L’Unione Europea non se n’è ancora accorta ma molte cose stanno cambiando nelle prospettive del conflitto ucraino. Prima il presidente Volodymyr Zelensky ha riconosciuto che la guerra in Ucraina va conclusa il prima possibile incontrando il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano che è stato insignito dell’Ordine al Merito dell’Ucraina. Già questa è di per sé una notizia se si considera che nel settembre scorso il consigliere del presidente ucraino, Mikhailo Podolyak, aveva respinto il tentativo di mediazione della Santa Sede definendo il Papa “filorusso”.
«Penso che tutti capiamo che dobbiamo porre fine alla guerra il più presto possibile per non perdere più vite umane» ha detto Zelensky durante l’incontro aggiungendo in un’intervista alla BBC di ritenere possibile almeno tentare di porre fine alla guerra prima della fine dell’anno.
Le dichiarazioni del presidente ucraino sono state accolte positivamente dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, per il quale “questo è ovviamente meglio che affermare che qualsiasi contatto con la parte russa e con il capo dello Stato russo è escluso. Certamente, parlare di un dialogo è molto meglio che parlare dell’intenzione di combattere fino all’ultimo ucraino. Se la conversazione è seria, non possiamo ancora giudicarlo e bisognerà aspettare qualche azione concreta, se ce ne saranno”.
Lo stesso 24 luglio il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha detto a Pechino che l’Ucraina potrebbe essere disponibile a condurre negoziati “con la parte russa” quando Mosca “sarà pronta a farlo in buona fede”. Incontrando a Guangzhou l’omologo cinese, Wang Yi, il ministro ucraino ha invitato la Cina a svolgere un ruolo importante nella ricerca di una “pace giusta e stabile”: obiettivo che la Cina ha ufficializzato di voler perseguire.
Wang ha rassicurato che la Cina sostiene “tutti gli sforzi che favoriscono la pace nonostante le condizioni e i tempi non siano ancora maturi”. Il Cremlino ha commentato con cautela le parole di Kuleba che Peskov ha definito “in sintonia con la nostra posizione”.
Per Mosca uno dei nodi è rappresentato dal decreto con cui Volodymyr Zelensky a fine 2022 ha vietato i colloqui con la Russia di Vladimir Putin, decreto che dovrebbe venire annullato se Kiev vuole davvero negoziare.
Svolta o bluff?
Il 27 luglio Zelensky ha ribadito il suo obiettivo di voler creare entro la fine di novembre un piano d’azione per raggiungere la pace, in un’intervista esclusiva all’emittente giapponese NHK. Il leader ucraino ha spiegato che ci sono state proposte non ufficiali per congelare il conflitto, ma che Kiev non può rispondere alle richieste di cessate il fuoco mentre la Russia continua a occupare il suo territorio. E riguardo al percorso per porre fine alla guerra, ha sottolineato di aver “affidato l’incarico all’amministrazione presidenziale e a gruppi diplomatici. Il piano sarà completato entro la fine di novembre”.
Il presidente ha affermato che Kiev avvierà discussioni dettagliate con i paesi interessati sull’integrità territoriale e altre questioni. Lo scorso 15 luglio, Zelensky aveva espresso l’obiettivo dell’Ucraina di avere un piano pronto a novembre per consentire a Kiev di tenere un secondo summit internazionale sulla sua visione di pace in Ucraina, spiegando che anche i rappresentanti della Russia dovrebbero partecipare al vertice, che farebbe seguito al primo summit al quale Mosca non è stata invitata. “Mi sono prefissato l’obiettivo di avere un piano completamente pronto a novembre”, disse in quell’occasione Zelensky in conferenza stampa a Kiev. “E penso che i rappresentanti della Russia dovrebbero essere presenti al secondo summit”.
La strada è tutta in salita per diverse ragioni e Zelensky dovrebbe esserne consapevole. È evidente che la scadenza di novembre sarà utile a comprendere chi avrà vinto le elezioni negli Stati Uniti poiché in caso di successo di Donald Trump un disimpegno americano dal conflitto potrebbe apparire più probabile. Del resto Zelensky lo sa meglio di chiunque altro dal momento che Viktor Orban avrà senza dubbio chiarito a Kiev i termini dell’iniziativa varata da Trump.
Se davvero vuole trattare, Zelensky non ha le condizioni militari necessarie a pretendere il rispetto dell’integrità territoriale ucraina: se negoziasse oggi dovrebbe rinunciare a quattro regioni, tra sei mesi forse a sei. È ovvio peraltro che ogni ipotesi di cessione territoriale espone il presidente ucraino (il cui mandato è scaduto in maggio) alle rappresaglie degli ultra-nazionalisti favorevoli alla guerra ad oltranza.
