di Eugenio Roscini Vitali

La linea di confine che fino a qualche anno fa separava la Cecenia dall’Inguscezia e, al tempo stesso, divideva una tragica guerra da una falsa idea di pace e stabilità, si è definitivamente frantumata. La terra che Putin voleva trasformare in “modello caucasico di sicurezza” è diventata una polveriera intrisa di odio, vendetta, omicidi, torture e sparizioni, una sporca guerra che ripropone i metodi e le strategie già viste a Grozny, Selkovskaja, Urus-Martan, Urdjuchoj, Dechesty. Per i russi l’Inguscezia si è trasformata in un nuovo laboratorio dove l’esercito mette a punto le sue contromisure all’insurrezione, dove la giustizia lascia impuniti i responsabili delle repressioni, dove la politica rispondere alla resistenza con la sistematica violazione dei diritti umani. Le strade di Nazran, Karabulak, Malgobek non emanano più solo l’odore della miseria, della corruzione e della povertà; ora in Inguscezia si respira la stessa aria del Caucaso, quella impregnata di morte, sangue e di paura.

di Ilvio Pannullo

Il nome in codice era “Glorious Spartan 08”, il teatro operativo era il tratto di mare a sud est dell’isola di Creta. È in questo splendido angolo di Mediterraneo che l’aviazione israeliana ha simulato - dal 28 maggio al 18 giugno di quest’anno - l’attacco all’Iran. Oltre cento caccia F16 e F15, con l’ausilio di aerei per il rifornimento in volo, hanno condotto una missione di 1.500 chilometri; la stessa distanza che divide lo Stato ebraico dall’impianto nucleare di Natanz, in Iran. I jet hanno sganciato bombe, condotto raid contro i radar e attuato manovre evasive. In loro supporto anche velivoli per la guerra elettronica ed elicotteri che trasportavano i commandos dell’unità speciale 5101, conosciuta come Shaldag, e gli incursori della Sayeret. Gli israeliani, di solito estremamente riservati su quello che combinano, hanno passato al New York Times le informazioni su “Spartan 08” accostando le manovre a un possibile blitz contro l’Iran. E hanno spiegato, con l’abituale pragmatismo, quali fossero gli obiettivi. Il primo - tecnico - era quello di esercitarsi in un raid a lungo raggio. Il secondo - politico - era ribadire agli Stati Uniti e ai governi occidentali che l’opzione militare non è poi così lontana. Se i ripetuti tentativi negoziali falliranno, non resterà che la forza. E gli israeliani sono pronti.

di Marco Montemurro

Negli Stati Uniti il sogno delle macchine grandi e potenti è ormai in declino e sono in forte calo le richieste di fuoristrada e Suv, le classiche icone del mito americano e simbolo di opulenza. Adesso le piccole vetture, in passato considerate mediocri e incapaci di soddisfare i desideri dei consumatori, vengono apprezzate anche negli Stati Uniti dove incomincia a diventare oneroso il prezzo dei carburanti. Si prevedono grandi cambiamenti nel mercato automobilistico dal momento che la situazione è molto diversa rispetto a dieci anni fa. Prima la benzina nei distributori era disponibile a 1 dollaro al gallone, ma ora il prezzo è salito fino a 4 dollari e ciò comporta che, secondo uno studio del Cambridge Energy Research Associates, gli americani devono spendere in carburanti il 4% dei loro guadagni lordi, non più l’1,9% come nel 1998.

di Mario Braconi

A rompere il tabù nazionale era stato il primo ministro israeliano, il quale, in un’intervista rilasciata al quotidiano Haaretz a fine 2007, si era detto convinto che il possibile fallimento della “soluzione dei due stati” avrebbe potuto scatenare iniziative di lotta finalizzate al riconoscimento dell’uguaglianza di diritti di voto per palestinesi e israeliani sul tipo di quelle che in Sud Africa avevano messo in crisi il regime dell’apartheid: in quell’occasione Ehud Olmert ha riconosciuto che nemmeno gli americani riuscirebbero a mantenere il proprio appoggio ad Israele se esso si dimostrasse “incapace di garantire democrazia e parità di diritti a tutte le persone che vi risiedono”. Se Olmert si è spinto paragonare lo stato che rappresenta al Sud Africa dell’apartheid, cioè ad usare un argomento che in Israele è visto come il fumo negli occhi, lo ha fatto certamente per provocare lo choc necessario a coagulare consenso attorno al proseguimento dei negoziati israelo-palestinesi.

di Giuseppe Zaccagni

Come dire: eppur si muove. Perché il lungo e forte silenzio tra il Vaticano di papa Ratzinger e la Chiesa ortodossa di Alessio II viene di tanto in tanto rotto dal rumore di qualche intervento fuori programma. Questa volta la prima mossa spetta a Paolo Pezzi, arcivescovo cattolico che rappresenta a Mosca la Chiesa di Roma. Il personaggio si è conquistato in terra russa una certa notorietà. Nato nel 1960 in Emilia si è dedicato alla filosofia e alla teologia presso la Pontificia Università di Roma e si è laureato con una tesi - guarda caso - sui cattolici in Siberia. Deve poi a papa Ratzinger il posto di metropolita dell’Arcidiocesi della “Madre di Dio” a Mosca. Ed è qui che risiede dall’ottobre 2007 tentando di stringere i rapporti con gli ortodossi. Funzione, comunque, difficile tenendo conto che Pezzi viene da “Comunione e Liberazione”, movimento che ha ovviamente esportato anche in Russia. E’ questo uno dei lati deboli della sua missione di proselitismo. Per ora, comunque, tutto funziona regolarmente.


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