Il vertice NATO di questa settimana a Washington ha fatto registrare i soliti proclami altisonanti e la retorica ambiziosa dei vari leader presenti, in contrasto con le condizioni di avanzata crisi dell’alleanza, sia per il complicarsi in maniera critica della guerra in Ucraina sia per i crescenti problemi politici interni in svariati paesi membri. Soprattutto la stampa americana si sta concentrando sulla “performance” di un presidente Biden a un passo dall’essere messo da parte come candidato democratico alle elezioni di novembre, mentre la preoccupazione principale dei partecipanti al summit è di proiettare sicurezza e unità d’intenti nel sostegno a oltranza all’agonizzante regime di Zelensky.

 

I problemi cronici della NATO sono da ricondurre alle contraddizioni interne a un organismo che ha da tempo esaurito la sua funzione e che viene tenuto in vita sostanzialmente come fonte di profitti per i produttori di armi americani e come strumento per la promozione degli interessi strategici di Washington in Europa. Sull’appoggio all’Ucraina, ad esempio, gli interventi di Biden e del segretario generale Stoltenberg sono stati perentori, ma dietro le apparenze circolano malumori crescenti e la consapevolezza del fallimento inevitabile dell’intera operazione.

Molti leader occidentali si rendono perfettamente conto che le promesse e gli impegni a fornire sempre e comunque nuovi armamenti a Kiev servono più che altro a nascondere la ricerca di una via d’uscita accettabile dalla crisi. Per questa ragione, non è da escludere che esista qualche consenso per la recente missione di pace non ufficiale del primo ministro ungherese Orban in Ucraina, Russia e Cina. Un’iniziativa, quest’ultima, secondo alcuni più o meno coordinata con il probabile prossimo inquilino della Casa Bianca – Donald Trump – la cui ombra si proietta sul vertice NATO in corso rendendo ancora più cupe le prospettive per il Patto Atlantico.

Se di provvedimenti concreti si può parlare, quelli presentati o ratificati in questi giorni sono principalmente la creazione di un “ufficio NATO” in territorio ucraino, per supervisionare e coordinare gli aspetti logistici del trasferimento di armi, e la decisione di donare a Kiev ulteriori sistemi di difesa antiaerea per cercare di tamponare le devastanti incursioni dei missili russi. Nel primo caso, la riorganizzazione allo studio demolisce definitivamente la pretesa della NATO di non essere coinvolta in maniera diretta nella guerra contro la Russia. Vanno poi considerate le conseguenze di un eventuale bombardamento russo contro questo “ufficio”, oggettivamente un obiettivo legittimo della campagna militare di Mosca.

Per quanto riguarda invece le batterie di Patriot e altri sistemi antimissili, ne dovrebbero arrivare in Ucraina altri cinque da USA, Germania, Romania, Olanda e Italia. Il governo di Roma, a differenza dei partner, dovrebbe donare però un sistema SAMP-T, prodotto assieme alla Francia e già utilizzato dalle forze ucraine in questi mesi. Centinaia sono invece i missili “intercettori” promessi, anche se l’efficacia di questa nuova tranche, se mai dovesse materializzarsi, resta a dir poco dubbia. La Russia ha documentato la distruzione di numerose batterie di Patriot e di altri sistemi forniti dall’Occidente almeno a partire dallo scorso anno.

Zelensky e la sua cerchia elemosinano con insistenza armi ed equipaggiamenti di questo genere, oltre a un numero improbabile di caccia, ma la relativa riluttanza di alcuni dei suoi sponsor ha reso finora macchinoso lo sblocco di nuovi “aiuti”. È probabilmente anche per questa ragione che, giusto alla vigilia del vertice NATO di Washington, è stata lanciata un’operazione di propaganda ben coordinata tra media ufficiali e governi occidentali per attribuire alla Russia quella che viene presentata come l’ennesima strage insensata di questa guerra.

Lunedì ci sarebbe stato cioè un bombardamento russo sull’ospedale per bambini Okhmatdyt a Kiev. L’evento è stato accompagnato dai relativi titoli sensazionali e da immagini drammatiche, debitamente corredate da soccorritori ricoperti di macchie di sangue di dubbia autenticità. Se i missili sugli ospedali di Gaza negli ultimi nove mesi sono stati riportati tutt’al più con notizie sottotono dai media “mainstream”, quanto accaduto lunedì a Kiev ha invece trovato ampissimo spazio e parole di ferma condanna nei confronti di Mosca, senza nessun interrogativo sulle circostanze dell’accaduto.

Tutte le prove documentali emerse indicano al contrario che il missile caduto sull’ospedale non è russo, ma un ordigno della contraerea ucraina finito per errore o in maniera deliberata sulla struttura. Alcuni analisti indipendenti hanno rilevato le incongruenze della versione ufficiale, che non giustificano la condanna subito emesso contro la Russia. Il dettaglio più eclatante riguarda i danni relativamente contenuti riportati dall’edificio, assieme al numero ridotto di vittime (2).