Inoltre non è detto che le sempre più logorate truppe ucraine reggano al fronte fino a novembre e un tracollo militare amplierebbe il ventaglio delle opzioni in mano ai russi anche se non si può escludere di Zelensky punti solamente a ottenere un cessate il fuoco temporaneo utile a far tirare il fiato al suo esercito, addestrare nuove reclute e riempire per quanto possibile gli arsenali con armi occidentali.
Un’ipotesi sostenuta dall’utilizzo del termine “congelare il conflitto” che Zelensky ha pronunciato nell’intervista a NHK, ma anche dalle ultime dichiarazioni del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov i russi non sembrano disposti a fermare l’avanzata fino alla messa a punto di un accordo di pace definito, stabile e sostenibile nel tempo, in grado cioè di definire una nuova architettura di sicurezza nei confronti di UE e NATO.
Ucraina spaccata sui negoziati
Anche per queste ragioni è presto per comprendere quando e su quale base si potranno avviare trattative di pace anche tenendo conto delle richieste opposte dei due contendenti. L’Ucraina vuole il ritiro totale delle forze russe mentre Mosca pretende l’annessione di 4 regioni già in buona parte occupate militarmente e che Kiev non aderisca alla NATO né ospiti basi o militari occidentali.
Gli sviluppi diplomatici di questi giorni sono però di grande rilievo, anche se non mancano reazioni poco inclini al dialogo come quella di Podolyak per il quale siglare un accordo con la Russia per fermare la guerra equivarrebbe a firmare un patto con il diavolo. “Se volete firmare un accordo con il diavolo, che poi vi trascinerà all’inferno, beh, fate pure. Questo è ciò che è la Russia”.
Posizione forse condivisa da molti “falchi” a Kiev ma non c’è dubbio che la svolta di Zelensky e Kuleba guardi in faccia la realtà e punti ad affrontare con pragmatismo le crescenti difficoltà militari di Kiev, l’incapacità dell’Occidente di continuare a sostenerne lo sforzo bellico e la stanchezza della società ucraina per un conflitto che determina enormi perdite senza possibilità di vittoria all’orizzonte.
Un sondaggio dell’Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev ha rilevato che il numero di ucraini contrari a concessioni territoriali alla Russia in cambio della pace continua a diminuire. A luglio era del 55% (rispetto al 74% di dicembre 2023) mentre il 32% le accetterebbe per raggiungere la pace: inoltre un altro sondaggio evidenzia che il 40 per cento degli ucraini ha denaro a malapena per nutrirsi.
Il successo di Orban
Sul piano politico le aperture di Zelensky e Kuleba alle trattative appaiono con tutta evidenza il frutto della missione diplomatica del leader ungherese Viktor Orban che ha presentato a Kiev, Mosca, Pechino e Ankara la bozza di un piano di pace messo a punto con Donald Trump, intenzionato a chiudere in fretta il conflitto e la crisi con la Russia in caso di vittoria alle presidenziali di novembre.
Non a caso al termine del tour nelle quattro capitali, Orban è tornato a Mar a Lago da Trump per riferire le reazioni raccolte e poco dopo Trump ha avuto un colloquio telefonico con lo stesso Zelensky. Dalle successive dichiarazioni del presidente ucraino non è difficile ipotizzare che il candidato alla Casa Bianca abbia prospettato il suo piano di pace e abbia sottolineato che la sua amministrazione chiuderebbe il rubinetto di denaro e armi diretti a Kiev.
Se nella primavera del 2022 l’accordo di pace mediato dalla Turchia venne silurato da USA e Gran Bretagna perché “la guerra doveva continuare per logorare la Russia”, oggi che a essersi logorati sono soprattutto l’Ucraina e un Occidente stanco di una guerra che non riesce a vincere, le prospettive di pace vengono promosse da Trump e Orban e cavalcate da Pechino, ormai protagonista di round negoziali e diplomatici di primissimo rilievo anche negli scenari di crisi del Medio Oriente.
Punire l’Ungheria
In questo contesto appare ancora una volta del tutto anacronistica, marginale, isterica e irrilevante la durissima reazione dell’Unione Europea nei confronti dell’iniziativa diplomatica per la pace di Orban. La UE è giunta al punto di annullare una serie di incontri previsti a Budapest il mese prossimo in occasione del semestre di presidenza ungherese dell’Unione.
Josep Borrell, Alto rappresentante uscente per gli affari esteri dell’UE dimissionario (e in procinto di venire sostituito dall’estone Kaja Kallas, ancora più “falco” nei confronti di Mosca del socialista spagnolo), ha dichiarato il 23 luglio che all’Ungheria sarà impedito di ospitare la prossima riunione dei ministri degli esteri e della difesa a causa della posizione di Orbán sull’Ucraina e dei suoi sforzi diplomatici recenti.
