di mazzetta

L’onda lunga della “war on terror” ha finito per destabilizzare anche la Turchia, dando fiato e spazio di manovra ai nazionalisti antidemocratici. Come è già accaduto per l’Egitto, per l’Arabia Saudita e altri preziosi alleati di Washington, la sconfitta che si intravede al fondo della tragica avventura irachena, stimola gli amici dei falliti portatori di democrazia a rafforzare stili di governo autoritari fondati sul nazionalismo. Quasi tutti i giornali turchi hanno inquadrato l’assassinio dei tre cristiani a Malatya come un episodio della strategia della tensione ad opera della destra nazionalista. Destra che non uccide i preti o gli stampatori di bibbie in nome di Allah, ma in nome di quella stessa “turchità” per la quale vengono osteggiati e perseguitati anche gli “islamici” o chi sollevi la questione degli armeni; comode etichette con le quali condannare senza processo anche chi proponga di riformare un paese che non si è mai veramente liberato dal pesante controllo da parte dei militari.

di Elena Ferrara

Dalla “calma” alla “tensione” per arrivare all’ “allarme generale”. Perché un movimento sociale e popolare sta scuotendo la Guinea. Con i lavoratori e le lavoratrici, appoggiati dalle loro organizzazioni sindacali e dai giovani, che affrontano il potere dittatoriale di Lansana Conté, chiedendo le sue dimissioni e il soddisfacimento delle loro rivendicazioni sociali. E’ il triste cammino della Guinea di queste ore. Il paese (dieci milioni di abitanti) è nel caos ed in alcuni capoluoghi di regione il prefetto ed i governatori sono stati rimossi dalle loro cariche ed allontanati dalla popolazione locale. Sale paurosamente il livello d’intimidazione. E sul versante generale del conflitto (il Paese è coinvolto nelle azioni di guerriglia delle bande armate provenienti da Liberia e Sierra Leone) i morti ammontano già a diverse centinaia, mentre i “berretti rossi” impongono le loro leggi. E le tragiche cronache locali segnalano che a partire dal 10 gennaio scorso quel duro sciopero generale organizzato per ristabilire l'ordine democratico non si è mai interrotto. Con la popolazione sempre nella attesa di vedere al potere un Primo Ministro in grado di traghettare il paese fuori di una crisi economica e sociale che da più di vent'anni sconvolge la realtà favorendo solo gli interessi delle grandi holding internazionali.

di Agnese Licata

Per ora, il partito maggioritario sembra quello degli indecisi, che a pochi giorni dal voto conta percentuali che vanno dal 30 al 40 per cento. Da questo dato si deve partire per capire cosa sta succedendo nella Francia che domenica prossima andrà alle urne per scegliere il suo nuovo presidente. Non solo per ribadire quanto nessun sondaggio possa pensare, in questo momento, di anticipare il risultato delle elezioni di domenica prossima (né tanto meno quello del secondo turno fissato per il 6 maggio). Ma soprattutto, sottolineare quanto ancora sia ampio il partito degli indecisi, è utile per rendersi conto di quanto nessuno dei dodici candidati sia riuscito a interpretare la forte richiesta di rinnovamento che il popolo francese ha manifestato in più occasioni: con la rivolta delle banlieues, ma anche con il fallimento del referendum sulla Costituzione europea. Se a questo si aggiunge che, secondo una ricerca del Centre d’Etude de la Vie politique fran çaise, il 60 per cento dei francesi pensa che la nuova maggioranza - di destra o sinistra che sia – non avrà comunque la capacità di dare una svolta alla situazione del Paese, si può intuire il forte scetticismo che imperversa oltralpe.

di Giuseppe Zaccagni

L’armata russa - il cui drappello d’onore sfila di solito con la sua bandiera rossa che porta bene in evidenza la falce e il martello - questa volta rinuncia alla tradizione e si maschera. Tutto avviene nella cornice del cimitero monumentale della capitale - quello del “Donskoj monastir” - dove i cadetti del Cremlino vengono messi a disposizione di un gruppo di monarchici, zaristi, reazionari di ogni risma e nazionalisti che si accalcano tra le tombe per dare un nuovo saluto ad una delle figure di maggiore spicco dell’epoca zarista, il generale bianco Vladimir Oskarovic Kappel (1883-1920) il cui feretro è stato portato a Mosca dopo essere stato ritrovato in un cimitero della lontana Charbin, nella Maciuria cinese (che fu negli anni della guerra civile il centro direzionale dei gruppi fascisti di ispirazione nazional-imperiale).

di Bianca Cerri

Tutti ricordano Terry Schiavo, vissuta 15 anni grazie ad alimentazione e ventilazione artificiali dopo essere stata ridotta allo stato vegetativo da un ictus. I repubblicani USA ne fecero un caso mondiale, strumentalizzando la tragedia a fini politici fino a quando la Corte Suprema non riconobbe al marito di Schiavo il diritto di staccare la spina dei macchinari che la tenevano in vita. Ma se la donna riuscì a sopravvivere per 15 anni fu solo grazie ad un’assicurazione da lei stessa sottoscritta quando era ancora in buona salute, altrimenti la sua vicenda terrena si sarebbe conclusa molto tempo prima. Come è accaduto per Thiras Habtegris, emigrata eritrea di 27 anni, malata terminale di cancro. I medici del Baylor Medical Center di Plano, in Texas, dove la donna era ricoverata, non esitarono a staccarle il respiratore avvalendosi di una legge voluta dall’allora Governatore George W. Bush. La legge concede al personale sanitario la più ampia discrezione sul destino dei malati terminali. Unico obbligo: informare per lettera il paziente che se non troverà una struttura disposta ad accoglierlo, terapie e ventilazione artificiale verranno sospese entro dieci giorni. Thiras aveva supplicato i medici di lasciarla in vita ancora qualche giorno per dare modo alla madre, che risiede in Eritrea, di arrivare negli Stati Uniti ma la proroga le è stata negata. Non avendo un’assicurazione in grado di coprire le spese sanitarie, è stata lasciata morire dopo diciassette minuti di straziante agonia durante i quali è sempre rimasta cosciente.


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