di Eugenio Roscini Vitali

I processi di Guantanamo stanno per iniziare e ben presto i tribunali speciali militari potranno giudicare i prigionieri accusati di terrorismo; molti di loro non avranno però la possibilità di parlare o quantomeno, dopo anni d’isolamento e senza contatti con l'esterno, di capire cosa sta accadendo. La denuncia, pubblicata sul New York Times, arriva dagli stessi avvocati di Salim Ahmed Hamdan, l’uomo arrestato con l’accusa di essere stato l’autista personale di Osama bin Laden. Secondo i legali di Hamdan, lo yemenita ha sviluppato atteggiamenti paranoici e ha ormai perso ogni contatto con la realtà. Questo è il motivo per il quale è stato chiesto al giudice il rinvio del processo, almeno fino a quando l'uomo non dimostrerà di essere lucido. Intanto la difesa ha già dichiarato di essere pronta a mettere in discussione le confessioni estorte durante gli interrogatori e si è detta pronta a combattere perché siano comunque garantiti processi equi e giusti. Ma questo è ancora possibile?

di Alessandro Iacuelli

A Lussemburgo, alla presenza del presidente serbo Boris Tadic, è stato firmato l'Accordo di associazione e stabilizzazione (Asa) tra l'Unione europea e il Governo di Belgrado, primo segnale formale di aggancio della Serbia ai 27 dell'Europa. Di fatto si tratta del primo passo del processo di adesione all'UE per la Serbia. L'intesa è stata formalmente siglata in primis dal vice presidente serbo Bozidar Djelic e dal presidente di turno dei ministri degli Esteri Ue, lo sloveno Dimitri Rupel. "È un momento storico per la nostra storia", ha detto Tadic, "perché i Balcani portano sempre il fardello della guerra, mentre questo accordo, e altri simili con Paesi vicini, permetteranno di redigere un nuovo capitolo della nostra storia".

di Luca Mazzucato

“Abbiamo completamente fallito nell'Intifada. Non abbiamo ottenuto alcun risultato,” afferma Zubeidi, fino a pochi mesi fa a capo delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa a Jenin. “Un fallimento schiacciante: non siamo riusciti a tranformare le azioni militari in risultati politici. L'attuale leadership non vuole resistenza armata e dalla morte di Abu Ammar [Yasser Arafat] nessuno è capace di usare le nostre azioni per raggiungere alcun obiettivo. Con la morte di Abu Ammar, è morta l'Intifada armata.” Questa pesante sentenza è il giudizio definitivo di colui che per i palestinesi di Jenin rappresentava il simbolo della resistenza. Ora ha rinunciato alla lotta e trascina le sue giornate in un piccolo teatro, nel campo profughi di Jenin. Girando le strade di Jenin, parlando con i passanti, sembra di essere in una cittadina di campagna: e di questo si tratta, a otto anni dall'inizio dell'Intifada di Al-Aqsa. Nulla rimane più della resistenza palestinese in città: con l'Operazione Scudo Difensivo del 2002 e l'interminabile sequenza di arresti ed esecuzioni, l'esercito israeliano ha stroncato le organizzazioni militanti, neutralizzato qualsiasi velleità di ribellione all'Occupazione. Ciò che rimane è rassegnazione, a poche centinaia di metri dal Muro che separa la città dal verde panorama della Galilea.

di Elena Ferrara

Ora, dopo cinque anni di duro carcere americano a Baghdad, arriva per il settanduenne Tariq Aziz il giorno del giudizio. Era stato primo ministro dell’Iraq ed anche ministro degli Esteri con Saddam Hussein del quale era il principale negoziatore ai tempi della guerra del Golfo. Volto noto in ogni parte del mondo - anche come esponente cristiano - si era conquistato la fama di pragmatico capace di stabilire buoni rapporti con il mondo cattolico e con il Vaticano in particolare. Nato a Mosul da una famiglia cristiano assira con il nome di battesimo Michaele Yohanna (cambiato poi in Tariq) si era consegnato spontaneamente alle forze di occupazione americane il 24 aprile 2003, a pochi giorni dalla caduta di Baghdad. Ora arriva in Tribunale perché incriminato - come informa Jaffar al-Mussawi, pubblico ministero presso l'alto tribunale dell'Iraq - per aver avuto un certo ruolo nell'esecuzione, nel 1992, di una quarantina di commercianti che erano stati accusati di aver incrementato i prezzi dei beni essenziali al tempo in cui l'Iraq versava in gravi difficoltà economiche per le sanzioni imposte dall'Onu a causa dell'invasione del Kuwait.

di Giuseppe Zaccagni

La Russia di Putin-Medvedev sostiene che le relazioni del governo di Pechino con il Dalai Lama sono “una questione interna” e, di conseguenza, critica i tentativi di “politicizzare” il prossimo appuntamento dei Giochi Olimpici in Cina. Eppure mentre la Russia ufficiale alza la voce per rafforzare sempre più i suoi legami con Pechino c’è chi rema controcorrente. E si tratta di una voce autorevole. Perché interviene il Lama locale - Tasci Gjazo - che a Mosca dirige il “Centro tibetano per la cultura e l’informazione”. Il personaggio (classe 1967, nato nel Tibet orientale) si è distinto in questi anni per il suo pragmatismo e per la sua volontà di stabilire buone relazioni con la dirigenza russa. Forte dell’appoggio di quelle repubbliche autonome a maggioranza tibetana (Baskiria, Buriatia, Calmucchia, Tuva) si è insediato nella capitale dopo essere stato cacciato dal Tibet: presentato direttamente ai monaci della Buriatia dal grande Dalai Lama ha assunto poi la direzione del centro buddista di tutte le Russie che è un’istituzione ufficialmente registrata - dal 1993 - presso il ministero della Giustizia della Russia. Accettato ed accreditato dal Cremlino Tasci Gjazo è ora una spina nel fianco del potere russo. E’ lui che sta organizzando una campagna in favore del Tibet e, quindi, di dura polemica con la Cina.


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