di Marco Montemurro

Isole artificiali, alberghi sottomarini, grattacieli e nuove piramidi, così si trasformano i paesi del Golfo Persico, tutti in cammino per rincorre il sogno che si intravede a Dubai. L’emirato guidato dallo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum ormai da anni stupisce il mondo per le opere realizzate e per le dimensioni dei lavori in corso. Sono famosi edifici come l’albergo dal lusso a sette stelle Burj Al Arab, il grattacielo più alto del mondo Burj Dubai, la neve e le piste da sci nel deserto e gli arcipelaghi di isole artificiali a forma di palma e dei cinque continenti. Sorprendono molto questi progetti, ma sono solo l’inizio di un disegno più ampio. I grandi capitali della finanza araba, avendo un l’ingente liquidità a loro disposizione, investono fortemente in costruzioni con l’obiettivo di trasformare interi stati in mete turistiche e centri per affari. Il governo degli Emirati Arabi Uniti nel 2002 ha avviato la concessione di visti per risiedere nel paese agli stranieri che acquistano case e da allora il mercato immobiliare ha cominciato a lievitare.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Tutti coinvolti, tutti interessati nell’indicare soluzioni e compromessi; si muovono le diplomazie e non si contano più le interviste, le dichiarazioni e le conversazioni. E sul filo rosso del telefono che unisce le varie cancellerie si parla per ore intere. Tutti al capezzale del duce georgiano Saakasvili, impegnati o nelle preghiere di rito o in attesa del miracolo. Anche la Russia - che ha dato fuoco alle risposte militari - abbandona ora quella politica del “Niet” che fu del Gromyko sovietico. La parola passa alle diplomazie che hanno il compito di salvare il salvabile o, perlomeno, di contenere i danni causati dall’avventura georgiana contro l’Ossezia del Sud e contro l’Abkhazia. E così ci si rende sempre più conto che quelle ore 00,00 dell’8 agosto scorso (con le batterie georgiane che si scatenano all’improvviso sulle abitazioni di Tsinkvali nell’Ossezia del Sud) viste da qui potrebbero in qualche modo essere paragonabili, per gli effetti seguiti nel campo della geopolitica, a quelle terribili azioni delle ore 08,46 dell’11 settembre 2001, quando la furia terrorista colpì le torri del World Trade Center di New York. Si disse allora che il mondo cambiava. Ed ora si deve dire che anche questa volta c’è un mondo che cambia. In peggio, ovviamente.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Nella palazzina liberty situata nel vicolo moscovita Maly Rgevskij, dove ha sede l’ambasciata della Georgia è rimasta solo una targa d’ottone che ricorda l’esistenza della repubblica caucasica. All’interno dell’edificio non c’è più nessun diplomatico. E’ restato solo il vecchio centralinista che ora fa anche da portiere. Ma porte e finestre sono già sbarrate perchè la dirigenza di Tbilissi ha rotto le relazioni diplomatiche con Mosca “colpevole” di aver riconosciuto l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Ed ora, dopo la guerra calda delle settimane scorse, è guerra fredda tra Tbilisi e Mosca, con l’avvio di questa nuova fase che ha trovato anche un palcoscenico ufficiale di rilievo mondiale. Perchè alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu il rappresentante russo, Vitaly Ciurkin, ha gettato il guanto di sfida al suo collega americano, l'ambasciatore aggiunto Alejandro Wolff. Tra i due sono volate parole dure e poco diplomatiche che hanno evidenziato una situazione di estrema tensione che da tempo non si registrava attorno al tavolo rotondo del Consiglio.

di Valentina Laviola

Da alcuni giorni ormai migliaia di persone assediano la sede del governo per dimostrare il loro dissenso. Sono i sostenitori del PAD-People’s Alliance for Democracy, un partito allineato su posizioni conservatrici, che si appoggia alla monarchia e all’esercito. Chiedono con fermezza le dimissioni del primo ministro Samak Sundarevej e del suo gabinetto e non intendono andarsene finché non le avranno ottenute. Accusano il premier (espresso dal Partito del Potere del Popolo) di non essere altro che un fantoccio e di proseguire quella politica corrotta che aveva caratterizzato il suo predecessore Thaksin Shinawatra. Costui si trova attualmente in esilio, a seguito del golpe militare che lo ha destituito nel 2006 e ha messo al bando il suo partito, ma il sospetto è che continui ad agire da dietro le quinte. Alcuni movimenti di protesta si erano registrati già da maggio a Bangkok, ma nulla di comparabile a quanto sta accadendo ora: circa 10.000 persone sono letteralmente accampate nell’area che circonda la sede del governo, organizzate a resistere per giorni e determinate a contrastare eventuali interventi delle forze dell’ordine.

di Michele Paris

Erano sostanzialmente due gli obiettivi che Barack Obama si era imposto di raggiungere con il discorso di accettazione destinato a chiudere la Convention democratica giovedì a Denver in pieno prime-time televisivo per il pubblico americano. Da un lato dare forma concreta a quella promessa di cambiamento che lo aveva proiettato al comando delle primarie durante i primi mesi dell’anno; dall’altro dimostrare di poter fronteggiare John McCain senza timori sui temi della politica estera e della sicurezza nazionale. Nonostante non siano stati fugati i dubbi di quanti all’interno del suo partito temono che gran parte dell’elettorato statunitense ancora non abbia un’idea totalmente chiara di chi sia veramente questo 47enne senatore afro-americano dell’Illinois, il suo straordinario talento di oratore gli ha permesso tutto sommato di risolvere positivamente una quattro giorni di Convention che si era aperta prima con l’investitura ufficiale del vecchio, e malato, Ted Kennedy e proseguita successivamente con il messaggio congiunto di unità dei coniugi Clinton.


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