L’individuazione del vero obiettivo di Israele nella gestione degli eventi legati all’attacco del fine settimana in una località delle alture del Golan siriane occupate illegalmente è di importanza fondamentale per capire se il conflitto in corso a Gaza si allargherà a breve al Libano e, potenzialmente, a tutto il Medio Oriente. L’uccisione di dodici ragazzi drusi ha dato infatti subito l’opportunità al regime genocida di Netanyahu di alzare la retorica delle minacce contro Hezbollah, indicato immediatamente come responsabile dell’accaduto. La logica del prolungamento della guerra, per evitare di fare i conti a livello politico e giuridico con i fatti di questi mesi, è d’altra parte un elemento acquisito nella strategia criminale del primo ministro. Allo stesso tempo, restano fortissimi dubbi in Israele, così come a Washington, sull’opportunità di fare esplodere il fronte libanese. Un’eventualità, quest’ultima, che potrebbe non solo trascinare nell’abisso l’intera regione, ma segnare anche l’inizio del collasso dello stato ebraico e del progetto sionista.

 

Fare chiarezza sulla strage avvenuta nel villaggio druso di Majdal Shams dovrebbe essere la priorità assoluta, vista la posta in gioco. Come sempre, le parti che potrebbero trarre maggiore vantaggio dalla strumentalizzazione dei fatti non hanno invece perso tempo nell’individuare i presunti autori, nonostante l’emergere di indizi, se non vere e proprie prove, a sostegno della tesi opposta. È anzi proprio l’urgenza di occultare la realtà a motivare la propaganda proveniente da Tel Aviv e Washington.

Hezbollah ha da parte sua smentito categoricamente di avere preso di mira Majdal Shams, a poca distanza dal confine libanese e mai colpita dalle operazioni del partito-milizia sciita dall’ottobre scorso. La composizione degli abitanti della cittadina, a maggioranza araba drusa, che in larga misura si oppongono all’occupazione israeliana, rende improbabile la versione offerta da Netanyahu. Molti altri elementi contribuiscono a scartare anche la teoria dell’errore commesso da Hezbollah. Sono le stesse dichiarazione delle autorità israeliane a rivelare in qualche modo l’implausibilità delle accuse.

Tel Aviv ha parlato di uno specifico missile in dotazione di Hezbollah, noto come “Falaq-1”, ma le circostanze non fanno pensare a questo ordigno come il responsabile dell’attacco. Le immagini del luogo dell’impatto mostrano, per cominciare, un cratere decisamente troppo piccolo per la quantità di esplosivo della testata del “Falaq-1”, ovvero circa 50 kg. Questo missile è tra i più potenti, oltre che precisi, nell’arsenale di Hezbollah e i suoi effetti distruttivi sono stati documentati in varie occasioni nei mesi scorsi. Secondo alcuni esperti militari, la testata abbattutasi sabato su Majdal Shams ammonterebbe piuttosto a circa 10 kg., compatibile cioè con un missile Tamir israeliano.

Questo fatto rafforza l’ipotesi di un lancio finito fuori controllo dal sistema di difesa israeliano “Iron Dome”. Errori simili sono stati registrati in varie occasioni nel quadro degli scontri con Hezbollah di questi mesi, il più grave dei quali prima dello scorso fine settimana risaliva a inizio novembre, quando venne colpito per errore un ospedale di Tel Aviv. L’altro elemento “tecnico” che potrebbe scagionare Hezbollah è il tipo di detonazione osservata all’impatto. Una grande palla di fuoco, come quella di sabato, è infatti più probabile venga causata da un razzo che trasporti una quantità consistente di carburante, come appunto quelli in dotazione del “Iron Dome” israeliano, progettati per avere una gittata attorno ai 70 km. Il “Falaq-1”, invece, copre in genere distanze di circa 10 km.

Va anche sottolineato che testimoni presenti sulla scena dell’esplosione, tra cui un membro del servizio di emergenza israeliano, hanno sostenuto di avere visto un missile “intercettore” israeliano abbattersi sul gruppo di ragazzi drusi. Alcuni residenti di Majdal Shams hanno inoltre denunciato le autorità dello stato ebraico, poiché le sirene, che annunciano un bombardamento in arrivo e solitamente efficienti, sono suonate sabato scorso appena cinque secondi prima dell’impatto, rendendo impossibile raggiungere i rifugi.

