Anche se il progetto Ucraina ha imboccato da tempo l’inevitabile viale del tramonto, l’Unione Europea continua a insistere su politiche economiche ed energetiche distruttive che rispondono in teoria all’impegno per la difesa del regime di Zelensky. Questo atteggiamento produce anche crescenti tensioni tra i paesi membri. Un numero consistente di essi nutre con ogni probabilità serie riserve circa la fallimentare strategia perseguita finora sotto dettatura di Washington, anche se preferisce uniformarsi alla linea comune. Altri invece, come Ungheria e Slovacchia, si oppongono apertamente ai piani suicidi di Bruxelles e per questo sono presi di mira con iniziative deliberate che puntano a destabilizzare i rispettivi sistemi politici ed economici.

 

L’ultimo motivo di scontro è la chiusura da parte di Kiev di un oleodotto che garantisce la fornitura di petrolio russo a Ungheria e Slovacchia passando attraverso il territorio ucraino. L’impianto è la sezione meridionale dell’oleodotto Druzhba (“amicizia”) gestito dal colosso russo Lukoil e interessa anche le consegne di petrolio alla Repubblica Ceca. Il mese scorso, l’Ucraina aveva approvato sanzioni contro la compagnia privata russa, in base alle quali sono stati poi più recentemente chiusi i rubinetti del greggio transitante in direzione est-ovest. Altri produttori russi, come Rosneft e Tatneft, possono per il momento continuare a inviare petrolio attraverso lo stesso oleodotto, ma è del tutto possibile che anche questi ultimi saranno presi di mira da provvedimenti simili nel prossimo futuro.

Nel giugno dello scorso anno, l’Europa aveva decretato, nel suo ennesimo atto autolesionistico sotto forma di pacchetto di sanzioni, il divieto dell’importazione di petrolio dalla Russia attraverso oleodotti, fermando l’impianto Druzhba lungo l’asse settentrionale che serviva Germania e Polonia. Quello meridionale di cui si è già detto era stato invece esentato, viste le difficoltà per paesi senza sbocco sul mare nel trovare fonti alternative. Per Ungheria e Slovacchia era stato cioè deciso di concedere tempi più lunghi per lo svincolo dal petrolio russo, ma la decisione ucraina di qualche giorno fa ha accelerato drasticamente i tempi.

I due paesi hanno riserve che dovrebbero evitare scosse per circa tre mesi, ma i rischi sono più che evidenti già da ora. L’Ungheria importa il 70% del petrolio necessario al suo fabbisogno dalla Russia e la metà di esso da Lukoil. Se poi fossero anche individuati fornitori alternativi, le raffinerie esistenti potrebbero avere seri problemi di ordine tecnico per trattare greggio di un grado diverso da quello per cui sono state configurate finora.

La minaccia più immediata per Ungheria e Slovacchia è ovviamente l’impennata dei costi energetici. A testimonianza del carattere insensato delle politiche europee, i cittadini ungheresi nella seconda metà del 2023 godevano delle bollette elettriche e del gas più basse di tutta l’Unione. E ciò grazie alla continuità delle forniture di petrolio russo, così come di gas, quest’ultimo reperito in buona parte tramite il gasdotto Turkstream. Per il resto dell’Europa, invece, le tariffe e i prezzi alla pompa di benzina sono aumentati sensibilmente senza penalizzare la Russia, dal momento che il petrolio di questo paese è continuato ad arrivare nel vecchio continente passando da altri intermediari, come l’India, e a un costo più alto.

È evidente che la decisione dell’Ucraina è stata studiata per colpire precisamente Budapest e Bratislava, i cui governi sono impegnati per una risoluzione diplomatica del conflitto. Zelensky cerca quindi di fare pressioni sui governi di Orban e Fico per ammorbidire le loro posizioni. Non è da escludere, anzi è molto probabile, che l’iniziativa di Kiev sia stata concordata con Bruxelles, da dove le proteste ungheresi e slovacche sono state in sostanza ignorate. Appare quanto meno singolare che l’UE continui a denunciare la deriva antidemocratica di Ungheria e Slovacchia, mentre nel concreto appoggi una misura che danneggia seriamente due paesi membri, messa oltretutto in atto da un regime ultra-autoritario e dominato da elementi neo-nazisti.

L’Ungheria, da parte sua, ha minacciato ritorsioni se Kiev non tornerà sui propri passi. Il ministro degli Esteri, Peter Szijjarto, ha annunciato che Budapest bloccherà lo stanziamento di fondi destinati a sostenere la guerra in Ucraina attraverso l’orwelliano “Strumento Europeo per la Pace”. Szijjarto ha poi ricordato che il suo paese fornisce più del 40% dell’energia elettrica ucraina, lasciando intendere che per il paese in guerra, già devastato dai bombardamenti russi contro moltissimi punti nevralgici della propria rete, potrebbero esserci ulteriori problemi in questo ambito. Anche la Slovacchia invia gas ed energia elettrica all’Ucraina, così che entrambe le forniture potrebbero fermarsi se non verrà riattivato il flusso del petrolio di Lukoil.

