Dopo la clamorosa sentenza emessa lunedì dalla Corte Suprema americana, la natura del governo degli Stati Uniti potrebbe cambiare radicalmente. La maggioranza ultra-conservatrice dei giudici ha riconosciuto una “parziale” immunità legale al presidente, trasformandolo di fatto in un soggetto al di sopra della legge e quindi, per quelle azioni compiute nell’esercizio delle proprie funzioni, non perseguibile potenzialmente per nessun crimine. Il caso specifico riguarda Donald Trump e avrà ripercussioni sulla campagna elettorale in corso e le elezioni di novembre, ma le implicazioni sono molto più ampie e gettano solide fondamenta per la creazione di una vera e propria dittatura presidenziale.

 

La gravità del verdetto del più alto tribunale americano si evince dalle durissime opinioni scritte dai tre giudici di minoranza dopo la lettura delle conclusioni da parte del presidente della Corte Suprema, John Roberts. La giudice Ketanji Brown Jackson ha spiegato che la teoria dell’immunità per gli “atti ufficiali” che riguardano la figura del presidente non ha nessun appiglio nel testo della Costituzione, né nella storia del paese o in precedenti legali. Piuttosto, in merito all’argomento all’attenzione dei giudici, tutti gli elementi a disposizione “puntano nella direzione opposta” alla decisione presa dalla maggioranza. In definitiva, continua la giudice Jackson, tutto ciò che in futuro i presidenti americani dovranno fare se volessero commettere un crimine, è sostenere che quest’ultimo consiste semplicemente in un “atto ufficiale”.

Un’altra giudice che ha votato contro l’opinione della maggioranza dei sei giudici, Sonya Sotomayor, ha affermato inoltre che la sentenza “crea uno spazio attorno al presidente dove la legge non viene applicata”, ribaltando “lo status quo esistito fin dalla Fondazione [della repubblica]”. Secondo questo principio, avverte la giudice nominata da Obama, al presidente degli Stati Uniti sarebbe assicurata l’immunità anche nel caso ordinasse l’assassinio di un rivale politico oppure organizzasse un colpo di stato militare per restare al potere o, ancora, ricevesse una tangente in cambio di un provvedimento di grazia. In sostanza, conclude la giudice, “un capo di governo al di sopra della legge viene definito dittatore”.

Il docente dell’American University, Chris Edelson, in un’intervista a Al Jazeera ha ricordato come, di fatto, nell’era moderna i presidenti americani abbiano già esercitato il potere senza restrizioni significative. Con la sentenza di lunedì della Corte Suprema, tuttavia, questo comportamento è stato ratificato ufficialmente. Non solo, ancora più preoccupante è il fatto che il caso riguarda un ex presidente che ha già attentato all’ordine costituzionale e, in un evento pubblico di qualche mese fa, aveva ammesso apertamente di aspirare a governare da dittatore, anche se, a suo dire, solo per un giorno.

Il caso che riguarda Trump per i fatti relativi all’assalto dei suoi sostenitori all’edificio del Congresso il 6 gennaio 2021, per cui l’ex presidente chiedeva appunto l’immunità, verrà ora rimandato alla corte d’Appello che aveva respinto l’istanza di quest’ultimo. La giudice distrettuale Tanya Chutkan dovrà valutare, in base alla sentenza della Corte Suprema, quali fatti sollevati dall’indagine del procuratore speciale Jack Smith saranno da ritenersi “atti non ufficiali”, quindi perseguibili, e quali invece “ufficiali” e non perseguibili.

Il caso stava già andando a rilento e gli ultimi sviluppi fanno in modo che Trump riuscirà molto probabilmente a evitare che il processo inizi prima delle elezioni del 5 novembre. Se la Corte Suprema si fosse invece espressa contro l’ex presidente, il procedimento a suo carico avrebbe potuto fare i primi passi in tempi relativamente brevi, tenendo Trump impegnato in aula durante la campagna elettorale, mentre il verdetto sarebbe potuto arrivare prima dell’apertura delle urne.

Svariati commenti alla sentenza apparsi sui media americani nelle ultime ore hanno fatto riferimento alla famosa intervista rilasciata da Richard Nixon nel 1977 al giornalista David Frost, tre anni dopo le dimissioni per le conseguenze del caso “Watergate”. L’ex presidente repubblicano aveva ad un certo punto sostenuto che “se un’azione viene intrapresa dal presidente, significa che non è illegale”. Per i decenni successivi, questa affermazione è stata giudicata come un’ammissione di colpa per i crimini ascritti a Nixon, mentre oggi è stata sanzionata a tutti gli effetti dalla Corte Suprema come un principio costituzionale.

In prospettiva, la decisione di lunedì, che mette in pratica al riparo il presidente degli Stati Uniti da ogni conseguenza legale delle sue azioni, incluse quelle di natura oggettivamente criminale, segna una nuova tappa del processo regressivo intrapreso dal sistema “democratico” americano. Tra gli eventi di maggiore rilievo di questa deriva, se ne possono citare almeno due. Il primo è l’intervento sempre della Corte Suprema nel 2000 per fermare il riconteggio delle schede elettorali in Florida e consegnare a George W. Bush un’elezione a tutti gli effetti rubata. L’altro è l’auto-attribuzione dei poteri di uccidere un cittadino americano senza nessun processo o meccanismo legale da parte del presidente Obama nel 2010. Quest’ultimo è il caso dell’assassinio mirato con un drone della CIA del predicatore Anwar Al-Awlaki in Yemen, seguito due settimane più tardi da quello del figlio sedicenne.

Il procedere a grandi passi verso una forma autoritaria di governo negli Stati Uniti rende ancora più assurde le pretese, alla base delle guerre e dei tentativi di espandere l’egemonia di Washington nel pianeta, di operare in nome dei principi di libertà e democrazia. Il primo riflesso di questo processo è il probabile proscioglimento di Trump nei procedimenti che lo vedono implicato per crimini di estrema gravità. Oltre al caso dell’assalto a Capitol Hill, potrebbero svanire nel nulla anche i procedimenti aperti per le pressioni sulle autorità della Georgia, allo scopo di ribaltare i risultati delle presidenziali del 2020, e per il ritrovamento di documenti governativi classificati nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida.

Non meno preoccupante della sentenza della Corte Suprema è stata la reazione dell’attuale inquilino della Casa Bianca, anch’egli in piena di crisi di legittimità dopo il recente dibattito presidenziale con Trump. Joe Biden ha fatto una breve apparizione pubblica lunedì per denunciare il verdetto sull’immunità. Correttamente, il presidente democratico ha sollevato il problema del “pericoloso precedente” stabilito dalla Corte e i rischi dell’assenza di limiti legali posti all’azione del vertice dello stato e del governo.

Allo stesso tempo, però, Biden ha ricondotto il problema alla minaccia di un secondo mandato di Trump, proponendo come unico rimedio non un intervento legislativo del Congresso o una riforma della Corte Suprema, ma il voto a novembre contro l’ex presidente. Come se, in altre parole, un voto per Biden non implicasse la consegna anche a quest’ultimo di poteri virtualmente assoluti o che un presidente democratico non rappresenti un rischio perché, semplicemente, garantirebbe in teoria l’esercizio del potere in maniera più responsabile.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy