La disastrosa prestazione di Joe Biden nel primo dibattito presidenziale di giovedì ha scatenato uno tsunami di reazioni isteriche sulla stampa americana “mainstream”, che chiede improvvisamente il clamoroso ritiro del candidato democratico dalla corsa alla Casa Bianca. Quella in corso in queste ore ha tutti i contorni di una campagna pianificata da tempo che attendeva solo l’occasione propizia per esplodere ed esplorare le modalità per mettere da parte un presidente chiaramente avviato da tempo verso il declino fisico e intellettuale.

Il suggello su questa operazione lo ha messo giovedì il comitato di redazione del New York Times con un articolo nel quale Biden viene sollecitato a ritirare la sua candidatura alla presidenza. I vertici del giornale invitano a prendere atto che l’inquilino della Casa Bianca “non è l’uomo che era quattro anni fa” e che non esiste più alcun “fondamento logico per cui Biden debba essere quest’anno il candidato democratico [alla presidenza]”. Segue poi il riconoscimento di quanto gli americani hanno potuto osservare nell’evento di giovedì, cioè l’evidenza del peso “dell’età e delle limitazioni” fisico-mentali di Biden che rendono impossibile per lui sostenere una campagna elettorale e, tantomeno, un secondo mandato alla guida degli Stati Uniti.

 

Già nella serata di giovedì, poco dopo la conclusione del dibattito con Trump, le testate on-line americane si erano scatenate, dando voce soprattutto agli “insider” del Partito Democratico che, spesso in forma anonima, avevano suonato l’allarme e sollecitato un rapido avvicendamento del loro candidato. Politico aveva pubblicato in rapida successione almeno tre articoli dai toni super-allarmati. A breve distanza, praticamente tutta la galassia “mainstream” ha battuto sullo stesso tasto, facendo diventare la questione dell’impossibilità di Biden di continuare a correre per la Casa Bianca l’argomento principale del dibattito pubblico americano.

Come sempre accade in questi casi e in questi ambienti, il putiferio scatenatosi è in larga misura artificioso e tutt’altro che spontaneo o inaspettato. I segnali, anzi molto di più di questi, delle svanite capacità cognitive di Biden erano chiari da tempo. Chiunque avesse avuto modo di osservare le sue uscite pubbliche, inclusa quella più recente nel corso del G-7 in Puglia, poteva rendersi conto di una situazione diventata ormai insostenibile. Commentatori vicini al Partito Democratico e i portavoce della Casa Bianca continuavano a proporre assurde giustificazioni per il comportamento del presidente, negando incredibilmente l’evidenza.

Dopo il dibattito di giovedì, invece, improvvisamente anche molti negli ambienti almeno all’apparenza più favorevoli alla candidatura di Biden si sono accorti che l’81enne candidato alla rielezione è diventato un peso che, se non dovesse ritirarsi, trascinerà in maniera inevitabile il partito alla sconfitta a novembre e favorirà il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Lo scenario a cui si sta assistendo solleva una valanga di dubbi sugli eventi di questi giorni.

È fortissimo il sospetto ad esempio che la fazione del Partito Democratico e dell’entourage presidenziale più allarmata per le condizioni di Biden avesse appositamente acconsentito a un rischiosissimo faccia a faccia con Trump proprio per fare esplodere il caso della candidatura del presidente. Un altro elemento a sostegno di questa tesi è il fatto che quest’anno il dibattito è stato fissato con l’anticipo più grande rispetto alla data delle elezioni di qualsiasi altra campagna elettorale. C’è da credere cioè che, visti i tempi ristretti per nominare un eventuale candidato alternativo, alcuni democratici puntassero a fare esplodere la polemica su Biden il prima possibile.