A far salire ancora di più le tensioni con l’Ungheria è stato il recente tour diplomatico di Orban, che in rapida successione ha incontrato Zelensky a Kiev, Putin a Mosca e il presidente cinese Xi Jinping a Pechino, prima di recarsi negli USA per il vertice NATO. In chiusura della tappa americana, il premier ungherese è stato ricevuto da Trump in Florida. Nella trasferta, Orban sembra avere presentato un piano di pace preparato proprio dall’ex presidente repubblicano e l’iniziativa ha fatto schizzare i livelli di isteria a Washington e nelle capitali europee.

Per punire Orban dell’iniziativa di pace è stata dunque rilanciata l’offensiva anti-ungherese, con strumenti maggiormente diversificati per via del fatto che l’Ungheria ha assunto la presidenza semestrale del Consiglio UE a inizio luglio. Alcune delle ritorsioni promesse e già attuate hanno un che di ridicolo e infantile, come il boicottaggio di riunioni a vari livelli organizzate dall’Ungheria. Il 25 luglio, ad esempio, un vertice tra ministri della Salute dell’Unione ha visto partecipare solo tre titolari dei rispettivi dicasteri, quelli di Italia, Malta e Bulgaria. Il mese prossimo, poi, un incontro più importante tra i ministri degli Esteri che doveva tenersi a Budapest è stato riprogrammato a Bruxelles, mentre alcuni governi avevano avanzato la proposta, poi bocciata, di organizzarlo addirittura a Kiev.

Da qualche settimana si parla poi insistentemente della possibile sospensione anticipata della presidenza ungherese del Consiglio UE, perché non in linea con i principi e i valori europei. Al di là degli orientamenti e dei giudizi sul governo di destra di Orban, gli attacchi di Bruxelles sono sempre strumentali e volti a influenzare le politiche populiste e sovraniste del gabinetto ungherese. La scelta da parte di Orban di mantenere intatti i rapporti con la Russia per non danneggiare gli interessi economici dal proprio paese dopo l’inizio della guerra in Ucraina non è mai stata digerita dall’Europa e ciò ha creato da subito un clima molto acceso e oggi sul punto di esplodere in seguito allo stop del petrolio russo da parte di Kiev.

Una delle caratteristiche principali delle politiche europee è però di essere puntualmente controproducenti, come confermano le (auto-)sanzioni imposte contro la Russia a partire dal febbraio 2022. Così, infatti, i tentativi di rimettere in riga Orban per via dei suoi rapporti con Mosca, ma anche con Pechino, rischiano di produrre l’effetto opposto. Il congelamento di fondi europei da destinare a Budapest è una delle armi di pressione preferite. Tuttavia, è probabile che l’insistenza su queste misure finirà per spingere l’Ungheria ancora di più verso Russia e Cina.

Ancora a proposito degli effetti indesiderati delle decisioni prese a livello UE, va ricordato che l’offensiva anti-ungherese potrebbe penalizzare paesi dell’Europa occidentale che in Ungheria hanno fatto affari in questi anni. In particolare, molte grandi aziende tedesche hanno raccolto i frutti degli ottimi rapporti tra Orban e il suo partito (Fidesz) e gli ambienti cristiano-democratici, soprattutto ai tempi della cancelliera Merkel. Con il vento decisamente cambiato in Europa negli ultimi anni, gli scenari si stanno evolvendo di conseguenza, creando inevitabili spaccature nell’Unione, così come sull’asse transatlantico.

Il governo ungherese è anche ai ferri corti con quello polacco a causa dell’Ucraina e le frizioni sono aumentate in questi giorni in seguito a una polemica relativa alle relazioni commerciali con la Russia. Le questioni più scottanti riguardano però Germania e Stati Uniti, dopo che Orban in un recente evento in Romania ha criticato l’atteggiamento di sottomissione del governo di Berlino dopo “l’atto di terrorismo portato a termine sotto la guida americana” contro il gasdotto Nord Stream.

Dichiarazioni simili suscitano inevitabilmente i malumori di Washington e alimentano il dibattito sulla necessità di imporre sanzioni o attivare altre “procedure di infrazione” contro l’Ungheria. Il tracollo dell’Ucraina e il probabile ritorno di Trump alla Casa Bianca dopo le presidenziali americane di novembre potrebbero però rimescolare le carte sia nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico sia negli equilibri UE, lasciando ancora una volta la maggioranza “democratica” dei governi europei a fare i conti le conseguenze del fallimento delle politiche di questi ultimi anni.

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