Il bombardamento rientrerebbe nell’operazione scatenata sulla capitale ucraina lunedì dalla Russia e che ha registrato la distruzione di svariati obiettivi militari. Un video circolato in rete, in particolare, sembra smentire la tesi di Kiev. Alcuni missili Iskander russi sono ripresi mentre cadono perpendicolarmente sugli obiettivi individuati e subito dopo si osservano esplosioni massive. In seguito e dalla stessa angolazione, appare un altro missile che viaggia con una traiettoria diversa e mostra un profilo tutt’altro che simile ai precedenti, dando appunto l’idea di un missile della contraerea ucraina. L’impatto che si intuisce sull’ospedale, situato dietro a un grattacielo in primo piano, risulta decisamente meno potente e, infatti, le conseguenze per l’ospedale non sono state così devastanti come per gli effettivi bersagli dell’incursione russa.

Tutto questo naturalmente non conta nulla per stampa e governi in Occidente. L’importante è che l’operazione di propaganda abbia ottenuto il risultato di convincere l’opinione pubblica più distratta della natura criminale delle operazioni belliche di Putin e della Russia, così da creare consensi – o quanto meno perderne il meno possibile – per le iniziative promosse nel vertice NATO di Washington.

Nel comunicato finale del summit non mancherà inoltre la dichiarazione relativa al futuro ingresso dell’Ucraina nella NATO. Già in queste ore si parla di un percorso “irreversibile”, ma nel contempo non saranno offerte garanzie a Zelensky, né le vaghe promesse, così come i recenti “accordi sulla sicurezza” stipulati da Kiev con alcuni paesi occidentali, faranno molto per impedire che Mosca – con la forza o attraverso il negoziato – imponga lo status di neutralità al paese dell’ex URSS.

Il segretario generale uscente Stoltenberg, da parte sua, ha ricordato martedì le ragioni della guerra provocata dalla NATO. “Il costo e il rischio più grandi”, ha spiegato l’ex premier norvegese, “sono che la Russia vinca in Ucraina”, poiché i leader “autoritari” di Cina e Corea del Nord “si sentirebbero rafforzati” dal fatto che Mosca riesca a conquistare il proprio vicino. L’esito di questa guerra, perciò, “delineerà l’orizzonte della sicurezza globale nei prossimi decenni”. La sconfitta della NATO in Ucraina, in sostanza, non è accettabile perché consegnerebbe un successo strategico decisivo alla Russia e ai suoi partner impegnati nel rimodellamento delle strutture della governance internazionale a discapito dell’Occidente. Uno scenario simile potrebbe avere effetti dirompenti sia sulla tenuta dell’Alleanza sia su ciò che rimane del percepito senso di superiorità degli USA e dei suoi alleati “democratici”.

La prospettiva poco incoraggiante che si trova di fronte la NATO giustifica in apparenza l’ostentazione di unità e forza che pervade puntualmente le dichiarazioni dei leader di molti paesi membri e quelle rilasciate in questi giorni a Washington. L’aumento della produzione di armi, i preparativi per la mobilitazione di centinaia di migliaia di uomini in caso di guerra diretta con la Russia, l’impegno ad assistere l’Ucraina “per quanto sarà necessario” e i piani di espansione corrispondono però a proclami tutto sommato vuoti.

Ciò che colpisce è insomma il contrasto tra la grandiosità dei piani proposti e le effettive capacità belliche dell’Alleanza, costretta a fare i conti con forze centrifughe crescenti (Turchia, Ungheria, Slovacchia) e, soprattutto, con un indebolimento oggettivo determinato proprio da quello stesso conflitto che era stato invece provocato appositamente per mettere in ginocchio la Russia. Dopo due anni e mezzo di guerra, molti paesi NATO si ritrovano così con scorte di armi svuotate, un apparato industriale incapace di stare al passo con Mosca e un’opinione pubblica sempre più scettica circa il ruolo e l’utilità del Patto Atlantico.

I leader riuniti a Washington o, quanto meno, la maggioranza di essi non hanno tuttavia nessun piano alternativo al fallimento, perché qualsiasi esso sia implicherebbe l’ammissione della sconfitta, il ridimensionamento delle ambizioni occidentali e l’apertura alle spinte multipolari in atto nel pianeta. Niente di tutto questo rientra nei piani di una classe politica di livello morale e intellettuale infimo, anche se il continuare sulla strada nuovamente tracciata questa settimana nella capitale americana potrebbe portare l’umanità alla catastrofe definitiva.

Il teatro che sta andando in scena a Washington serve infine come tentativo di rimediare alla situazione di profonda crisi che leader come Biden, Macron o Scholz devono fronteggiare nei rispettivi paesi. Invece di fare un passo indietro dalle politiche guerrafondaie perseguite finora e accettare le proposte diplomatiche russe, tutti cercano l’escalation, finendo per favorire quelle forze politiche, quasi sempre di estrema destra, che cavalcano l’opposizione popolare contro la guerra e le spinte alla militarizzazione.

Sul fronte opposto, perciò, le minacce e i piani della NATO, reali o illusori che siano, non possono che essere accolti a Mosca come pericolosi avvertimenti circa l’attitudine dei nemici della Russia e contro i quali è necessario prepararsi di conseguenza. Come ha spiegato l’ex analista CIA e commentatore americano Larry Johnson sul suo blog, i leader NATO, in definitiva, sembrano non essere minimamente impensieriti “dalle capacità di Mosca di rispondere all’escalation [dello scontro]”, né “dall’impotenza dell’Alleanza” se dovesse essere costretta a entrare in un conflitto diretto con la Russia.

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