di Eugenio Roscini Vitali

“Non è vero che gli arabi odiano gli ebrei per motivi personali, religiosi o razziali. Essi ci considerano - e dal loro punto di vista non hanno torto - degli occidentali, degli stranieri, degli invasori che si sono impadroniti di un Paese arabo per farne uno Stato ebraico. Dal momento che noi siamo obbligati a realizzare i nostri obiettivi contro la volontà degli arabi, dobbiamo vivere in uno stato di guerra permanente”. Queste sono le parole del generale Moshe Dayan all’indomani della Guerra dei sei giorni, una dichiarazione che ancora oggi riassume perfettamente la situazione mediorientale e le reali possibilità di una pace negoziata. Da allora è cambiato ben poco, soprattutto per chi, già vittima della scriteriata spartizione dell’Impero ottomano avvenuta all’indomani della fine della Prima guerra mondiale, si è ritrovato a fare i conti con quel panarabismo estremo che ha caratterizzato gli anni cinquanta e sessanta e che ha sempre subordinato la causa palestinese ai propri interessi. La stessa gente che ha dovuto affrontare quella parte della comunità internazionale che sostenendo Israele ha cercato di lavarsi la coscienza da secoli di indiscriminato antigiudaismo e che ha subito quel sionismo politico che, legittimato dall’antisemitismo, non ha mai tenuto in considerazione l’esistenza di un popolo arabo in Palestina: “Una terra senza gente per gente senza terra”.

di Mariavittoria Orsolato

Dopo poche settimane dalla vittoria elettorale e a due mesi dal suo insediamento, il vescovo presidente Fernando Lugo si trova già ad affrontare i primi problemi politici del nuovo Paraguay. Se la sua è stata una vittoria schiacciante non si può dire altrettanto di quella più risicata ottenuta, nella corsa ai posti in Parlamento, dai suoi sostenitori della “Alianza Patriotica para el Cambio”. I risultati di Camera e Senato non sono stati infatti così netti ed ora le radicali riforme che erano state ventilate in campagna, sulla carta appaiono sbiadite dall’incertezza dei numeri: per eliminare povertà, corruzione e mala sanità, per attuare un’equa ripartizione delle proprietà agricole e per trattare con i vicini Brasile e Argentina sulla stringente questione energetica, il “vescovo rebelde” dovrebbe avere una maggioranza compatta in grado di garantire le riforme senza troppi disguidi in sede di voto. La più grande scommessa del monsignore per i prossimi 5 anni sarà infatti, secondo gli osservatori internazionali, quella di governare un Paese già troppo segnato dalla mancanza di concretezza.

di Elena Ferrara


Un gasdotto lungo 2800 chilometri dall’Iran al Pakistan e poi verso l’India. E, forse, un successivo allungamento ciclopico verso la Cina. Un progetto del secolo già carico di studi approfonditi che oltre ad essere decisivo per l'energia asiatica, potrebbe contribuire a cambiare, con il passare del tempo, gli assetti strategici della regione e saldare sempre più il Medio Oriente all'Asia. L’idea di questa ciclopica realizzazione (oggetto anche di delicati rapporti diplomatici) data dall’inizio degli anni ’90 e si concretizza a Delhi e ad Islamabad - capitali di due paesi da tempo ostili a causa di guerre e contestazioni territoriali - dopo un intenso lavoro che ha impegnato scienziati, geologi, tecnici e politici. C’è in primo luogo, all’avanguardia del progetto attuale, un paese come l’India che è un “laboratorio” che si presenta in questa arena geostrategica del gasdotto avendo alle spalle tre grandi guerre con il Pakistan (1947, 1965, 1971) riesplose in forma attenuata nel 1999. E tutto non per motivi religiosi ma per dispute territoriali sul Kashmir e, nel 1971, per l’indipendenza del Bangla Desh. Segue, ma in parallelo, il Pakistan segnato dall’idillio tra Bush e Musharraf che va però sempre più offuscandosi. Mentre su tutto domina quella conflittualità per il contestato Kashmir che evidenzia conflitti ispirati dagli opposti fideismi.

di mazzetta

Venticinquemila morti. Una ecatombe quella che si è abbattuta sulla Birmania. Ma ricostruire l'ultima tragedia birmana in ordine di tempo è elementare, tanto la disgrazia è stata cavalcata da molti in maniera già vista in decine di occasioni simili. Come a seguito della recente rivolta popolare contro la dittatura, la comunità internazionale ha sgomitato per cavalcare il palcoscenico offerto dal grande disastro di naturale e dalla spendibilità di un numero enorme di vittime, dimostrando di non avere minimamente a cuore la sorte delle vittime dell'uragano, quanto di perseguire altri disegni. Le cronache ci dicono che la giunta birmana, un regime dominato dalla paranoia e dalla superstizione, nega l'accesso agli aiuti, ma non è dato sapere che a scatenare l'irrigidimento - apparentemente irrazionale - della dittatura birmana ha contribuito grandemente una folle iniziativa francese.

di Eugenio Roscini Vitali

Beirut è di nuovo divorata dalla guerra e questa volta la resa dei conti potrebbe essere definitiva. Lo scontro, ormai aperto, vede di fronte i partigiani Hezbollah di Hasan Nasrallah, sostenuti da Siria e Iran, e i gruppi fedeli al governo del premier Fouad Siniora, appoggiati da Washington e, più velatamente, da Israele. Il bilancio degli scontri è ancora provvisorio ma, come negli anni della guerra civile, la capitale libanese è di nuovo divisa e i quartieri e le strade della zona occidentale sono tornati ad essere teatro di violenti combattimenti: raffiche di mitra, esplosioni, vetrine in frantumi, corpi che giacciono a terra, sangue e paura, tutto come vent’anni fa. Il Paese, che da più di cinque masi è senza Capo dello Stato, sta entrando in una spirale di violenza senza ritorno, un meccanismo innescato da pressioni esterne che hanno esacerbato posizioni politiche, già drammaticamente contrapposte, e che certamente determinerà collasso istituzionale pressoché totale.


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