccidersi". Sulla vicenda grava anche un altro mistero: Sofronov abitava al terzo piano, ma si è lanciato dal quinto… Lo hanno portato lassù per gettarlo dopo averlo fatto fuori? La polizia non fornisce i risultati dell’inchiesta e si limita a poche e incoerenti spiegazioni. E di certo c’è solo il dossier del personaggio che parla ampiamente.


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