La giustizia australiana ha emesso martedì per la prima volta in assoluto un verdetto di condanna in un caso di crimini di guerra collegato ai due decenni di occupazione militare dell’Afghanistan. A ricevere la condanna non è stato però nessuno dei militari che ha commesso materialmente oppure facilitato o insabbiato questi crimini, nonostante le prove per farlo siano da tempo anche di pubblico dominio, bensì uno dei “whistleblowers” che ha fatto conoscere al pubblico questi stessi crimini commessi contro i civili afgani. Il condannato in questione è l’avvocato militare David McBride, oggetto di una pesante sentenza per avere sottratto documenti riservati all’esercito australiano e poi condivisi con alcuni giornalisti della rete pubblica ABC.

L’offensiva lanciata nei giorni scorsi dalle forze russe in direzione nord-sud verso la regione di Kharkov segna probabilmente una nuova tappa del processo di sfaldamento del regime di Zelensky e sta già mettendo alla prova i suoi sponsor NATO, alcuni dei quali discutono apertamente del possibile invio di propri militari sul fronte ucraino. Come di consueto, i vertici politici e militari russi tengono le carte coperte riguardo le scelte tattiche e strategiche nel teatro di guerra. L’operazione in corso può avere tuttavia svariati obiettivi e vantaggi, in grado di riflettersi lungo tutto il fronte di un conflitto che sembra avere imboccato ormai una direzione irreversibile.

La Palestina è qualificata a diventare uno stato membro delle Nazioni Unite. A dirlo sono 143 paesi ai quali si oppongono in 9. A girare la testa altrove sono invece 25, che dietro un’apparente equidistanza, esibiscono la loro totale inadeguatezza alla gestione della governance internazionale. Per certi aspetti, la coscienza civile e la civiltà giuridica sono offese più dai 25 astenuti che dai nove contrari. Perché se tra i contrari vi sono Paesi che sarebbe più onesto definire appezzamenti di terra coloniali degli USA (Palau, Nauru, Micronesia, Papua Nuova Guinea, Ungheria, Argentina e Repubblica Ceca), nelle astensioni (Germania, Gran Bretagna, Italia, Olanda, Svezia, Austria, Canada, Svizzera, Finlandia, Ucraina, Albania, Bulgaria, Romania, Croazia, Moldavia, Georgia, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Paraguay, Isole Marshall, Fiji, Vanuatu, Malawi, Principato di Monaco) risiede un pezzo importante dell’Europa e di altri paesi richiedenti a urgenza variabile l’inserimento nella UE.

Il partito unico che controlla il potere negli Stati Uniti ha salvato mercoledì lo “speaker” della Camera dei Rappresentanti, il repubblicano Mike Johnson, grazie al consolidarsi di una maggioranza bipartisan schiacciante per respingere una mozione di sfiducia presentata dall’estrema destra del suo partito. A soccorrere il leader repubblicano alla camera bassa del Congresso di Washington, installatosi meno di sette mesi fa, è stata la grande maggioranza dei deputati democratici. I vertici del partito del presidente Biden si erano d’altra parte impegnati a intervenire, con un’iniziativa politica che dimostra ancora una volta l’ampia convergenza sui temi cruciali per l’imperialismo americano, come la prosecuzione della campagna anti-russa attraverso il regime ucraino.

La visita di questa settimana in tre paesi europei del presidente cinese, Xi Jinping, si inserisce nel quadro della competizione globale sempre più accesa tra Washington e Pechino, che vede nel vecchio continente uno dei terreni di scontro più importanti. Con Francia, Ungheria e Serbia sulla sua agenda europea, il leader della Repubblica Popolare ha operato una scelta strategica ben precisa, a cui si ricollega anche la recente trasferta del cancelliere tedesco Scholz in Cina. Tra polemiche sulle questioni commerciali e di “sovracapacità” industriale, nonché sul conflitto russo-ucraino, la presenza di Xi in Europa potrebbe riaccendere le tensioni tra quei paesi meglio disposti verso le opportunità offerte da Pechino e quelli più ostili. Il tutto nel pieno del processo di arretramento in Occidente dei principi del libero mercato a favore della costruzione, sia pure ancora nelle fasi iniziali, di vere e proprie economie di guerra.


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