Se dovesse essersi quindi trattato di un ordigno israeliano, resterebbe da verificare se si sia in presenza di un errore/malfunzionamento o di un attacco deliberato con funzione di “false flag”. L’evolversi della situazione nelle ore successive suggerisce che il regime di Netanyahu fosse già pronto a lanciare un’operazione di propaganda per giustificare un attacco su vasta scala contro Hezbollah in Libano. Molti commentatori hanno fatto notare come gli eventi nelle alture del Golan abbiano seguito gli incontri ad altissimo livello di Netanyahu a Washington, dove potrebbe avere incassato l’appoggio  dell’amministrazione Biden-Harris, ovvero l’assicurazione di un intervento a fianco di Tel Aviv in caso di guerra aperta con il “Partito di Dio” e, possibilmente, le altre componenti della Resistenza, incluso l’Iran.

Questo è quanto meno lo scenario proposto da un Netanyahu sempre più isolato e fuori controllo. La testata on-line americana Axios, che ha solitamente contatti affidabili dentro l’apparato di governo USA, ha scritto però che la Casa Bianca avrebbe nuovamente avvertito il primo ministro israeliano a muoversi molto cautamente sul fronte libanese, perché “la situazione potrebbe probabilmente diventare fuori controllo”. Le raccomandazioni americane hanno a che fare ufficialmente col timore di un possibile contagio del caos al resto della regione mediorientale, che coinvolgerebbe l’amministrazione Biden in un conflitto generalizzato in piena campagna elettorale. Ciò è senz’altro vero, anche perché una guerra aperta in Libano congelerebbe ogni trattativa per una tregua a Gaza, ma le preoccupazioni sono legate in realtà anche alle stesse conseguenze che attendono Israele e, di riflesso, gli Stati Uniti.

Numerosi segnali indicano che le forze dello stato ebraico sono impreparate ad affrontare un secondo fronte contro un nemico formidabile come Hezbollah, infinitamente più preparato e meglio armato di Hamas. È singolare che fino a pochi giorni prima della nuova escalation libanese, erano gli stessi ambienti israeliani a mettere in guardia da passi falsi al confine settentrionale. Tra i più recenti e dettagliati, era stato a inizio luglio un rapporto dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, un “think tank” israeliano vicino all’establishment militare, a valutare i rischi di una guerra contro Hezbollah.

Successivamente sparito dai radar dei media ufficiali, lo studio prospettava serissime conseguenze per la tenuta stessa della società civile israeliana, fino a mettere in dubbio “le capacità [da parte dello stato ebraico] di riprendersi” da un’eventuale guerra di questo genere. Gli autori della ricerca partivano dai danni già provocati da nove mesi di scontri a intensità relativamente bassa con Hezbollah, tra cui almeno 60 mila coloni sradicati dalle aree settentrionali, per poi mettere il governo e i vertici militari di fronte al livello di distruzione che un arsenale nutrito e sofisticato come quello a disposizione del “Partito di Dio” potrebbe causare in ogni angolo di Israele. A questo scenario si deve collegare almeno la recente diffusione da parte di Hezbollah di alcuni filmati, ripresi da droni, che documentavano una lunga serie di obiettivi ultra-sensibili individuati in territorio israeliano, pronti a essere presi di mira in caso di un passo falso di Tel Aviv.

L’ostentazione di sicurezza di Netanyahu nasconde quindi serie inquietudini per un’avventura militare che, se anche sembra oggi vicinissima, potrebbe portare a una sconfitta epocale per lo stato ebraico. Non è evidentemente semplice valutare gli equilibri interni al regime né distinguere la realtà dalla propaganda, ma tra le righe circola più di un segnale in controtendenza. Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Oren Marmorstein, ha scritto ad esempio domenica in un post su X (ex Twitter) che, alla luce degli eventi sulle alture del Golan, Hezbollah ha l’ultima occasione per evitare la guerra accettando di ritirare i propri uomini al di là del fiume Litani, cioè dall’area di confine con Israele per creare quella zona cuscinetto che permetterebbe ai coloni di tornare nelle loro abitazioni e sollevare Netanyahu da una parte delle pressioni politiche a cui è esposto.

