di Michele Paris

Barack Obama ha compiuto martedì un passo probabilmente decisivo verso la conquista della nomination democratica ottenendo, grazie alla vittoria nelle primarie in Oregon, la maggioranza assoluta dei delegati del proprio partito che alla Convention saranno vincolati alla scelta del candidato da proiettare verso l’Election Day. Un numero di delegati quello conquistato dal Senatore dell’Illinois ormai praticamente insuperabile dalla sua avversaria Hillary Rodham Clinton, la quale ha invece ottenuto una netta vittoria con un margine di 36 punti percentuali in Kentucky, replicando l’affermazione di sette giorni fa in West Virginia (con un vantaggio di 41 punti) e nelle precedenti consultazioni in Stati che presentano una simile composizione sociale dell’elettorato (Ohio, Pennsylvania, Indiana). Ben decisa a rimanere in corsa nonostante la strada a dir poco in salita e le pressioni per un suo abbandono che da più parti stanno arrivando per evitare di danneggiare il Partito in vista delle presidenziali, Hillary sta però inesorabilmente e significativamente scomparendo dai discorsi di un Obama che da un paio di settimane a questa parte pare essere entrato in una nuova fase della propria campagna elettorale nella quale dovrà fronteggiare a sua volta nuove e impegnative sfide.

di Eugenio Roscini Vitali

L’esplosione di violenza che per cinque giorni ha travolto il Libano è solo un’altro capitolo della storia mediorientale, della civiltà post coloniale e del mondo arabo contemporaneo. Il bilancio degli scontri parla di 62 morti e più di 200 feriti, di un Libano profondamente diviso e della disarmante impotenza della comunità internazionale. Per oltre due anni i leader libanesi hanno palesemente trascurato i bisogni di una popolazione spaventata, afflitta e ferita; si sono ignorati ed insultati; si sono accusati vicendevolmente di essere agenti dell’una o dell’altra parte, uomini al servizio dell’Iran o di Israele; hanno fatto di tutto perché il Paese ristagnasse in una permanente condizione di crisi. Quello che ne è uscito fuori è un Libano ingovernabile, schiacciato dagli interessi stranieri, dalla pressione dei media e dall’ingerenza di soggetti pronti a trasformarlo in un vero e proprio terreno di scontro ideologico; come preannuncia il giornalista libanese Omar Hossino, il teatro di una nuova guerra fredda.

di Elena Ferrara

Il terremoto cinese blocca la fiaccola olimpica e rimanda nei monasteri i monaci tibetani. Ma le condanne a morte, in tutto il Paese, non si fermano. Amnesty International rende noto che sono, in media, 22 al giorno. Un record che rende Pechino - pur se ormai nazione integrata nella globalità mondiale - medaglia d’oro in un’olimpiade della morte. La mannaia, intanto, non si ferma e se si procederà al ritmo delle esecuzioni attuali il giorno dell’apertura dei Giochi il potere cinese potrà contare ben 347 esecuzioni. Questa tragica escalation (mancano, comunque, statistiche ufficiali) fa dire a Kate Allen, che da Londra segue la problematica dei diritti umani, che vi dovrebbe essere un impegno mondiale nel fermare la mano della dirigenza cinese e per far sì che tutti coloro che saranno coinvolti nei Giochi dovrebbero fare pressione su Pechino affinché riveli i numeri dell’uso della ??n? capitale e perché riduca il numero di circa 60 reati ??r cui è prevista (omicidio, traffico di droga, reati economici, politici, d’opinione, commercio di pornografia, uccisione di alcuni animali sacri) ? si diriga verso l'abolizione.

di mazzetta

Gli avvenimenti degli ultimi giorni in Sudan hanno avuto una scarsa eco sui media, ancora meno a livello politico o tra i tanti personaggi che in questi anni si sono recati in pellegrinaggio in Darfur per apparire sulle televisioni di Roma, Parigi o Los Angeles. Uno dei principali gruppi di opposizione locale in Darfur ha attaccato la capitale del Sudan; un attacco robusto con centinaia di automezzi armati, che però è stato affrontato e sconfitto dall'esercito regolare. I militanti del JEM (Justice and Equality Movement) hanno così conseguito due disastrosi risultati in un colpo solo: la perdita della loro capacità militare e la distruzione della narrazione che vede le popolazioni del Darfur in balìa di un governo impazzito. Con lo status di vittime hanno perso molto più di qualche centinaio di uomini e mezzi.

di Fabrizio Casari

Tutto comincia con una operazione illegittima dell’esercito colombiano in pieno territorio dell’Ecuador. Il 1 marzo di quest’anno, coadiuvati dalla Cia, che fornisce attraverso i rilievi satellitari il luogo preciso dove colpire, i soldati di Uribe, a bordo di elicotteri da combattimento, bombardano dall’alto prima e scendono a terra per finire i sopravvissuti poi, un accampamento di poche unità delle Farc, al cui comando si trova Raul Reyes, il “ministro degli Esteri” della guerriglia colombiana guidata da Manuel Marulanda, alias “Tiro fijo”. Ventiquattro i morti, colti nel sonno; solo tre le persone sopravvissute al blitz: una donna messicana e due colombiane, oggi accolte dal Nicaragua di Daniel Ortega che le ha concesso asilo politico. Lo scopo del blitz era quello di uccidere il capo dei negoziatori delle Farc e quanti più suoi compagni, ma l’obiettivo principale che si voleva raggiungere era di tipo strategico e si basava su tre direttrici contemporanee: mettere in grave difficoltà le Farc ed i suoi rapporti internazionali attraverso l’eliminazione di Raul Reyes; fermare in questo modo i negoziati con il Venezuela e soprattutto con la Francia per la liberazione di Ingrid Betancourt; intimidire l’Ecuador di Rafael Correa e lo stesso Venezuela insinuando una capacità militare di Bogotà che ignora confini e diritto pur di colpire i suoi nemici.


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