di Mario Braconi

Ragionare di diritti umani significa parlare di priorità non negoziabili, assolute, inderogabili: eppure proprio nell’anno in cui si festeggia il sessantesimo anno della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Amnesty International presenta un rapporto in cui è costretta a fare i conti con gli scarsissimi progressi conseguiti in tutto il mondo in tale materia: “I leader mondiali devono porgere le proprie scuse per non aver realizzato la promessa di giustizia e uguaglianza contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti umani. Negli ultimi sei decenni molti governi hanno mostrato di privilegiare l'abuso di potere e interessi egoistici piuttosto che il rispetto dei diritti dei popoli che rappresentano.” Secondo Amnesty, se Russia e Cina ce l’hanno messa tutta per mantenere un buon piazzamento nel campionato del vilipendio ai diritti umani, un posto d’onore su quel podio spetta agli Stati Uniti che, a dispetto dei reiterati quanto ipocriti richiami a libertà e democrazia del loro governo, continuano a tenere una condotta caratterizzata da gravissime violazioni (tortura, detenzioni arbitrarie, interrogatori segreti, “amicizie pericolose” con i peggiori tiranni del mondo ecc…).

di Eugenio Roscini Vitali


La storia insegna che il fondamentalismo arabo-palestinese e il sionismo ebraico hanno sempre puntato, anche se in ottica e in momenti diversi, alla creazione di un solo Stato, un’entità politica totalmente dominata da arabi o ebrei. La storia insegna anche che il problema israelo-palestinese è figlio della secolare persecuzione subita dal popolo ebraico, della trasformazione del sentimento antiebraico in antisemitismo avvenuta nella seconda metà del XIX secolo e dalla sconsiderata spartizione del Medio Oriente decisa a tavolino dai vincitori della Grande guerra. La storia più recente insegna poi che gli sforzi fatti dalla comunità internazionale affinché i due popoli sottoscrivessero una pace condivisa sono stati vani, soprattutto perché le proposte prevedono la creazione di due Stati e grandi rinunce ma non assicura la soluzione del problema. A questo si aggiunge la manipolazione indiscriminata che alcuni personaggi della politica internazionale fanno del problema israelo-palestinese; un uso smodato della retorica e della morale che spesso rasenta il cinismo più assoluto.

di Bianca Cerri

A Berkeley, storica università della California che negli anni ’60 vide la nascita dei movimenti pacifisti, gli studenti non vogliono che i marines vengano a cercare gente da arruolare nel loro campus. Ma quello che desiderano più di ogni altra cosa è che John Yoo, uno dei professori della facoltà di giurisprudenza, se ne vada il più lontano possibile. Un desiderio che per la verità è condiviso da molti dei colleghi di Yoo. Il consiglio accademico ha però già fatto sapere che i professori non possono essere espulsi a piacimento, neppure se la loro etica in qualità di consiglieri della Casa Bianca è discutibile. Solo cinque volte in tutta la sua storia l’università di Berkeley è ricorsa al licenziamento, ma si trattava di docenti che avevano allungato le mani sulle studentesse o nuociuto al prestigio dell’ateneo. Nel caso di Yoo, anche il rettore ha le mani legate. I suoi trascorsi di apologeta dell’estrema destra e l’appartenenza ad una congrega fascista composta da neo-cons che vorrebbero trasformare le leggi americane un nuovo Mein Kampf, non fanno testo. L’unica maniera per rimuovere Yoo dal suo posto è denunciarlo ad un tribunale internazionale come criminale di guerra, visto che di presupposti ce ne sono in abbondanza.

di Carlo Benedetti

Il re è sempre più nudo. Eppure, minato in patria da Obama e dalle ondate di proteste contro la guerra in Iraq, si rifà in Europa. Una sorta di vacanza politica - alla ricerca di un margine d’iniziativa - accompagnato dalla sua Condoleezza Rice. Eccolo quindi al vertice da lui voluto e convocato a Lubiana, capitale della Slovenia divenuta una nuova stella dell’impero americano. L’occasione - tra gli inciampi della distensione e le incertezze della leadership Usa - è quella del summit semestrale tra l'Unione Europea e gli Stati Uniti. Nella cittadina europea il presidente Usa (al secondo impatto in terra slovena dopo l’incontro con Putin del 2001) incontrerà subito - per dare il via agli ordini di scuderia - il capo della Commissione Ue Josè Manuel Barroso e il primo ministro sloveno Janez Jansa, nella quiete della residenza di Brdo pri Kranju, vicino a Lubiana. Qui (con il Presidente della Slovenia Danilo Turk e il premier Janez Jansa) saranno ribadite le linee generali del vertice: la questione della sicurezza, le sfide mondiali, la politica regionale e la cooperazione bilaterale. Tutto, ovviamente, si svolgerà come previsto dal copione, con una serie ben individuata e ben ponderata di priorità.

di Giuseppe Zaccagni

All’angolo di casa, in Croazia, nella piazza centrale della capitale Zagabria, tornano le camicie nere degli ustascia. Sono uomini anziani e giovani che rivendicano la loro adesione ideale a quelle organizzazioni separatiste e di estrema destra fondate nell’ottobre 1928 da Ante Pavelic colui che ha segnò una delle pagine più nere della storia del mondo slavo. Eccoli all’opera questi personaggi che riportano indietro la storia. Si ritrovano in 60.000 per assistere ad un concerto che dovrebbe caratterizzarsi con musiche popolari e nazionali. Ma a dettare lo svolgimento di questo appuntamento musicale è un personaggio che trasforma subito l’avvenimento come una vera e propria manifestazione di stampo fascista. Sul palcoscenico (caratterizzato da un’iconografia fascista che esprime odio verso il popolo serbo) c’è, infatti, Marko Perkovi? (classe 1966) noto come cantante e compositore, solista leader del suo gruppo.


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