Il grado di criminalità raggiunto dal regime genocida di Netanyahu nella notte di martedì con l’uccisione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, riflette il livello di disperazione raggiunto dallo stato ebraico dopo quasi dieci mesi di guerra a Gaza senza avere raggiunto un solo obiettivo strategico. Oltre a ribadire che Israele agisce di fatto come un’entità terroristica, l’assassinio mirato del capo dell’ufficio politico del movimento di liberazione palestinese conferma senza alcun dubbio almeno due delle intenzioni del primo ministro/criminale di guerra: far saltare definitivamente le trattative diplomatiche per una tregua e scatenare una guerra di vasta portata in Medio Oriente, da far combattere però soprattutto agli Stati Uniti.

 

Haniyeh, con cui Israele stava ufficialmente negoziando un cessate il fuoco, è stato ucciso a Teheran nella residenza che gli avevano assegnato le autorità iraniane in occasione della sua visita per l’inaugurazione del nuovo presidente, Masoud Pezeshkian. Le modalità dell’operazione, sulla cui responsabilità non ci sono evidentemente dubbi, restano ancora piuttosto oscure. Nel pomeriggio di mercoledì è arrivata da Teheran la notizia che a colpire l’edificio dove soggiornava Haniyeh è stato un missile lanciato al di fuori del territorio della Repubblica Islamica.

Questa ipotesi sembra ad alcuni non del tutto credibile, ma, vista la posizione geografica della capitale iraniana, se così fosse realmente, il primo paese contro cui si può ragionevolmente puntare il dito è l’Azerbaigian. Il governo azero intrattiene d’altra parte rapporti molto stretti, anche nell’ambito della “sicurezza”, con lo stato ebraico. La versione del missile penetrato da oltre confine rappresenterebbe comunque un fallimento clamoroso dei sistemi difensivi anti-aerei iraniani, soprattutto se si considera che le misure di sicurezza avrebbero dovute essere massime vista la presenza a Teheran di ospiti importanti per l’inaugurazione del nuovo presidente.

Ugualmente o forse ancora più imbarazzante è l’altra possibilità, quella di un’operazione condotta da agenti del Mossad sul campo. Eventualità sgraditissima al governo iraniano per via dei numerosi precedenti di assassinii avvenuti in questo modo di scienziati nucleari e non solo. Altro aspetto da considerare legato alla sicurezza è la possibile localizzazione di Haniyeh grazie a uno “spyware” installato, secondo alcune notizie circolate mercoledì ma non confermate ufficialmente, sul cellulare del leader di Hamas tramite un messaggio di WhatsApp.

Il susseguirsi degli eventi nell’ultima settimana aiuta a decifrare le implicazioni dell’escalation culminata, finora, nell’assassinio di Ismail Haniyeh. Netanyahu si era recato a Washington il 22 luglio dove ha tenuto un discorso ultra-aggressivo al Congresso, per poi incontrare il presidente Biden, la quasi certa candidata alla Casa Bianca per i democratici, Kamala Harris, e il favorito nelle prossime elezioni, Donald Trump. Tornato in Israele, Netanyahu ha ordinato il bombardamento di un edifico a sud di Beirut, nel quale è rimasto probabilmente ucciso il comandante di Hezbollah, Fouad Shokor, e letteralmente poche ore più tardi l’attacco a Teheran contro Haniyeh.

Da questi fatti si evince che il primo ministro israeliano ha chiesto e ottenuto negli Stati Uniti il via libera all’allargamento del conflitto, ovvero il sostegno americano nel caso le provocazioni poi messe in atto avessero scatenato la risposta dell’Asse della Resistenza. È possibile che Netanyahu abbia approfittato del caos politico negli USA per forzare la mano alla Casa Bianca e liquidare a tempo indefinito l’opzione cessate il fuoco a Gaza.