“Posso dire che tutti gli stati membri, con una sola eccezione (la Slovacchia), sono molto critici su questo comportamento”, ha detto Borrell alla BBC. “Penso che sia stato appropriato mostrare questo sentimento e convocare le prossime riunioni del Consiglio degli esteri e della difesa a Bruxelles”. La decisione unilaterale di Borrell ha suscitato anche critiche: il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha dichiarato che “La Spagna non sostiene i boicottaggi nell’Unione Europea” mentre il lussemburghese Xavier Bettel ha descritto l’iniziativa di Borrell come “una sciocchezza” ma anche Francia, Germania e Paesi Bassi hanno espresso riserve.
Il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto ha commentato ironicamente: “Che risposta fantastica hanno escogitato. Non voglio ferire i sentimenti di nessuno, ma sembra di essere all’asilo”. Ma le pressioni degli altri membri di UE e NATO su Budapest non si fermano certo qui.
Sabato l’ambasciatore americano in Ungheria, David Pressman, ha replicato al premier ungherese, Viktor Orban, che ha accusato l’Europa di “seguire incondizionatamente la politica estera filo-democratica degli Stati Uniti, anche a costo di autodistruggersi” e puntato il dito contro Washington per le esplosioni del 2022 dei gasdotti Nord Stream.
Questa retorica, ha detto Pressman su X, “rischia di cambiare le relazioni dell’Ungheria con l’America”. Pressman ha anche criticato l’esplicito sostegno di Orban a Donald Trump come candidato alla presidenza americana. “Non abbiamo nessun altro alleato o partner che faccia una campagna simile, palese e instancabile a favore di un candidato specifico alle elezioni negli Stati Uniti d’America”, ha osservato l’ambasciatore, accusando Orban di diffondere “teorie cospirative del Cremlino sugli Stati Uniti. Non è certo quello che ci aspettiamo da un alleato”.
Budapest ha mostrato inoltre indignazione per la rinuncia della UE a premere sull’Ucraina affinché ripristini il transito del petrolio russo fornito dalla compagnia Lukoil diretto in Ungheria e Slovacchia tramite l’oleodotto Druzhba che attraversa il territorio ucraino, interrotto unilateralmente da Kiev.
“È inaccettabile che l’Unione Europea invece di proteggere i propri Stati membri giustifichi il ricatto dell’Ucraina riguardo alla sospensione del transito del petrolio dalla Russia” ha detto il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto. “Il difetto storico della burocrazia di Bruxelles è che la capacità dell’UE di difendere i propri interessi è oggi più debole. E la Commissione europea, invece di proteggere i due Stati membri, preferisce trovare delle scuse per giustificare il comportamento ricattatorio dell’Ucraina”.
Il transito del petrolio russo sospeso rappresenta un terzo delle importazioni ungheresi e il 45% di quelle slovacche. Sabato il capo di gabinetto del governo ungherese, Gergely Gulyas, aveva dichiarato che l’Ucraina vuole fare pressione su Ungheria e Slovacchia a causa delle loro continue richieste di cessate il fuoco e negoziati di pace.
“L’Ucraina ci sta ricattando a causa della nostra posizione a favore della pace, che va contro gli accordi UE”, ha detto il capo di gabinetto, sottolineando che se la situazione non dovesse essere risolta, l’Ungheria potrebbe trovarsi ad affrontare una carenza di carburante entro settembre. L’Ungheria ha chiesto la mediazione dell’UE per risolvere la questione e insieme alla Slovacchia minaccia azioni legali e di interrompere i rifornimenti di energia elettrica all’Ucraina.
“L’Ungheria non vuole fare un contro-ricatto all’Ucraina. Speriamo che l’UE ci aiuti, ma se così non fosse, dovremo cercare altre soluzioni”, ha dichiarato Orban. In effetti c’è molto di paradossale in un’Europa incapace in oltre due anni e mezzo di guerra di mettere a punto una solo proposta di negoziato che ostracizza l’Ungheria di Orban colpevole di aver proposto (con qualche successo a quanto pare) una trattativa per far cessare il conflitto ucraino.
All’Europa sembra ancora una volta sfuggire la rapidità con cui sembra potersi evolvere la crisi ucraina. Del resto Ursula von der Leyen è stata rieletta alla presidenza della Commissione Europea dopo un discorso in cui ha posto l’Unione al fianco dell’Ucraina “fino alla vittoria”. Una vittoria in cui a quanto sembra neppure gli ucraini credono più.
di Gianandrea Gaiani
Fonte: Analisi Difesa