L’imboscata che gli avrebbero così teso, attraverso l’umiliazione di giovedì, evidenzia anche il carattere anti-democratico dell’operazione. Le condizioni di Biden erano note da mesi, come è stato già spiegato, ma i vertici del partito si sono ben guardati dal promuovere una discussione pubblica per tempo, lasciando esprimere gli elettori sulla questione attraverso le primarie e la possibile scelta di altri candidati. La stagione delle primarie è stata invece di fatto neutralizzata e, a parte il limitato voto di protesta contro l’appoggio dell’amministrazione Biden al genocidio israeliano, il presidente in carica è stato riconfermato senza problemi per la “nomination” democratica.

A urne chiuse, viene ora deciso di dare il via libera all’assalto a Joe Biden, con la decisione di trovare un altro candidato, se effettivamente il presidente dovesse farsi da parte, messa nelle mani di un numero ristretto di uomini del partito. Insomma, le elezioni non devono essere affare degli elettori. È chiaro e poco sorprendente che le esplosive questioni politiche e sociali che interessano la classe dirigente americana – sia sul fronte domestico che internazionale – richiedono un controllo pressoché assoluto sui processi di selezione dei suoi leader.

Infatti, come ha fatto anche l’editoriale del Times, i nomi dei papabili sono già stati distribuiti al pubblico e tutti sono evidentemente cavalli sicuri per l’establishment americano. D’altronde, la preoccupazione principale che muove le trame in corso contro Joe Biden non ha a che fare con la presenza di un incapace alla guida di un paese di 350 milioni di abitanti, ma che il ritorno di Trump alla Casa Bianca metta in pericolo gli obiettivi della politica estera imperiale, ovvero l’intensificazione dell’offensiva contro Russia e Cina.

Tra i nomi che circolano insistentemente ci sono quelli dei governatori di California, Michigan e Illinois, rispettivamente Gavin Newsom, Gretchen Whitmer e il multimiliardario J. B. Pritzker. Più improbabile ma ugualmente sussurrato è il rilancio dell’ultra-screditata Hillary Clinton, che però difficilmente acconsentirà ad andare incontro a una nuova sconfitta contro Trump. Stesso discorso vale per la vice-presidente, Kamala Harris, perennemente nell’ombra durante il primo mandato di Biden e universalmente considerata una scelta perdente in partenza.

Le regole del Partito Democratico in casi simili non sono del tutto chiare, ma analisti ed esperti sembrano concordare sul fatto che, per innescare il processo di sostituzione del candidato, servirà in primo luogo che il vincitore della nomination, cioè Joe Biden, si faccia da parte volontariamente. Al momento, lo staff del presidente e la sua consorte non sembrano intenzionati a fare un passo indietro ed è probabile che sia in corso un duro scontro tra questi ultimi e gli ambienti del partito che spingono per un altro candidato.

Sembra comunque probabile che il treno partito dopo il dibattito di giovedì non possa essere fermato e, d’altra parte, le condizioni fisico-mentali di Biden appaiono in continuo deterioramento. Anche l’evento pubblico organizzato venerdì in North Carolina per mettere una pezza al disastro del giorno prima si è risolto in nuovo flop che ha rafforzato gli argomenti di quanti vogliono vedere il presidente fuori gioco.

Tutto lo spettacolo in corso negli Stati Uniti ha comunque un carattere profondamente anti-democratico, in linea con l’estremo degrado dei processi politici, sociali ed economici americani degli ultimi decenni. Lo stesso dibattito di giovedì ha rappresentato forse il punto più basso finora del processo di disintegrazione del sistema “democratico” d’oltreoceano, simboleggiato da un presidente appena in grado di articolare frasi logiche e da un candidato ed ex presidente golpista che fa della menzogna e dell’appello alle forze più retrograde del paese la sua cifra politica.

Nel trambusto del caso Biden, oltretutto, sono passati in secondo piano altri segnali allarmanti in vista del voto, come ad esempio, in un eco degli eventi del 6 gennaio 2021 con l’assalto all’edificio del Congresso, l’ennesimo rifiuto di Donald Trump, durante il dibattito, di impegnarsi esplicitamente ad accettare il risultato delle elezioni del prossimo novembre.

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