L’addetto stampa israeliano minacciava poi una guerra devastante per il Libano, ma la “proposta” che in questo modo viene presentata a Hezbollah rivela una strategia che mette al primo posto una risoluzione della crisi che eviti l’opzione militare. Ancora, domenica Israele ha condotto una serie di bombardamenti in Libano contro presunti obiettivi legati a Hezbollah. Per lo più, l’iniziativa è stata presentata come il preludio a un’operazione di intensità maggiore in risposta all’attacco sulle alture del Golan, anche se lo stesso capo di Stato Maggiore delle forze sioniste, generale Herzi Halevi, ha rilasciato una dichiarazione che potrebbe lasciare intendere che la ritorsione è per il momento completata.

La vicenda di queste ore ha comunque ribadito il carattere del tutto eccezionale del conflitto in corso, con un’entità, come quella israeliana, che ha di fatto perso la sua residua legittimità dopo quasi dieci mesi di atrocità indicibili, ma che, grazie all’appoggio di governi e media occidentali complici, continua a proiettare una sorta di superiorità morale che è semplicemente oscena. A questo proposito, Netanyahu, i suoi partner di governo fascisti, i vertici militari e il governo americano hanno espresso sconcerto e indignazione per l’attacco nel villaggio del Golan lo stesso giorno in cui Israele ha distrutto deliberatamente l’ennesima scuola a Gaza che ospitava rifugiati palestinesi, uccidendone 30 e ferendone un altro centinaio.

L’episodio si aggiunge alle decine simili registrati in questi mesi e fa salire il bilancio dei bambini palestinesi massacrati a una cifra spaventosa e difficilmente quantificabile, ma certamente superiore a ventimila. Con questo bilancio, è raccapricciante il fatto che proprio una strage di minori, molto probabilmente causata da un missile israeliano, possa fornire l’occasione al regime di Netanyahu e ai suoi alleati in Occidente l’occasione per allargare il conflitto, con conseguenze ancora più gravi di quelle a cui si sta assistendo a Gaza.

Ugualmente incredibile è il fatto che lo sdegno espresso per l’attacco di sabato dal regime israeliano riguardi un territorio (le alture del Golan) occupato illegalmente e una popolazione (arabi drusi) che per la maggior parte non accetta l’occupazione sionista. Occupato nella guerra dei Sei Giorni nel 1967, il Golan siriano è stato poi annesso da Israele nel 1981. Questo status non è riconosciuto dalla comunità internazionale, ma, grazie alla protezione americana, il regime sionista opera regolarmente in violazione del diritto internazionale senza pagare in pratica nessuna conseguenza. Molti abitanti drusi delle alture continuano a identificarsi come siriani e rifiutano la cittadinanza israeliana. Una prova del clima prevalente sono state le proteste e l’allontanamento forzato dai funerali dei ragazzi uccisi a Majdal Shams del ministro israeliano delle Finanze di estrema destra, Bezalel Smotrich, il quale cercava di capitalizzare politicamente la tragedia appena accaduta.

Ancora una volta, insomma, l’evolversi della situazione al confine con il Libano dipenderà dal gioco di equilibri tra gli interessi di Tel Aviv e Washington, nonché delle varie fazioni all’interno dei governi e degli apparati militari dei due alleati e dal peso del “deterrente” di Hezbollah. Un vertice governativo di emergenza ha assegnato a Netanyahu e al ministro della Difesa l’autorità di decidere i tempi e le modalità di eventuali iniziative in risposta all’attacco di sabato, ma ciò non comporta necessariamente che questi poteri verranno utilizzati. Il gioco di Netanyahu, che intende spingere sempre più in là i limiti della crisi, rischia di esplodere prima o poi tra le mani del premier/criminale di guerra. A quel punto, la reazione dell’Asse della Resistenza non potrebbe che abbandonare ogni cautela e toccherebbe in sostanza agli Stati Uniti la decisione di infiammare ancora di più la situazione o finire per raccogliere i cocci del regime sionista.

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