Se rimaneva qualche dubbio sulla natura del piano promosso dagli Stati Unit per dispiegare un corpo di polizia internazionale guidato dal Kenya ad Haiti, una tragica coincidenza avvenuta questa settimana ha provveduto a fugarli completamente, dimostrando il carattere predatorio e repressivo dell’operazione autorizzata formalmente dal Consiglio di Sicurezza ONU lo scorso anno. Proprio mente a Port-au-Prince approdavano i primi 400 dei circa mille agenti kenyani previsti, a Nairobi e nel resto del paese africano andava in scena una feroce repressione della rivolta esplosa contro un pacchetto di austerity approvato dal parlamento su ordine del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Il numero di vittime tra i manifestanti, definiti “traditori” dal presidente William Ruto, recentemente accolto con tutti gli onori alla Casa Bianca, è superiore a venti e anticipa in modo inquietante il trattamento che potrebbe essere riservato alla popolazione haitiana nei prossimi mesi.

 

Il compito della “missione” internazionale ad Haiti è ufficialmente di contrastare lo strapotere delle gang armate che controllano ormai gran parte del territorio della capitale e non solo. Negli ultimi anni, questa situazione ha causato un aumento vertiginoso dei livelli di violenza, rendendo ancora più drammatiche le condizioni di vita di una popolazione già allo stremo. In totale, saranno circa 2.500 gli uomini impiegati nel paese caraibico. Il personale kenyano rappresenterà la maggioranza di questi ultimi, ma altri governi hanno deciso di partecipare inviando propri agenti, tra cui quelli canadese, francese, tedesco e britannico. Gli Stati Uniti non avranno invece personale sul campo, visto che la presenza di un contingente americano sarebbe una questione troppo esplosiva alla luce dei precedenti storici. Washington è però lo sponsor principale del progetto e ne sosterrà quasi interamente il finanziamento con un esborso di poco meno di 400 milioni di dollari.

La nuova fase della crisi cronica che attraversa Haiti era iniziata con l’assassinio nel luglio 2021 del presidente, Jovenel Moïse, a cui era succeduto, con una manovra dalla dubbia legalità, Ariel Henry, il quale ha ricoperto fino alla fine di aprile anche la carica di primo ministro ad interim. Con l’intensificarsi della crisi interna, Henry era stato alla fine costretto alle dimissioni dall’amministrazione Biden, che, formalmente di comune accordo con gli altri partner internazionali, aveva imposto la creazione di uno speciale consiglio a cui sono stati trasferiti i poteri del presidente e del capo del governo.

Con questa architettura istituzionale faticosamente messa in piedi, la missione di polizia internazionale guidata dal Kenya è stata finalmente sbloccata. Ostacoli legali erano però emersi anche nel paese africano. Infatti, l’accordo preso personalmente dal presidente Ruto con gli Stati Uniti era stato bloccato da una sentenza dell’Alta Corte kenyana, secondo la quale era incostituzionale l’invio di agenti di polizia all’estero. Ruto e la sua maggioranza parlamentare avevano allora adottato un provvedimento ad hoc per superare le resistenze della giustizia, ma lo stesso tribunale era di nuovo intervenuto per richiedere la stipula di un accordo bilaterale con le autorità di Haiti. Il problema in questo caso era la legittimità del presidente haitiano Henry, ma a inizio marzo le due parti avevano comunque sottoscritto un accordo formale.

La determinazione con cui Ruto si è messo al servizio di Washington, autorizzando un’operazione impopolare in patria e molto probabilmente illegale, si spiega con i benefici che ha ricevuto in cambio. Primo fra tutti la designazione del Kenya come “principale alleato non-NATO”, avvenuta nel corso della recente già ricordata trasferta di Ruto negli Stati Uniti. Questa formula comporta una serie di vantaggi sul piano militare, commerciale e della sicurezza.

La Casa Bianca si è a sua volta adoperata per ripulire l’immagine delle forze di polizia kenyane, presentate come una sorta di modello di moralità e democrazia. Al contrario, molte organizzazioni a difesa dei diritti umani hanno denunciato i precedenti non esattamente edificanti di queste ultime, responsabili di violenze, esecuzioni extragiudiziarie e abusi vari. A conferma di questa realtà, nei giorni scorsi proprio queste stesse forze di sicurezza sono intervenute per reprimere nel sangue le manifestazioni scoppiate in Kenya contro il provvedimento promosso dal FMI citato all’inizio.

La legge di bilancio 2024 contiene aumenti alle tasse che colpiscono in maniera sproporzionata le fasce più povere della popolazione, con l’obiettivo di aumentare le entrate pubbliche di 2,7 miliardi di dollari, come appunto richiesto dal FMI. L’impatto risulterebbe pesantissimo, andando a gravare su una situazione già più che precaria. Secondo uno studio di Oxfam, lo 0,1% della popolazione del Kenya (8.300 individui) detiene ricchezze maggiori del restante 99,9%, pari a oltre 44 milioni di persone.

Dopo le proteste e i massacri delle forze di polizia, mercoledì il presidente Ruto ha ritirato la legge appena approvata dal parlamento. A influire sulla decisione è stato il pericolo che la rivolta si diffondesse a tutto il paese e contro l’intero sistema post-coloniale kenyano, come i segnali solo il giorno precedente facevano intravedere. Soprattutto, la sollevazione popolare sembrava già superare le tradizionali divisioni tribali della società, alla base anche nel recente passato di gravissimi scontri e su cui la ristretta élite kenyana fa affidamento per neutralizzare il rischio del coagularsi di un’opposizione unitaria tra le classi più povere.

Il passo indietro di Ruto è comunque solo una mossa opportunistica che non implica né l’allentamento delle misure fiscali di austerity né lo sganciamento dal Fondo Monetario Internazionale. Se il presidente ha cambiato completamente la propria retorica nell’arco di 24 ore, fino a esprimere dolore per la morte di manifestanti definiti solo il giorno prima “traditori”, “violenti” e “anarchici”, non ha invece modificato gli obiettivi economici e finanziari per il paese.

Ruto ha infatti proposto un meccanismo per coinvolgere le varie parti politiche e sociali al fine di arrivare a un piano condiviso che riduca comunque la spesa pubblica e aumenti il carico fiscale. In altre parole, cercherà la collaborazione dei partiti di minoranza e dei sindacati per far digerire sostanzialmente le stesse misure di austerity appena sospese.

Per quanto riguarda ancora Haiti, tra i movimenti della società civile e la popolazione locale stanno aumentando le preoccupazioni per le conseguenze dell’arrivo di un corpo di polizia internazionale che non conosce il territorio, non parla la lingua locale e ha ampi poteri repressivi. La storia di Haiti è d’altra parte piena di “interferenze” straniere di questo genere, tutte o quasi con gli Stati Uniti protagonisti in maniera diretta o dietro le quinte.

Dall’occupazione americana tra il 1915 e il 1934 alla dittatura dei Duvalier (1957-1986), dalla deposizione forzata del presidente Aristide alla disastrosa missione ONU conclusa nel 2017 (MINUSTAH), i precedenti abbondano. L’obiettivo, come nel caso attuale, non è mai stato l’interesse della popolazione haitiana o la stabilità interna, ma la garanzia del controllo dell’imperialismo a stelle e strisce sulla politica, la società e l’economia del disperato paese caraibico.

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