di Giuseppe Zaccagni

“La sovranità sul Kosovo spetta alla Serbia. Quella terra fa parte integrante del nostro Paese. E’ la terra dei nostri avi. E’ lì che ci sono i monumenti della nostra religione. E’ una terra che rimarrà sempre parte inalienabile del nostro territorio. Non faremo passi indietro e non accetteremo mai di barattare il Kosovo con la possibilità di diventare membri dell’Unione Europea”. Così parla Vojislav Kostunica, primo ministro della Serbia, proponendosi ancora una volta come leader forte ed efficace e risponendo – nel pieno di una vera situazione di emergenza – ai diktat che il segretario di Stato Usa Condoleeza Rice lancia da Mosca. E’ lei, infatti, ad annunciare che “quella provincia della quale tanto si parla, non farà più parte della Serbia”. E che per addolcire la posizione statunitense parla poi – come è nelle migliori tradizioni dell’arroganza americana – di una “indipendenza kosovara sorvegliata”… Ma Kostunica, interpretando i sentimenti dell’intera Serbia e del mondo slavo, non fa passi indietro, pur comprendendo che Belgrado è sotto assedio. Cerca quindi di uscire dallo stallo e da una possibile paralisi. Ha già in tasca una vittoria che non è da sottovalutare e che gli consente di alzare il tiro.

di Carlo Benedetti

Quella appena celebratasi é stata la quarta consultazione dal giorno della proclamazione dell’indipendenza segnata dal distacco dall’Urss, nel 1991. Ma è stata anche la prima ad assumere una portata geopolitica a livello dell’intera regione caucasica pur se valgono, soprattutto, i risultati che hanno un valore interno al Paese. Perché a vincere queste elezioni per il rinnovo del Parlamento sono stati (in una corsa che ha visto concorrere una ventina di partiti e un migliaio di candidati per 131 seggi, di cui 90 assegnati con il sistema proporzionale) due schieramenti notoriamente filogovernativi che si chiamano “Partito repubblicano” e “Armenia prospera”. Al vertice di questa vittoria (turbata da accuse di brogli e dall’acquisto di voti pagati con 40 euro) si trova, in particolare, un personaggio come Serzh Sarkisian - che si è fatto le ossa come ministro della Difesa – e che ora è il leader dei repubblicani, che contano il maggior numero di deputati in parlamento, e primo ministro. Ed è sempre lui che è accreditato come successore dell’attuale presidente Robert Kocharian (classe 1954) quando si terranno, nel 2008, le presidenziali che segneranno il limite del suo secondo ed ultimo mandato. Sempre per quanto riguarda la consultazione attuale arriva, praticamente a pari merito con i repubblicani, l’altra formazione. Quella denominata “Armenia prospera” guidata dall’ex campione di lotta libera Gagik Tsakurian, un personaggio che ha assunto negli ultimi tempi il ruolo di oligarca-capo vantando capitali che riempiono intere banche locali ed estere. E, tra l’altro, è un politico che si fa forte dei legami che ha con il presidente Kocharian.

di mazzetta

Il nuovo presidente di Francia troverà sulla scrivania un dossier africano. Sarkozy ha appena ricevuto una supplica proveniente dal Ciad nella quale l’opposizione chiede che la Francia cessi di appoggiare il dittatore Deby. Nella lettera si riporta anche l’articolo quattro dell’accordo di partenariato in materia di assistenza militare tra i due paesi, nel quale c’è scritto a chiare lettere che i militari francesi “non possono in alcun caso partecipare direttamente ad operazioni di guerra o di mantenimento o di restaurazione dell’ordine e della legalità” in Ciad. Nella realtà invece i francesi hanno partecipato eccome. Non solo hanno usato l’aviazione per bombardare l’opposizione a Deby ormai prossima a cacciare il tiranno, ma sono intervenuti con uomini e mezzi anche in Repubblica Centrafricana a sostegno di un altro dittatore, Bozizè, che da qualche anno ha conquistato il potere proprio con il sostegno di Deby la benevolenza dell’armèe e che ormai era assediato nella capitale Bangui, avendo l’opposizione centrafricana preso il controllo del resto del paese senza troppa fatica.

di Carlo Benedetti

Correva l’agosto del 1970 e, sull’onda delle idee del tedesco Egon Bahr, il cancelliere di Bonn Willy Brandt avvicinava l’Europa all’Unione Sovietica. Era un passo importante: una vittoria della politica diplomatica che sarebbe passata alla storia con il termine di Ostpolitik, consacrando lo stesso Brandt come uno dei padri della politica distensiva post.bellica. Ora è di nuovo un esponente della (nuova) Germania a rilanciare il processo distensivo con Mosca. Perché tocca al Cancelliere tedesco Angela Dorothea Merkel – nella sua veste di Presidente di turno dell’UE – avviare una fase di rinnovata distensione verso il Cremlino di Putin proprio mentre sono in atto le grandi manovre della nuova guerra fredda tra Mosca e Washington. L’appuntamento per questa tornata di realpolitik - che dovrebbe far prevalere elementi di stabilizzazione del continente – è fissato per il 17 maggio in territorio russo e, precisamente, nella città di Samara sulle rive del Volga, accanto alla città di Togliatti. E’ appunto qui, nel cuore di una Russia che si divide tradizionalmente tra industria e campagna, che prenderà avvio il vertice dell’Unione che ha come obiettivo quello di eliminare le diffidenze che caratterizzano una scena diplomatica segnata da incertezze e instabilità. Compito, ovviamente, difficile per la Merkel che si trova ad operare registrando lunghe e statiche contrapposizioni che hanno contraccolpi economici e politici. Di qui la necessità che questa auspicata ostpolitik trovi una molteplicità di strade che, pur se diverse, possano portare a raggiungere gli stessi obiettivi.

di Luca Mazzucato

Quando si parla di resistenza palestinese nei Territori Occupati, le immagini che vengono subito in mente sono i racconti di guerra guerreggiata e l’Intifada. L'assedio israeliano alla Mouqata (la sede dell'ANP) a Ramallah; la battaglia di Jenin; ragazzi che si difendono dai carriarmati israeliani lanciando pietre con la fionda. Ma c'è un’altra faccia della resistenza palestinese e si tratta della lotta nonviolenta degli abitanti del villaggio di Bi'lin, in West Bank. Da due anni, ogni venerdì manifestano pacificamente contro il Muro che gli sta portando via, giorno dopo giorno, la terra, i campi e il lavoro. Ma è anche la lotta pacifica delle centinaia di israeliani che ogni settimana si uniscono a loro, mentre altri israeliani, i soldati della Border Police, sparano piogge di lacrimogeni e micidiali proiettili di gomma sugli uni e sugli altri, senza distinzione. Venerdì scorso, i dimostranti sono finalmente riusciti a raggiungere il Muro e superare lo sbarramento dell'esercito. La forza militare israeliana non ammette confronti diretti, ma la lotta nonviolenta guadagna spesso risultati inediti e può insegnare qualcosa di nuovo.


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