di Eugenio Roscini Vitali

Le dimissioni del presidente Pervez Musharraf rappresentano l’atto finale di una disfatta personale e politica, la fine di un regime che ha generato lacerazioni sociali e paralisi istituzionale. Durante il suo ultimo discorso alla nazione, Musharraf è apparso avvilito e sconcertato; anziché rivolgersi ai pakistani sembrava parlare a se stesso, quasi fosse la vittima inconsapevole di una rapida successione di eventi che avevano consumato e determinato la sua morte politica. Di fronte alle telecamere ha cercato di trovare una giustificazione al suo fallimento: “Ancora una volta mi sacrifico per la patria, non ho fatto nulla per me e tutto per il paese”. Parole di circostanza che non hanno nascosto l’amarezza di una sconfitta annunciata; parole che lasciano in sospeso il futuro di un paese ostaggio della guerriglia, di un’economia in grave crisi, di una nazione incatenata da inimicizie interne, diatribe e settarismi, interessi privati e corruzione. Ma ora che il discusso e “benevolo” dittatore si accinge ad affrontare il dorato esilio di Jedda, che l’alleato della guerra americana al terrorismo ha deciso di farsi da parte, quali saranno le sorti del Pakistan?

di Elena Ferrara

Avevano annunciato orde di cosacchi pronti a bivaccare in piazza San Pietro. Era il 1948 e ancora non si vedono. Sono arrivati invece a Mosca, nella piazza Rossa, ottanta prelati “ambrosiani” tutti in missione (una full immersion nella realtà religiosa e politica degli ortodossi) guidati dall'arcivescovo di Milano cardinale Dionigi Tettamanzi e da due vescovi ausiliari - il vicario generale Carlo Redaelli e il vicario per la cultura Franco Giulio Brambilla. Il programma è denso di visite a cattedrali e monasteri, concelebrazioni eucaristiche in rito cattolico e liturgie ortodosse; incontri con l'arcivescovo cattolico di Mosca, Paolo Pezzi, e col nunzio apostolico in Russia, Antonio Mennini. Ma il vero obiettivo dell’invasione - che avviene con la sponsorizzazione del Papa Ratzinger - è il colloquio al massimo livello con la Patriarchia di Mosca. Assente il titolare Alexei II (trattenuto all’estero per il protrarsi di esami clinici) gli onori di casa - nel monastero di Novodievici, quello delle “Vergini” - sono stati fatti dal metropolita Juvenalij, vicario del patriarca.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Definiamola pure calda o fredda, parliamo d’invasione o di liberazione, di intervento o di aiuto, ma un fatto è certo: in conseguenza della guerra voluta dal duce di Tbilisi, Saakasvili, la Georgia muta la sua geoeconomia. Le prime cifre parlano da sole. Il territorio è stato sino oggi di 69.700 Kmq. Ma con la secessione delle due realtà regionali perde 12.500 kmq. e quindi si riduce a 57.200 kmq. Quanto a popolazione il Paese, che aveva 4.640.000 abitanti, con la perdita dell’Ossezia del Sud (70.000 abitanti) e dell’Abkhazia (533.800) si riduce ad una popolazione di 4.036.200. Ma il colpo maggiore è per l’economia nazionale di Tbilisi, che in seguito alle divisioni si ritrova a perdere uno dei suoi porti strategici del mar Nero: quello di Suchumi. Ci sono poi le importanti spiagge turistiche di Gagra (che vanta una stazione termale nota in tutto il territorio dell’ex Unione Sovietica), Pitsunda, Novij Afon e Gudauta che da oggi non consegneranno più alle casse della Georgia i frutti di un importante giro di turisti provenienti da ogni parte del mondo.

di Michele Paris

Devono aver tirato un sospiro di sollievo gli esponenti dell’ala più conservatrice del Partito Repubblicano qualche giorno fa, quando il loro mai troppo gradito candidato John McCain ha annunciato a sorpresa la scelta della 44enne governatrice dell’Alaska Sarah Palin come candidata alla vice-presidenza. Le indiscrezioni filtrate nelle ultime settimane, che sembravano suggerire la possibilità da parte del Senatore dell’Arizona di completare il ticket repubblicano con un candidato favorevole all’aborto, avevano infatti messo in allarme la base del partito che già minacciava una spaccatura alla convention di St.Paul. Se tuttavia la scelta di Sarah Palin avrà l’effetto di mitigare i rapporti di McCain con la destra del suo partito, è molto improbabile che una donna con poca o nessuna esperienza politica a livello nazionale, cristiana conservatrice e irriducibilmente anti-abortista, contraria al riconoscimento dei diritti degli omosessuali e membro dell’NRA, potrà fare breccia in quella fetta di elettorato femminile che durante le primarie democratiche ha sostenuto Hillary Clinton e che non ha ancora assorbito la sconfitta della propria candidata a beneficio di Barack Obama.

di Marco Montemurro

Isole artificiali, alberghi sottomarini, grattacieli e nuove piramidi, così si trasformano i paesi del Golfo Persico, tutti in cammino per rincorre il sogno che si intravede a Dubai. L’emirato guidato dallo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum ormai da anni stupisce il mondo per le opere realizzate e per le dimensioni dei lavori in corso. Sono famosi edifici come l’albergo dal lusso a sette stelle Burj Al Arab, il grattacielo più alto del mondo Burj Dubai, la neve e le piste da sci nel deserto e gli arcipelaghi di isole artificiali a forma di palma e dei cinque continenti. Sorprendono molto questi progetti, ma sono solo l’inizio di un disegno più ampio. I grandi capitali della finanza araba, avendo un l’ingente liquidità a loro disposizione, investono fortemente in costruzioni con l’obiettivo di trasformare interi stati in mete turistiche e centri per affari. Il governo degli Emirati Arabi Uniti nel 2002 ha avviato la concessione di visti per risiedere nel paese agli stranieri che acquistano case e da allora il mercato immobiliare ha cominciato a lievitare.


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