di Mario Braconi

Crescita della disoccupazione, inasprimento della sperequazione economica, esplosione del debito pubblico e del deficit della bilancia commerciale: dopo sette anni di Bush, l’economia americana è in grave difficoltà. Quando i repubblicani sbandierano la crescita del prodotto interno lordo durante i due mandati Bush, dimenticano che tale crescita è stata causata dalla politica monetaria espansiva e dalla bolla immobiliare (che peraltro il governo non ha tenuto sotto controllo come avrebbe dovuto fare). Quando Bush è stato eletto, nel gennaio del 2001, ha ereditato un avanzo di bilancio di oltre il 2% del PIL; dopo i primi quattro anni di governo, grazie alle guerre per il petrolio e a due ondate di tagli fiscali inutili quanto iniqui, il surplus si è volatilizzato, sostituito da un disavanzo del 3,6%. Per quanto riguarda le avventure belliche americane, l’unica “sicurezza” per il Paese è il gran numero di vite americane perse in Afghanistan e in Iraq (oltre 4.000); molto difficile invece sapere quanto la guerra costerà in termini monetari.

di Giuseppe Zaccagni

Anche la Cina, in silenzio, partecipa al conto alla rovescia per il 44mo Presidente degli Usa. Ma in attesa del fatidico 20 gennaio 2009 non fa cenno a preferenze e decide di non votare. Non sceglie il repubblicano John Mc Cain e non fa il tifo per Barack Obama. Tira fuori la sua filosofia basata su un secolare pragmatismo geopolitico che non è, però, un isolamento internazionale. Cerca di non scoprire le carte al fine di mantenere gli equilibri raggiunti perchè sa di trovarsi in una situazione particolare ed anche incerta perché “accerchiata” da grandi realtà che si chiamano Russia e Giappone. Sa anche che i rapporti di forza in Asia si sono modificati. E che il suo rapidissimo sviluppo economico li trasformerà ancora. Con le frontiere reali, quelle economiche, che peseranno sempre più sugli equilibri mondiali. Di qui una attesa silenziosa ed attenta. Ma la diplomazia obbliga pur sempre a muovere le pedine.

di Michele Paris

La possibile diversa spartizione del voto cattolico nelle imminenti presidenziali americane rispetto al 2004 è un’altra delle tante eredità negative che l’amministrazione Bush ha lasciato quest’anno al candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain. Anche se tradizionalmente schierati in grande maggioranza a favore dei democratici, gli elettori cattolici americani avevano in realtà contribuito in maniera fondamentale alla vittoria repubblicana quattro anni fa, facendo spostare l’ago della bilancia verso il presidente in carica in una manciata di stati chiave. I cattolici negli Stati Uniti costituiscono circa un quarto dell’intero corpo elettorale, ma la loro presenza si concentra per lo più in alcune aree del paese strategicamente importanti nell’Election Day. In stati come Michigan, Pennsylvania, Missouri e Ohio – stati che complessivamente assegnano 69 voti elettorali e, in particolare gli ultimi due, ancora in bilico tra Obama e McCain – l’elettorato cattolico ammonta infatti a circa un terzo dei votanti. Senza contare poi la popolazione cattolica di origine ispanica estremamente numerosa in altri quattro “swing states” come Colorado, Florida, Nevada e New Mexico.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Jerry e Martha insegnano spagnolo in un college di Long Island, la lunghissima isola alle porte di New York. Sono le nove di sera alla sede locale del partito democratico, persino dopo un pomeriggio di campagna elettorale Jerry ha ancora l'entusiasmo del ragazzino: “Queste elezioni sono diverse, sta finalmente nascendo un nuovo movimento. Questa è la campagna più importante da una generazione a questa parte”. Jerry ha partecipato attivamente a tutte le elezioni dagli anni sessanta, ma non ha mai visto tanta mobilitazione popolare. Sua moglie Martha, in pensione da pochi mesi, è appena tornata da una settimana di febbrile campagna in Pennsylvania, uno dei famigerati “swing states”. “Ci siamo già stati un mese fa insieme - mi spiega Jerry - abbiamo fatto il giro delle comunità dei latinos, passando porta a porta per registrarli a votare, ma per lei è una missione”.

di Carlo Benedetti

MOSCA. L’ultimo picchetto d’onore della liturgia sovietica è stato quello che raggiunse il Mausoleo di Lenin, sulla Piazza Rossa, alle 15 del 6 ottobre 1993. Da quel momento il responsabile delle guardie del corpo, il maggiore Aleksander Gorbunov – seguendo un “ukase” del presidente Eltsin – stabilì un nuovo percorso per il drappello d’onore. Non più dalla torre Spasskaja del Cremlino, verso quello che era definito il “posto di guardia numero uno”, ma verso il monumento al Milite Ignoto, nei giardini di Alessandro. Si concludeva così una cerimonia religiosa che si era ripetuta – ogni ora, ininterrottamente, giorno e notte – dalle ore 16 del 27 gennaio 1924, quando tre ufficiali dell’Armata Rossa (Grigorij Kolobov, Arseni Kashin e l’ungherese Janos Mezaros) effettuarono il primo turno. Da allora il picchetto d’onore raggiunse gradi di preparazione di alto livello, con una precisione cronometrica: in 35 secondi e 210 passi, dalla porta della torre Spasskaja sino a quella del mausoleo (sempre semi-aperta).


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