Netanyahu si è adoperato regolarmente per boicottare le trattative in questi mesi, spesso lavorando contro i suoi stessi negoziatori. L’esempio più evidente di questa doppiezza del premier israeliano era stata la decisione di lanciare l’invasione di Rafah, nel sud della striscia, praticamente in concomitanza con la sostanziale accettazione dei termini della tregua sul tavolo da parte di Hamas. L’assassinio ora di Haniyeh mette con ogni probabilità da parte la possibilità di fermare il genocidio a Gaza in tempi brevi, garantendo a Netanyahu di continuare la strage di palestinesi con meno pressioni e senza il rischio immediato di dover fare i conti politicamente con gli eventi del 7 ottobre scorso.

Strettamente collegato a ciò è il drammatico avvicinamento di una guerra su vasta scala che Netanyahu auspica da tempo. Hezbollah e Iran, dopo gli eventi degli ultimi giorni, non potranno che reagire contro Israele e, nonostante sia possibile che i rovesci tattici appena incassati vengano giudicati non ancora decisivi per cambiare radicalmente il loro approccio alla crisi, entrambi dovranno attuare iniziative adeguate che tengano alto il livello di fiducia degli alleati.

L’analista Trita Parsi ha spiegato mercoledì in un post su X (ex Twitter) che l’assassinio di Haniyeh a Teheran ha sminuito sensibilmente l’asserzione iraniana di avere stabilito un nuovo sistema di deterrenza a favore della Repubblica Islamica grazie all’attacco dello scorso aprile nei cieli israeliani, seguito al bombardamento del consolato iraniano a Damasco. Secondo l’accademico iraniano-americano, l’operazione nella notte tra martedì e mercoledì è un messaggio per Teheran che i suoi alleati e gli stessi vertici dello stato iraniano non possono dormire sonni tranquilli in qualunque luogo si trovino. Per questa ragione, l’Iran deciderà quasi certamente di reagire.

Con una guerra contro Hamas che appare in stallo, malgrado i livelli esorbitanti di morte e distruzione provocati a Gaza, e le componenti della Resistenza sempre più disposte ad agire senza limiti contro il regime di occupazione, Netanyahu si ritrova dunque a dovere portare la guerra in Libano e in Iran per ristabilire la superiorità militare e strategica di Israele nella regione. Questa decisione determina però un innalzamento del livello dello scontro, che lo stato ebraico non sarebbe in grado di sostenere se non con il supporto americano.

Il tentativo di trascinare gli Stati Uniti nella guerra risulta chiaro anche dalla scelta di uccidere Haniyeh a Teheran e subito dopo l’insediamento formale del presidente iraniano Pezeshkian. L’operazione avvenuta nel territorio della Repubblica Islamica, secondo molti osservatori praticamente impossibile senza l’assistenza americana, e sotto la supervisione di una nuova leadership moderata, che aveva mandato qualche segnale di apertura all’Occidente, punta chiaramente a soffocare sul nascere qualsiasi eventuale ipotesi di risveglio diplomatico tra Teheran e Washington.

Gli eventi delle prossime ore e dei prossimi giorni mostreranno le intenzioni della Resistenza, se cioè gli ultimi atti di terrorismo di Israele rappresentano o meno il superamento di quella linea rossa che implica lo scatenarsi di forze che preparano da decenni un confronto a tutto campo con il regime sionista. Allo stesso tempo, la possibile escalation misurerà le intenzioni degli Stati Uniti. Il governo di Washington condivide gli obiettivi strategici di Israele in Medio Oriente, in sostanza il ridimensionamento se non la distruzione dell’Asse della Resistenza, ma per ragioni di carattere politico e di capacità militari si è finora mosso con cautela, soprattutto riguardo a una guerra con l’Iran.

L’unico dato certo è che la maschera dello stato ebraico è caduta definitivamente per mostrare a tutto il mondo la sua vera faccia. Per quanto l’Occidente insista nel ripulirne l’immagine, Israele si conferma un’entità maligna che ha perso ogni legittimità, impegnata solo a difendere un progetto messianico improntato a violenza, sopraffazione e alla distruzione fisica di un intero popolo e dei suoi rappresentanti. Testimonianza di ciò è, tra gli altri, proprio il caso dell’appena assassinato Ismail Haniyeh. La bestialità sionista aveva infatti ucciso deliberatamente nei mesi scorsi qualcosa come 60 membri della famiglia del leader di Hamas a Gaza, tra cui tre fratelli, tre figli e nove nipoti.

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