La diffusione di notizie false costituisce sempre più un ingrediente essenziale delle politiche imperialiste. In tal modo le centrali propagandistiche votate a mantenere ad ogni costo il predominio degli Stati Uniti e della NATO su un pianeta in rapida trasformazione politica, economica e sociale, intendono calibrare la loro offensiva in relazione alle nuove caratteristiche assunte dal sistema dei media, specie con la nascita e la rapida propagazione dei cosiddetti social media.

Obiettivo privilegiato di tale offensiva propagandistica è, ancora una volta, in primo luogo il governo cubano. Alcune fonti anonime statunitensi denunciano in effetti il tentativo di danneggiare i rapporti esistenti tra Cuba e Panama, accreditando l’idea che vi sarebbe una regia cubana dietro i movimenti sociali che contestano lo sfruttamento di risorse minerarie panamensi da parte di imprese canadesi. Casi di rilievo anche maggiore si sono verificati nei confronti della Bolivia, al tempo del colpo di Stato di Jeanine Añez e, più di recente, in Perù, dove alcune rappresentanti parlamentari del partito Avanza País hanno lamentato, senza alcun fondamento, pretese intromissioni di diplomatici cubani negli affari interni di tali Paesi.

L’amministrazione democratica americana starebbe studiando un piano per ristabilire una qualche forma di “governance” a Gaza dopo che le forze armate israeliane avranno terminato il massacro in corso di civili palestinesi. L’opzione che la Casa Bianca e il dipartimento di Stato giudicano come la migliore o, più precisamente, la meno peggio è l’assunzione delle responsabilità di governo nella striscia da parte dell’Autorità Palestinese (AP). Questa soluzione, per stessa ammissione di molti esponenti del governo USA, è tutt’altro che semplice e sembra al momento osteggiata anche dal primo ministro Netanyahu e dal suo gabinetto di fanatici sionisti. Il fatto che a Washington si continui a nutrire l’illusione di una via d’uscita alla crisi palestinese puntando sull’ultra-screditato organo guidato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) dimostra a sufficienza lo stato comatoso della diplomazia americana, assieme alle ragioni della rapida perdita di influenza degli Stati Uniti nella regione mediorientale.

Tra i fronti “secondari” della guerra scatenata da Israele a Gaza sta guadagnando rapidamente intensità quello con il governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (Houthis). L’intervento a sostegno della causa palestinese sembra avere il potenziale di causare gravi danni economici allo stato ebraico e non solo, visto che minaccia le rotte navali che dal golfo di Aden e il Mar Rosso transitano attraverso il canale di Suez. Ansarallah ha assunto una posizione molto netta contro il genocidio e intende continuare a prendere di mira con missili e droni le imbarcazioni legate a Israele, o ai suoi alleati che facilitano i massacri quotidiani nella striscia, che navigano al largo delle coste dello Yemen.

L’avvicinarsi dell’epilogo della crisi russo-ucraina, quanto meno per quanto riguarda la fase militare iniziata a febbraio 2022, continua a produrre scosse e dinamiche apparentemente confuse all’interno del regime di Zelensky e i suoi sostenitori in Occidente. Il vertice NATO di settimana scorsa ha permesso all’Alleanza di ricalibrare la propria strategia comunicativa in vista della possibile “exit strategy” da un’avventura bellica a dir poco disastrosa. In un mix di messaggi ambigui, indirizzati soprattutto a Mosca, e di iniziative in larga misura di facciata, è probabile che Washington e Bruxelles stiano esplorando la soluzione meno umiliante per liberarsi in fretta dal pantano ucraino.

A impedire il lancio di un tavolo diplomatico senza condizioni è sempre il vicolo cieco in cui l’Occidente si è infilato con le provocazioni che avevano di fatto costretto la Russia a intervenire in Ucraina e, in seconda battuta, il veto posto sull’accordo tra Mosca e Kiev trovato precocemente ad aprile 2022 per mettere fine alle ostilità. L’impossibilità di fermare semplicemente l’invio di armi e denaro all’Ucraina e accogliere le richieste del paese vincitore, pena una serie di contraccolpi di natura politica e militare che potrebbero mettere a rischio la tenuta stessa della NATO, rende necessario costruire un meccanismo che, a livello di pubbliche relazioni, faccia sembrare la sconfitta una sorta di vittoria.

Finita la Tregua? Si definisce tregua la sospensione di un conflitto, delle azioni armate e di ogni procedimento ostile. E allora, se così è, nel caso israelo-palestinese bisogna aggiornare la definizione. Tregua? Quale tregua? Nei dieci giorni che la narrazione giornalistica e diplomatica hanno definito di tregua, sono morti decine e decine di palestinesi, uccisi da coloni e soldati israeliani. La tregua ha quindi riguardato solo i bombardamenti aerei, non il fuoco contro tutto ciò che c’è palestinese: bambini, uomini e donne, case e ospedali, strade e ogni genere di installazione necessaria per vivere. In quei dieci giorni di tregua non sono mancati attacchi dalle navi israeliane e non sono finiti i rastrellamenti nelle case dei palestinesi, a voler ricompensare i prigionieri rilasciati con nuovi prigionieri. In quei dieci giorni di tregua le azioni militari israeliane hanno colpito sia Gaza che la Cisgiordania, sia il Libano che la Siria.


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